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Social network fa rima con frustrazione? Per Vittorino Andreoli (e altri) sì…

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Lucandrea Massaro - Aleteia Italia - pubblicato il 05/04/18

La crisi della figura paterna, e dunque della trasmissione dei valori, alla base dell'infelicità dei millennials che si rifugiano nel narcisismo
«Dopo le violazioni sulla privacy, Facebook andrebbe chiuso. Lì abbiamo perso l’individualità, crediamo di avere un potere che è inesistente, lì viene violato il nostro secretum. L’individuo non sta nelle cose che mostra ma in ciò che non dice. Invece i social ci spingono a dire tutto, ci banalizzano. Ora, io non so nemmeno come si usa quella roba, ma sappiamo tutto delle persone prima di stringere loro la mano. Le relazioni invece devono avere un fascino, sono scoperta. I social sono un bisogno di esistere perché siamo morti. Creano una condizione di compenso per le persone frustrate».

E’ questo uno dei passaggi salienti della bella intervista che Vittorino Andreoli ha concesso a Il Giornale in occasione dell’uscita del suo nuovo libro “Il Silenzio delle pietre” (Rizzoli). Lo psichiatra veronese, classe 1959 è da sempre un punto di riferimento quando si parla di psiche e anche in questo caso non delude e ci mette di fronte a problemi che spesso non vogliamo vedere, quelli della nostra quasi endemica dipendenza dai social network. Il caso della compromissione dei dati personali di Facebook è solo un campanello (un campanaccio…) d’allarme per un mondo che non sa più cosa sia la privacy, ma soprattutto che non sa più scoprire l’altro-da-sé.

«Mai. Siamo intossicati da rumori, parole, messaggi e tutto ciò che occupa la nostra mente nella fase percettiva. Il bisogno di solitudine è una condizione in cui poter pensare ancora. Oggi sono morte le ideologie, è morta la fantasia. Siamo solamente dei recettori. Ho proiettato il libro nel 2028, un giochetto per poter esagerare certe condizioni, un po’ come fece Orwell nel ’49 quando scrisse 1984. Io immagino che ci sia un acuirsi della condizione di oggi per cui noi siamo solo in balia di un empirismo pauroso, dove facciamo le cose subito, senza pensarci».

E quando pensa ai millennials, Andreoli si dice preoccupato, e individua nella frustrazione dei padri moderni uno dei problemi da risolvere

«Io sono molto preoccupato. Non siamo più capaci di aiutarli. Gli strumenti abituali funzionano poco. È così cambiata la società che non abbiamo gli strumenti adatti. Mancano gli esempi dei padri che, a loro volta, hanno bisogno di non essere frustrati. Il male non è mai singolo. C’è qualcosa che non funziona a livello sociale».

In questo senso è interessante che la diagnosi della scomparsa del padre sia condivisa anche da altri specialisti della psicologia che vedono nel mondo effimero e istantaneo dei social network lo specchio di questa crisi collettiva.

Gustavo Pietropolli Charmet è l’autore del recente saggio L’insostenibile bisogno di ammirazione(Laterza), studio che approfondisce l’individualismo e la perpetua ricerca di gratificazione che ha invaso prepotentemente lo spazio pubblico e privato dei rapporti umani. L’autoreparte dal presupposto che la scomparsa del Patriarcatoe del Padrecome figura di riferimento e portatore di determinati valori, abbia portato a una sempre più forte percezione del Sé e, di conseguenza, all’individualismo e al narcisismo. Nel libro viene quindi indagato l’insaziabile bisogno di ammirazionela cui manifestazione più evidente è proprio l’ossessione per il numero di like che si ottengono sui social network: quando i like non si ottengono, invece, subentra la vergogna, i disturbi alimentari e diversi stati di sofferenza mentale (Il Libraio).


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In qualche misura se ne deve essere accorto anche Steven Spielberg, che nel suo ultimo film, l’immaginifico Ready Player One, ispirato all’omonimo romanzo di Ernest Cline, esplora anche questa dimensione: la realtà e le relazioni filtrate da uno schermo, da una identità fittizia, da una ricerca di evasione da se stessi e dalla propria condizione di frustrazione

Alla fine del film (attenzione SPOILER) la decisione dei protagonisti di lasciare che il mondo virtuale di Oasis (a metà tra social network, gioco online e simulazione 3D) resti chiuso almeno due giorni a settimana, una disconnessione forzata per tenere aperta la porta alle relazioni autentiche e non filtrate. Avrebbero questo coraggio i giganti del web o essi traggono forza (e profitto) proprio dalla nostra dimensione di debolezza e di fragilità?

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