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Mauro Biglino? Gli danno torto sia gli ebrei antichi e credenti sia quelli atei e moderni

SIGMUND FREUD - MAURO BIGLINO
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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 05/04/18
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Da circa mezzo secolo in qua la fantasiosa tesi della paleoastronautica si è scavata una certa nicchia di pubblico, tra Stati Uniti ed Europa: riallacciandosi ad essa, e servendosi di un’editrice amica, un appassionato di letteratura ebraica ha avviato un florido business che ha fatto promanare da libri complottisti perfino delle serie di fumetti. Osservare le fallacie del suo incedere è noioso e snervante, ma può risultare utile. Oggi rispondiamo all’“obiezione principale” di Mauro Biglino sulla base degli antichi traduttori della prima versione della Bibbia in una lingua non semitica e su quella, più moderna e laica, di Sigmund Freud, che oltre a essere padre della psicanalisi duellò per tutta la vita – da quell’ebreo ateo che fu – con “l’uomo Mosè”.Qualcuno ricorderà forse che tempo fa mi occupai di Antico e Nuovo Testamento, libri senza Dio, il penultimo libro di Mauro Biglino (l’ultimo l’anno scorso: il 2017 ci ha regalato anche la revisione dei libri Veda!). Mi ero ripromesso all’epoca di passare in rassegna gli errori, le contraddizioni e le contraffazioni di cui l’autore aveva infarcito il suo testo “a tesi”. Poi ho tralasciato la cosa: i miei interessi (esegesi, teologia, storia) mal si conciliano con la fantascienza, e quest’ultima facilmente mi viene in uggia. Ogni promessa, però, è debito, e del resto vedo che quel vecchio articolo continua a macinare parecchie letture ogni giorno: evidentemente la domanda c’è, dunque sarà opportuno offrire una confutazione serrata alle tesi di Mauro Biglino.

Forse il problema più serio, nell’affrontarle, è che tutto il suo impianto manca di una vera organicità: normalmente, nella controversistica, i disputanti riescono a individuare nelle idee dell’avversario una certa gerarchia, un’armonia delle parti che – proprio come in un organismo vivente – rende chiaro quali sono gli organi vitali e quali no. Si colpisce allora al cuore la tesi avversaria smascherando la fallacia centrale, quella da cui, a cascata, si smontano le altre.

Ora, una tesi centrale nelle teorie di Mauro Biglino non c’è: l’autore ha un bel dire e ripetere che la questione fondamentale sarebbe quella del plurale di Elohîm. Non è così: la questione di “Elohîm plurale/singolare” è relativamente difficile da buttare giù… solo in quanto non sta in piedi di suo. Ricordiamo:

  1. che l’uso di Elohîm come plurale tantum sia attestato in tutto il semitico nord-occidentale è un’evidenza filologica a prova di bomba;
  2. che nelle Scritture bibliche si attestino ricorrenze di Elohîm come veri plurali – e che dunque postulano l’esistenza di altre divinità oltre al Dio di Israele – è la cosa più normale del mondo: che io dica a un induista “Shiva non potrà salvarti” non può essere addotto come prova della mia credenza nell’esistenza di Shiva (ovvero poiché innegabilmente Shiva esiste, almeno nelle credenze di alcuni uomini, tutti gli uomini possono parlarne concedendogli un certo grado di esistenza – quello dei personaggi di fantasia – e tuttavia negandogli il grado di esistenza propriamente detto, quello che può supportare l’azione e la passione); infine,
  3. che da un lato si ostenti riguardo asettico per le fonti, quasi come se potessero risultare parlanti al di là del proprio sitz im-Leben, e dall’altro si introiettino nei testi categorie anacronistiche è un’incoerenza metodologica tale da inficiare ogni considerazione – anche quelle che, prese singolarmente, sono in sé stesse fondate e ragionevoli.

Cosa vuol dire quest’ultimo punto? Una cosa che Biglino fa di continuo, per quanto la dissimuli: periodicamente ripete di volersi attenere al nudo testo, salvo poi operare censure previe, sul testo stesso, in base a presupposti ermeneutici extra-testuali. Il più ricorrente di questi è l’affermazione che «nella Bibbia non v’è nulla di religioso»: il gioco di prestigio riesce, a Biglino, perché da una parte si coartano a forza, nella Bibbia, i concetti di “Dio”, di “spirituale” e di “sacro” come sono stati distillati da tremila anni di riflessione giudaico-cristiana, e dall’altro gli stessi testi addotti sono sempre parziali, mai presi veramente sul serio nella loro integralità.

