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Mamma allatta durante una partita: quanta (vera) libertà c’è nel ricominciare subito a lavorare?

SERAH SMALL

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Annalisa Teggi - Aleteia - pubblicato il 04/04/18

Sì, bisogna screditare il pregiudizio per cui la maternità annulla le speranze lavorative della donna; chiediamoci però quanto di buono del nostro futuro dipende dal tempo che la mamma investe nel rapporto col suo bambino

La giovane Serah Small di Grande Prairie, provincia canadese dell’Alberta, gioca a hockey nella Peace Country Female Hockey League. Da poco è tornata sul ghiaccio dopo la gravidanza, e in un intervallo della partita, in spogliatoio, ha allattato Ellie, la sua bimba di otto settimane. La foto è stata pubblicata ed è diventata virale: «Mi sono lasciata fotografare mentre allattavo, perché vorrei che fosse considerata una cosa normale e l’unico modo è dimostrare che può essere fatto ovunque, in qualunque momento» (da Vanity Fair) .

Il primo messaggio implicito nello scatto riguarda dunque il seno che nutre, l’idea che il petto di una donna non sia solo un oggetto sessuale. Serah ammette che non è stato scontato condividere un momento così intimo: «Ho faticato ad accettare il mio nuovo corpo che prima era sempre stato atletico. Ho sempre giocato a hockey nella mia vita e quando ho saputo che ero incinta ho deciso di provare a giocare in questo marzo pensando che il mio fisico mi avrebbe seguito. Ho giocato quattro partite in questi giorni e il mio corpo è davvero diverso. Più lento e perso sul ghiaccio. Il mio corpo non stava facendo le cose che il cervello diceva. Non sono però mai stata più orgogliosa di me e del mio corpo».

Ecco qui che l’orizzonte del discorso si amplia: la maternità rivoluziona la vita di una donna, il corpo mostra un cambiamento concreto che riguarda anche ogni fibra di cuore e cervello. Questo come incide nel percorso quotidiano e nella progettualità?




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Sono tantissime le celebrità che hanno deciso di esporsi e dichiarare che si può riprendere a lavorare, ad essere di nuovo presenti e propositive dopo una gravidanza. Sono soprattutto sportive: una delle prime è stata forse Iosefa Idem che arrivò terza ai mondiali incinta di 10 settimane e ha ottenuto le sue vittorie più importanti quando era già madre di due figli. Poi c’è la stratosferica tennista Serena Williams che sta tornando in campo dopo aver dato alla luce la sua bimba lo scorso settembre. In casa nostra abbiamo altrettanti esempi, da Valentina Vezzali che è salita di nuovo sul podio dopo la maternità e la tuffatrice Francesca Dallapè che sta riprendendo gli allenamenti e le gare dopo la nascita della sua Ludovica.

Questa esposizione mediatica delle sportive parte da una necessità oggettiva: da quest’anno esiste in Italia un fondo da 2 milioni di euro per le mamme-atlete, ma prima un’atleta che rimaneva incinta doveva fermare l’attività e non aveva tutele.

Con sfumature diverse è un problema di tutte le mamme. Pochi giorni fa nello spogliatoio della mia palestra due mamme parlavano di una loro comune amica che ha finito il congedo e a cui è stato concesso un part-time obbligatorio dalle 14 alle 21 (in una nota catena di vendita scarpe che avrei tanta voglia di non tenere anonima!!!), con l’implicito «regalo» di non vedere praticamente mai la figlia visto che di mattina è al nido, in cui le è stato trovato un posto solo full-time con ingresso obbligatorio entro le 9. Ti devi tenere il lavoro altrimenti non arrivi a fine mese, ti devi tenere il posto al nido che hai conquistato altrimenti non puoi lavorare. È dura.

Vorrei fare qualche riflessione varia ed eventuale, sapendo di toccare un nervo scoperto e sapendo di non poter incasellare la varietà umana che ogni famiglia è. L’unica premessa su cui mi sento di espormi riguarda la fiducia che ho acquisito nel tempo: ogni madre trova una sua strada, che nessuno poteva prevedere e che si costruisce passo passo facendo danzare le circostanze con le attese e i bisogni.

Detto ciò: il messaggio della foto di Serah che allatta nello spogliatoio è positivo? È solo positivo o c’è anche un chiaroscuro agrodolce dietro? Entrambe le cose; provo a riflettere a voce alta.

1. Sicuramente positivo dire che maternità non rima con rinuncia

In tanti ci dicono che l’Italia è un paese in crisi e che la natalità precipita. Ciascuno di noi conosce giovani coppie di «vorrei una famiglia, ma». Si è innestato questo pregiudizio per cui solo quando tutte le circostanze sono favorevoli e adeguate si può pensare a fare figli; senz’altro questo pensiero si basa su dati reali, un mobbing implicito (ma anche no) sull’essere schiavi delle leggi del lavoro che hai faticosamente trovato, se lo hai trovato.

