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“Papà ma tu sei un assassino?”. Così cambiò la vita dell’uomo che costruiva le mine

Vito Alfieri Fontana

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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 03/04/18

Vito Alfieri Fontana era al vertice della principale azienda italiana che fabbricava mine anti-uomo. Poi grazie a suo figlio e Don Tonino Bello ha deciso di chiudere l'azienda

Quel giorno del 1993 Vito Alfieri Fontana era in auto con suo figlio. Sul sedile posteriore, alcuni dépliant descrivevano le mine antiuomo e anticarro prodotte dall’azienda di famiglia, la Tecnovar.

Il bambino gli chiese cosa fossero le mine. «Glielo spiegai», ricorda Vito. “Allora sei un assassino”», fu la reazione del figlio. «Poi, come pentendosi delle sue parole: “Papà, ho capito che le armi le possono fare tutti, ma perché tu?”. Da quel momento, dare una risposta a mio figlio è stato il vero problema della mia vita. Perché è una domanda semplice, ma ti smuove dentro una montagna» (Vanity Fair, 7 gennaio).

Tagliole spietate

Le trappole di Vito erano tra le migliori in commercio. La Tecnovar di Bari era un’eccellenza italiana. Erede designato del patron che aveva fiutato il nuovo business della guerra, aveva preso una laurea in ingegneria. Progettava tagliole esplosive facili da mimetizzare, resistenti alle intemperie, spietate.

“Le vendevamo ai governi”

Un giro d’affari che si gonfia dopo la guerra del Kippur tra Israele, Egitto e Siria. Era il 1973, le grandi potenze facevano a gara per rimpinzare gli arsenali. «Noi le vendevamo ai governi, non eravamo trafficanti», ricorda l’ingegnere. Alla luce del sole. Gli ordigni spediti, ad esempio, all’Esercito egiziano finivano triangolati a una milizia balcanica o chissà dove. All’insaputa di chi esportava.


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La trappola di Don Tonino

Poi dal 1991 cambia per sempre l’esistenza di Vito. Il primo a fargli cambia vita è don Tonino Bello, il vescovo oggi a un passo dagli altari. «Per noi era santo pure prima», dice Alfieri Fontana che ricorda l’astuta trappola preparatagli da don Tonino.

«Mi cercò per ‘trovare un punto di discussione insieme’, disse proprio così». Ma don Tonino morì poco prima di un incontro pubblico a cui Vito, dopo essere venuto in contatto con l’allora presidente di Pax Christi Italia, non volle sottrarsi.

Fu il primo e unico imprenditore del settore a metterci la faccia. Sapeva già cosa aspettarsi. «La platea era infuriata con me». Non era impreparato. E non provò a cercare attenuanti.




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La domanda del figlio

Un paio di anni dopo, nel 1993, Fontana chiuse l’attività di famiglia che aveva ereditato da suo padre. Dopo Don Tonino, fu decisivo il dialogo con suo figlio di dieci anni, che gli aveva domandato “Ma allora sei un assassino?”.

Da “minatore” a “sminatore”

Quando si assicurò che nessuno dei suoi dipendenti sarebbe rimasto senza un reddito, la Tecnovar si consegnò alla storia. Dalla sua Vito ha avuto la moglie, anche quando si decise ad afferrare la cornetta per candidarsi a un ruolo da sminatore nell’ex Jugoslavia. Lo presero subito. Intanto aveva collaborato alla stesura della Convenzione di Ottawa firmata nel 1997 per la proibizione delle mine antiuomo.

Il viaggio nei Balcani

Ma è una volta sbarcato nei Balcani che Vito ha potuto comprendere che le trovate di un ingegnere che progetta nuovi ordigni sono nulla al confronto della perfidia di chi le mine le piazza in modo da non lasciare scampo.

Dal 1999 al 2012 ha collaborato con l’organizzazione umanitaria Intersos allo sminamento in Bosnia. «Abbiamo trovato ordigni collegati all’elettricità di case abbandonate, per colpire i profughi che sarebbero rientrati dopo la guerra».

Il rosario

Quando Vito e la sua squadra erano andati a bonificare, scoprirono che in realtà non era stato interrato neanche un ordigno, «ma la paura aveva impedito ai cattolici di tornare nelle loro case». Quella volta tra le rovine e i campi non scovarono neanche una maledetta mina, «ma trovammo un rosario». A distanza di anni, dopo avere messo al sicuro uno dei posti più insicuri del mondo, Vito non ha dubbi: «Quel rosario era lì per dirci che mentre noi tutti ci eravamo spersi, Lui era rimasto lì»(Avvenire, 3 aprile).


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