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Ela Weber ha parlato della sua depressione, cominciamo a farlo anche noi

ELA WEBER

Rai | La Vita in Diretta | Youtube

Annalisa Teggi - Aleteia - pubblicato il 29/03/18

Un disturbo complesso che colpisce le donne il doppio degli uomini. L'accettazione di sé è un viaggio irto di ostacoli, lasciamoci aiutare da chi c'è accanto e, contemporaneamente, osserviamo i nostri cari e amici tenendo conto di alcuni segnali d'allarme

Se ne parla un personaggio famoso, è più facile che un argomento esca dalla cantina della vergogna.
La depressione è uno di quei temi che o viene trattato con ironica leggerezza o come una macchia orribile. Né l’uno né l’altro. Ogni tanto ci scappa di dire: «Lasciami stare, sono depresso» ed è un modo di dire per esprimere uno stato d’animo solo un po’ abbattuto. Oppure lo usiamo come insulto cattivo e perfido: «Sei un depresso!». Ma non è né l’uno né l’altro.
La depressione non è un’influenza, per cui basta una medicina e tutto passa. Lo ha detto Ela Weber qualche giorno fa a La vita in diretta, raccontando senza fronzoli emotivi il periodo più brutto della sua vita, all’indomani della pioggia di occasioni, eventi, esposizione che la fama mediatica le gettò addosso.

Gli studi di settore dichiarano che questa malattia colpisce le donne il doppio degli uomini, e non è una questione di bieco sessismo ma di differente conformazione biologica. Addentrarsi nei meandri di questa patologia richiede prudenza perché è un mondo complesso in cui i fattori genetici interagiscono con le vicende della storia personale, con i fattori di stress e con l’unicità che ciascuno è.
Non è nostro compito spiegare la depressione, ma il caso di Ela Weber può essere un’occasione buona per sciogliere alcuni nodi che qualcuno custodisce con pudore tra sé e sé e che qualcun altro può riconoscere in un proprio caro. Possiamo conoscerci un po’ meglio e possiamo aiutarci a vicenda, questo sì. Non basta un articolo, questo sarà un primo passo per stare a tu per tu con un argomento che ci è caro.




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Cominciamo da una frase chiave che Ela Weber ha detto alla conduttrice Francesca Fialdini: «Non ero più io, era il fenomeno. Quasi nessuno conosceva Manuela, tutti conoscevano Ela». Il viaggio di essere se stessi è un percorso a ostacoli che comincia ogni mattina quando mettiamo un piede giù dal letto e riguarda i vip, tanto quanto l’uomo comune. La donna famosa vive in modo più eclatante la scissione tra persona e personaggio (Manuela/Ela), però la frattura esiste per tutti. In un momento particolarmente difficile della mia vita, scrissi sull’agenda la battuta che Pirandello fa pronunciare alla Signora Frola in Così è se vi pare: «Io sono colei che mi si crede, e per me stessa nessuna».Ogni volta che la leggevo, piangevo. La nostra aspettativa, il giudizio degli altri, le critiche, i progetti andati in frantumi, le obiezioni del vivere, tutto complotta a creare una «statua» falsa di noi, mentre l’io si nasconde sotto sotto in un cantuccio buio. L’io più autentico e fragile si deprime proprio, cioè si inabissa e insieme a lui la linfa di vita. Contemporaneamente la statua, cioè la maschera di noi che porgiamo al mondo, cresce e cresce come un grattacielo in equilibrio precario: sembra così bello da vedere, da mostrare, così splendido da lodare, invece è fatto di sabbia. Quando crolla è un disastro, ma è anche la cosa più benefica che può succedere.

Il guscio della noce si spacca con un gesto deciso, quasi violento. Fa male, ma è come il travaglio … porta a una nuova nascita. Ricordo una battuta che scambiai con il mio psicologo, all’indomani di una gravidanza da cui ero uscita molto prostrata. Io mi sfogavo a ruota libera, finché lui mi disse: «Lo sa, vero, che c’è un Dio cattivo che regna dentro di lei?». Mi fu chiaro tutto, improvvisamente. Mi ero costruita questa dittatura di senso del dovere, apparenza, ansia da perfezione e ascoltavo solo la voce di questa divinità-egosistica dentro di me. Era un’idolatria corrosiva.

Risposi al dottore, amaramente ironica: «Quindi devo diventare atea?». Sì. Ci sono in giro certe magliette fantastiche su cui si legge: «Dio c’è, ma non sei tu. Rilassati». Niente di più vero. Non è stato facile, anzi non è facile, essere atea di egoismo; è una sfida quotidiana spalancarsi alla presenza di cose che non controllo, di imperfezioni che debordano, di giudizi che mi feriscono. Le vera religione è aprirsi a un Altro, ed è liberante. La presenza di un Creatore ci libera dalla prigione di essere creatori di noi stessi; qualcuno predispone la scena per noi, a noi spetta il compito di essere attori liberi. La libertà significa, nella sua forma più grande, affidarsi a chi disegna il sentiero davanti a noi.


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Questa verità ultima passa in prima istanza attraverso presenze quotidiane, infatti Ela Weber nota che il cambiamento radicale della sua condizione è avvenuto quando si è affidata all’aiuto di altri. Sua sorella ha lasciato una carriera molto ben avviata in Germania per starle ininterrottamente accanto per due anni; si tratta di un gesto di generosità ammirabile. La Weber ha riscoperto così il valore fecondo della famiglia che è proprio il primo naturale antidoto all’ego debordante e corrosivo: famiglia è dove sei amato a prescindere; puoi correre quanto ti pare, ma devi avere un posto in cui tornare.
La famiglia è un rifugio sano non perché ci nasconde dal mondo, ma perché è il primo luogo in cui l’io sa che la scoperta di sé non è un’avventura da fare in solitudine solitaria. Il cambiamento è lento, dalla depressione non si esce in una settimana o in un mese; però di giorno in giorno si possono accumulare piccole tracce di passi verso l’uscita dal tunnel: la ricomparsa dell’ironia è stato un segnale per la Weber del cambiamento positivo in atto.

Da ultimo Manuela, lasciandosi alle spalle Ela – la sellerona, si è resa conto che questo abbandonarsi all’abbraccio altrui (scegliere di mandare in vacanza perenne la maschera dura e perfetta di sé) è stato il passo per incontrare l’amore, l’uomo con cui si è sposata: «Non ero abituata a dare spazio e disponibilità a un altro essere umano». La vera regola del ballo umano non è quella che stabilisce «questo è il mio spazio e questo è il tuo spazio», bensì lasciare abitare il nostro io dallo sguardo altrui e non temere di lasciarsi ospitare nella casa altrui.

Al termine di questa prima incursione nel tema della depressione, vi lascio alcuni spunti che possono aiutarci a guardare le persone che ci stanno accanto e anche noi stessi: i medici hanno individuato alcuni sintomi che sono come campanelli d’allarme per riconoscere un eventuale inizio di depressione. Impariamo a tenerli d’occhio.

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