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L’innocenza scampata al diluvio del peccato

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Paola Belletti - La Croce - Quotidiano - pubblicato il 22/03/18
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Ti ama davvero, Dio, e quindi ti spezza. Perché se non ti spezzi non Lo cerchiSolo Dio. Solo Dio basta. Lo so che Sante e Santi di grande calibro lo hanno detto e pagato fino in fondo. Questo che con resistenza a volte rabbiosa io solo intuisco. E respingo.

E lo hanno dimostrato con la loro vita che allunga le dita fino a noi. Infastidendo la nostra assuefazione alla normalità senza l’Eccezionale. Perché per tutti i Santi, pazzi di Dio, solo Lui bastava. E per questo ogni formica raccontava un paragrafo della storia d’amore tra loro e Lui. E loro e Lui e tutti gli altri. I fratelli. I nemici, gli amici.

Ma anche se, anzi, visto che, non arriverò alla santità compiuta e cristallina in questa tappa terrena e avrò tuuuuuuuuutto il tempo di approfondire e sviscerare l’argomento in Purgatorio so, a tratti lo desiderio anche senza paura, che se non rinuncio a tutto per Dio non sarò mai felice.

Che devo disprezzare tutto e amare solo Lui. Essere in qualche modo vergine, cercare una forma di castità di fronte a tutto e tutti e così finalmente, decisamente possedere tutto e tutti. E amare tutti.

Ha fatto bene il Signore a non accontentarmi. Volevo un figlio maschio. Me ne ero già innamorata. Avevo già attivato anche tutto un sistema di gelosia preventiva per eventuali future aspiranti nuore. Tutte le mie armi per mettere in atto un attaccamento viscerale e possessivo stavano affilando le lame per difenderlo, il mio figlio maschio, da quelle ragazze che, vedendolo così figo, avrebbero fatto di tutto per conquistarlo. Nel fiore della giovinezza. Con i muscoli tonici, le spalle larghe. E quella bocca, la si vedeva già in ecografia. Una boccuccia da baci. Solo io posso baciarlo, urlavo già dentro di me.

Ha fatto bene Dio a non accontentarmi. Ad appoggiare sulla mia schiena questo macigno. Ha fatto bene. A ficcarci in una situazione di continua estenuante incertezza. Prima era l’incertezza del dilemma sano/malato. Malato. Poi tra malato ma recuperabile. Non molto recuperabile. Poi tra operabile con grandi possibilità di ripresa e di accettabile normalità. Operato; tutto è andato perfettamente, è andato benissimo l’intervento. Ma non serve quasi a niente. Poi sui possibili progressi o arresti di sviluppo. Ci sono addirittura degli evidenti regressi. Poi sulla necessità di un altro intervento che però riguarda un aspetto piccolo in un quadro così grave. Come dire: “Signora, che cosa spera. Ma sì glielo facciamo, però…” (C’è una sola dottoressa per ora che ha un atteggiamento magnifico. Caldo e dritto. Vicina ma al suo posto. Preparata e positiva. Diretta, senza sconti e alleata dei genitori. Ci sono medici bravissimi, Deo gratias. Che poi anche avere a che fare con certi genitori…perché guardate tutti me?).

Eppure andiamo avanti. Facendo tutto. Conservando la speranza. Lo dico un po’ sulla difensiva. Lo dico qua ma vorrei arrivasse dritto dritto in alcune teste. Perché mentre hai l’ardire di vivere in mezzo alla gente, il tuo figlioletto ammalato che ha smentito tutti i “vedrai che si sistema tutto, che andrà tutto a posto. Non farmi preoccupare, brinderemo insieme” stuzzica in modo quasi irrefrenabile in alcuni il desiderio di dirti la cosa risolutiva. Per questo la stessa signora mi ripete da qualche mese che c’è una piscina speciale dove “bla bla e perché non ci vai?”, incurante dell’estenuante slalom tra bronchiti acute e gastroenteriti che colpiscono Ludo in quanto fratello minore.

Quanti, nonostante abbia cercato di spiegare che il fatto di essere realisti non è uguale a non sperare, ci rimproverano questo o quello. Rendersi conto della situazione non significa affatto che abbiamo ceduto a fatale o livida rassegnazione. Non smettiamo di cercare occasioni per trovare nuovi elementi, pensare ad altri approcci. Lo facciamo. Nella riconquistata normalità della vita.