Se non c’è lavoro non si può essere così folli da procreare (non si può davvero?). Quando dichiarai al negozio in cui lavoravo la mia prima gravidanza, fui licenziata due mesi dopo. Quando mio figlio compì tre mesi fui chiamata per una supplenza, fu dura ma il contratto statale mi permetteva di avere ore di allattamento. La stanchezza era tale che tuttora ho un buco di memoria di quegli anni, ma di certo non fu una pietra tombale.




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Ecco, la foto di Serah porta un messaggio buonissimo: non lasciamo che tutte le obiezioni, pur lecite, ci impediscano di realizzare una famiglia, tentiamo di screditare il pregiudizio per cui la maternità sia pari a una malattia invalidante per cui la donna diventa solo un peso morto a carico di qualcuno. Sì, lo so, viene da ribadire l’ovvio: una madre che mette al mondo un figlio sta dando il contributo economico più luminoso e proficuo possibile al suo paese. Però, oltre a questo fondamento, la donna non diventa una reietta dalla società inabile di qualsiasi altra cosa che non sia latte e pannolini.

L’esempio di Serah dice questo, che bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo, azzardare e provare. Tutto ciò che può essere la carriera o le attese di una donna non vengono tradite dalla gravidanza, ma accese di un’energia in più. Questo va detto alle giovani; non è vero che da madri non troverete più lavoro, dovrete trovare strade creative per conquistarlo ma non lasciatevi opprimere dalla cappa mortifera di chi vi vuole single e con un contratto a tempo determinato attorno al collo.

2. È davvero una scelta libera tornare al lavoro immediatamente dopo la maternità?

«Fai le cose che ami fare con vicino il tuo bambino» è questo il messaggio che la giocatrice di hockey Serah Small voleva trasmettere alle donne. Mi sono chiesta: questa frase implica solo positività? E se il bambino non ama fare ciò che la mamma ama fare? Una madre felice è meglio predisposta a rendere felice suo figlio, ma una mamma deve essere capace di discernere situazioni in cui lei insieme col suo bambino siano felici. Si diventa un mostro a due teste, una strana coppia vincolata da leggi che solo la profonda conoscenza reciproca mette a fuoco. Per cui non mi sento di dire che il mio bambino deve sempre starmi vicino nelle cose che amo fare, e a maggior ragione se sono cose che devo fare.

Quando nacque il mio secondo figlio ero passata alla libera professione, lavorai quasi fin sulla soglia della sala parto e ripresi immediatamente a casa dall’ospedale, costretta a portare a termine una consegna di lavoro che ultimai quando il bimbo aveva un mese appena. Non potei farne a meno, non lo stigmatizzo, ma dico a me stessa che non fu affatto bello.

Concordo con Licia Ronzulli, di cui ricordo le foto al Parlamento Europeo mentre votava con la sua neonata nella fascia: «Mia figlia è cresciuta in parlamento. Aveva 44 giorni quando ho ricominciato a lavorare a Strasburgo. Forse inconsapevolmente, ho fatto cose in gravidanza che oggi non rifarei.  […]. Ecco, forse oggi, con una consapevolezza diversa, mi sacrificherei di meno. Perché ho nostalgia di alcune cose – pitturare la stanza di mia figlia, leggere i libri “premaman” – che all’epoca non ho fatto. Ci sono donne costrette a svolgere lavori a rischio, pesanti e pericolosi fino a pochi giorni dal parto e magari senza protezioni assicurative e tutele. A quelle donne nessuno si preoccupa di dire: godetevi la gravidanza» (da Il tempo).

Con tutto questo guazzabuglio di ipotesi, domande, incertezze in testa mi sono rivolta a Chiara Carati, l’ostetrica che mi ha accompagnato alla nascita della mia terzogenita. Con lei ho vissuto il privilegio di una gravidanza dedicata totalmente a chi portavo nella pancia; ho rischiato, sì, lasciando per strada ogni ipotesi lavorativa (e con la fortuna di un marito che si è sacrificato per il sostentamento della famiglia).


MUM, BABY, KISS

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A Chiara ho chiesto un suo pensiero, una riflessione sul grande tema che è  il dramma maternità-lavoro nell’attualità; ecco cosa mi ha detto: «L’ideale sarebbe che mamma e bimbo potessero avere un tempo dedicato a loro anche abbastanza lungo; un tempo si parlava di stare chiusi in casa 40 giorni in cui ci si riprendeva dal travaglio, dalla nascita, in cui mamma e bimbo imparavano a conoscersi e impostavano l’allattamento. Oggi purtroppo non è più così».

È inutile nascondere la testa sotto la sabbia e far finta che certi ostacoli non esistano; anche se molte mamme desidererebbero dedicare tutto il tempo necessario al proprio figlio, la cosa non è possibile. C’è però una domanda ancora più importante che Chiara mi ha aiutato a mettere a fuoco guardando la foto di Serah Small: «Quante cose ci vengono imposte implicitamente se non torni subito al lavoro? Quanto è stata libera di poter decidere dell’allattamento o quanto implicitamente le è stato imposto di tornare per non perdere la carriera?».
Questa è la vera preoccupazione politica, in senso lato, da porre alla società: quanto volete investire nella libertà di una madre di decidere del rapporto col proprio figlio? Quanto scommettete che questo incida concretamente sul nostro futuro?

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