Cercheremo di darne un saggio, nelle prossime settimane, a partire dai capitoli centrali di Antico e nuovo testamento, libri senza Dio: quelli dedicati a Gesù. Come dicevo all’inizio, non si ha a che fare con un’organica (ancorché eterodossa) serie di tesi, tra le quali colpendo le principali si ottenga un organico disgregamento. Leggere Biglino è piuttosto come assistere a uno spettacolo di ombre cinesi: al lettore, anche a quello non mal disposto (ma poco formato), sembra di riconoscere la sagoma di cani, gatti, colombe, draghi… però nulla del genere è realmente presente; le immagini vengono percepite da un pubblico già capace di riconoscere certi contenuti e sono prodotte tramite l’artificiosa sovrapposizione di realtà solide distinte e la sistematica proiezione su un piano mutilato di una dimensione.

La prova dei Settanta

Ad esempio, se si volesse dare credito alla rivendicazione di Biglino – «La questione di Elohîm come singolare o come plurale è la questione centrale della tesi» – la causa si chiuderebbe in quattro e quattr’otto adducendo l’argomento delle versioni greche. Non solo la Bibbia alessandrina “dei Settanta” (LXX), redatta dalla più colta comunità giudaica della diaspora tra il III e il I secolo a.C.; ma anche le sue stesse revisioni, note coi nomi di Aquila, Simmaco e Teodozione, in parte redatte in epoca intertestamentaria per il bisogno di alcune fasce di giudaismo di “rigiudaizzare” la versione greca della Bibbia (i LXX, ma anche lo stesso Teodozione, erano diventati riferimento autorevole della nascente comunità cristiana). Ebbene, nessuna di queste traduzioni greche – composte da filologi antichi, che avevano il greco per lingua madre e conoscevano l’ebraico (nonché l’aramaico) per frequentazione cultuale e per studio – mostra mai la benché minima incertezza nel tradurre Elohîm: al singolare θεός nella stragrande maggioranza dei casi, quando con “Dio” s’intende il Dio unico di Israele; al plurale θεόι quando con “dèi” s’intendono le divinità adorate dai pagani (o anche nell’uso analogico che ne fa il Sal 81, 6 – ripreso anche da Gesù in Gv 10, 34).

Dunque quello che per Biglino è il punto di massima ambiguità del testo biblico – ovvero è il punto decisivo, a suo dire, della tesi paleoastronautica – appare nella sua cristallina chiarezza per tutti gli interpreti antichi: Elohîm significa «ciò che tutti chiamano “Dio”» (parafrasando un grande del secondo millennio), e lo significa con le proprie particolarità linguistiche, comuni all’accadico e a molte lingue del ceppo semitico nord-occidentale.

Punto. Ma Biglino dirà forse che la traduzione greca della Bibbia è per eccellenza l’emblema della manipolazione ideologico-teologica «fatta a tavolino per conquistare il potere» (così il sottotitolo del libro). Ora, questa è una petizione di principio, contenente un’affermazione tanto apodittica quanto indimostrabile: i fatti storici dicono che questo testo è il più antico riscontro dell’intero corpo scritturistico noto come “Bibbia”; che è stato elaborato da persone e gruppi distinti, appartenenti a religioni diverse e mossi da fini anche parzialmente contrapposti tra loro (dunque non sta in piedi l’ipotesi bigliniana del complotto); e che mai nessuno tra tutti quanti presero parte alla traduzione, alla redazione e alla trasmissione di quelle antichissime versioni ebbe mai alcun dubbio sul fatto che l’ebraico Elohîm si traduce correttamente con la parola greca θεός, “dio”, al singolare.

A parte questo, ci sarebbe da dire che i codici più antichi del Testo Masoretico (TM), tra quelli a noi noti, risalgono al IX secolo d.C., mentre disponiamo di frammenti dei LXX risalenti al II secolo a.C. Per citare due nomi esemplificativi, il Codex Lenigradendis (che riporta l’intero TM) è datato con esattezza al 1008 d.C., mentre il Codex Vaticanus (B) e il Codex Sinaiticus (א) – che riportano per intero il testo dei LXX – sono del IV sec. d.C. Anche prescindendo dal fatto che gli stessi interpreti del TM non hanno il minimo dubbio sul significato di “Elohîm”, Biglino si aggiunge alla lista degli ingenui positivisti della linguistica che pretendono di correggere archeologicamente un testo del III sec. a.C. con uno del IX d.C.

Lo dice pure Freud!

