Potrebbe sembrare strano, ma padre Durrwell ha ragione quando aggiunge che “la vita della gloria è un perpetuare la sua morte”. La vita che Gesù conduce dopo la resurrezione – la “vita della gloria” – non cancella gli eventi della Settimana Santa, ma li porta avanti oltre la tomba. Sulla croce, Gesù si offre completamente, in obbedienza amorevole al Padre che lo ha mandato e, malgrado il nostro rifiuto, nell’amore per coloro a cui è stato mandato. Ed è proprio Gesù in questa forma – Gesù come dono perfetto – che risorge dalla tomba.
“La vita della gloria è un perpetuare la sua morte”, ed è così proprio perché la morte di Cristo è il momento della vittoria. La resurrezione, in noi come in Cristo, è il portare avanti e il rendere vivo tutto ciò che la carità divina vuole che siamo. Risorgiamo portando in qualche modo tutto ciò che siamo diventati venendo configurati all’amore di Dio. “Stendi la tua mano, e mettila nel mio costato” (Gv 20, 25), o per quanti si sono “rivestiti di Cristo” (Gal 3, 27) come Bartolomeo, Pietro e Lucia: “Tocca la mia pelle…”, “Osserva la mia testa…”, “Guarda i miei occhi…”.
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Ancora una volta, non si tratta di immaginare i santi in questo modo preciso. San Giovanni insegna che “saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”, ma comunque “ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Gv 3, 4). Paolo, parlando della condizione del corpo in questa vita, dice che “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio” (1 Cor 15, 50).
L’Apostolo si chiede quindi cosa possiamo dire della resurrezione di Cristo e dunque anche della nostra.
Scrivendo ai Corinzi, afferma la realtà della resurrezione di Gesù: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15, 3-4), e “se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Cor 15, 14). Affida poi alla nostra immaginazione l’analogia con un seme: “quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco… Si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza” (1 Cor 15, 37, 42-43).
Tutto è soggetto a Colui che dice “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21, 5), e che lo fa non cancellando il passato, ma assumendo e rendendo vivo tutto ciò che la divina carità ci ha chiamati ad essere. “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è il tuo pungiglione?” (1 Cor 15, 54-55).
[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]