Spiace per Biglino, ma niente a parte le sue ostinate fantasticherie dice che il monoteismo sia una sovrapposizione estrinseca al primitivo testo biblico (il che è il presupposto storico-critico delle sue considerazioni): Sigmund Freud era un uomo ateo quanto Mauro Biglino (si parva licet magnis componere…), ma anche il suo dissacrantissimo Der Mann Moses und die monotheistische Religion (1939) – pur derivando il monoteismo mosaico dalla riforma religiosa di Akhenaton – non si spinge a stuprare la grammatica. E l’ebraico Freud lo masticava un tantino meglio di Biglino

In sostanza, la tesi del padre della psicanalisi (che al Legislatore aveva già dedicato un toccante lavoro quasi trent’anni prima) è che Mosè fosse un egiziano, non un israelita, e che abbia dominato gli israeliti fuggiaschi, delusi dai loro culti cananaici (politeistici), esercitando su di loro il fascino di una più raffinata concezione teologica – quella monoteistica, appunto, mutuata dalla riforma enoteistica di Akhenaton.

Ma anche in questo caso la storia rema contro: il “faraone eretico” era riemerso dalle sabbie del tempo solo da pochi decenni, all’epoca di Freud, perché immediatamente dopo la sua morte (metà del XIV secolo a.C.) tutto quanto era connesso con lui fu sottoposto a una severissima damnatio memoriæ: oltre a essere stato il marito della regina più bella d’Egitto e il padre del più giovane faraone, Akhenaton ha in sé sufficiente mistero e sufficiente carica eversiva per intrigare chiunque… quanto più il tormentato autore di Totem e tabù, che in effetti richiama nell’ultima opera le impostazioni di quell’altra (giovanile) e de L’avvenire di un’illusione.

Il padre della psicanalisi espone la teoria delle fonti dell’Esateuco e mostra di condividere la nota di Gressmann per cui «i distinti nomi [di Dio] sono il chiaro segno di riconoscimento di dèi originariamente distinti» (Sigmund Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion, Amsterdam 1939, 70), ma non gli passa minimamente per la testa l’idea che “Elohîm” non significhi già all’origine, e grammaticalmente, il nome e il concetto di «ciò che tutti chiamano “Dio”». Quanto invece alla peculiarità del Dio unico “introdotto da Mosè”, nonché alle credenze antiche nell’esistenza delle rispettive divinità etniche, Freud annota:

Non è verosimile che Jahve si differenziasse molto dagli dèi dei popoli e delle tribù circostanti; egli contende con loro come pure i popoli lottano tra loro; ma bisogna pure tener presente che a un adoratore di Jahve di quell’epoca non sarebbe mai passato per la testa di mettere in dubbio l’esistenza degli dèi di Canaan, Moab, Amalek e via dicendo… non meno di quanto avrebbero messo in discussione l’esistenza di quei popoli che in quelli credevano.

Sigmund Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion, 112

Così perfino Freud – il quale sarebbe poi arrivato a inventarsi che Mosè viene ammazzato dagli esasperati israeliti, e che questi vengono a loro volta costretti dall’insopprimibile senso di colpa a elaborare una irriducibile attesa messianica… – risulta più pacato e più serio di Biglino nella ricostruzione dello scenario antropologico-culturale dell’epoca… nonché nel rispetto delle lingue bibliche. E dimostra che si può essere atei, pur sapendo (bene) l’ebraico, anche senza tirare in ballo astronavi e alieni.

Dunque lo dicono tutti, ma proprio tutti, che questa storia degli “Elohîm” al plurale non sta in piedi, e Biglino non vorrà tacciare Freud di connivenza con il cinico complotto monoteistico che falsa la limpida verità biblica: la Bibbia parla di Dio, e del Dio unico per giunta. La Bibbia è un testo sacro e documenta moltissime credenze genuinamente religiose. E ci si sente in imbarazzo a dover ribadire cose tanto evidenti.

Come però ho già detto, polemizzare con Biglino assomiglia molto più a giocare al tiro a segno al Luna Park che a un vero duello all’ultimo sangue: così da una parte nessuno muore (chi vorrà continuare a credere alle favole sugli alieni pur di non credere in Dio potrà sempre farlo, e continuerà a ringhiare agli uomini sensati che sono tutti degli invasati); e dall’altra l’avversario non cade neppure se si fa centro. È proprio come sparare alle paperelle di gomma sul nastro: colpirne una, dieci o tutte non implica averne uccisa alcuna. Questo fa sì che molti tra quanti hanno le conoscenze e le competenze per confutare a fondo Biglino non si prestino a una fatica tanto grande e così poco gratificante. Poiché invece ormai siamo qui, colpiremo nel prossimo futuro alcune delle paperelle che scorrono sul nastro della carta di Biglino.