Vorrei tanto che lo capissero tutti quelli che hanno a che fare con me. Aspirazione molto poco realistica, questa. Presuntuosa e infantile. Non è questa la via. Non è questa, davvero.

O l’altra mamma, che ha una bimba con problemi che a me sembrano davvero minimi, mi ricorda che se voglio aiutare davvero il mio devo fare come lei. O la supplente mai vista prima né dopo che mentre chiudo il baule carico di zaini e la macchina di figli affamati nel parcheggio della scuola mi chiese se conosca lo specialista Maestro dei Professoroni.

Ho paura, a volte, delle persone. Perché ho cicatrici che non si vedono. E allora per rispettare e accogliere la signora che in buona fede mi dice per l’ennesima volta che ha un cugino con quella patologia e poi ha preso quella medicina o conosce quel bravo medico e oggi lo sente così magari poi lo chiamo io e ci porto mio figlio, ascolto, annuisco e sorrido; ma le cicatrici così fresche e rosse riprendono subito a stillare sangue.

Così mi ritrovo a guardare in faccia la mia debolezza metastatica, che ha già aggredito tutto il mio spirito e le ossa. A volte questi incontri al limite della semplice cortesia o conversazione tra conoscenti, per il mio interlocutore, si traducono per me in pomeriggi di prostrazione interiore. Non è questa la strada. Non è questa. Mi ripeto che Egli solo basta. Solo Lui. Solo Lui. Solo Lui.

Che so più grande anche dell’altro dilemma:

  1. Chiedi di più, più forte e meglio perché il Signore i miracoli li fa;
  2. Accetta e accogli la Sua volontà perché Lui ha un piano nel quale la malattia di Ludo è un bene, arrenditi.

Sono già dentro di me queste voci, come due solisti che ogni tanto escono dal coro di una tragedia.

Le parole di altri di solito ottimamente intenzionati le risvegliano soltanto. Non ha nessuna colpa, l’altro.

No. Non ci sto. Non è questo il dilemma. Non è così che Dio usa i bambini. Per compensare brutture e orrori e placare gli inviti alla Sua terribile vendetta messi in atto chissà da chi, chissà dove sotto il tetto del cielo. Se è così voglio i nomi. Li voglio colpire con le mie stesse mani. Chi è che sta rimandando la propria conversione o si sta incistando nel peccato così da rendere necessario questo dolore?

E se ci fosse anche il mio nome, nella lista? E’ così che fa i Suoi conti il Signore? Sì, in un certo senso. Ma non così. Non nel modo tutto umano, tutto nostro che ragiona a colpi e contraccolpi, che sa così poco ancora dell’amore vero. Che crede giustizia le sue pretese.

Non è così che fa Dio. Se non misteriosamente. Se non dispiacendosene Lui per primo. Se non ricordando a Se stesso che da Cristo in poi anche noi siamo vittime e la terra un altare.

L’innocenza scampata al diluvio del peccato che affiora nei bambini, in quelli che soffrono è preziosa. La contemplo. La adoro. Cerco una traccia divina. Non la vedo ma c’è. La sua pelle profuma; le sue gambette così smagrite mi avevano promesso muscoli forti per reggersi e correre dietro a un pallone o in braccio alla mamma. O per rialzarsi con le ginocchia sbucciate per la prima volta in bici senza rotelle.

C’è un segreto nascosto in questa storia. E a me cosa è chiesto? Per ora di accudirlo, di amarlo, di ridere, sbuffare, stimolarlo come posso e lasciarlo anche da parte perché sono stanca o pretesa da Martina, per esempio. Lei non lo dice ma ha bisogno. Sono la sua mamma.

L’innamoramento c’è ed è quello straziato di un’amante alla quale gettano da cavallo l’amato dopo averlo picchiato e lasciato moribondo. La bellezza c’è tutta. La bocca è da baci. La pelle profumata. L’orizzonte futuro invece è inospitale. Non ci si può andare. Manca l’acqua. Credo l’aria, anche. Si soffoca, nel deserto. Allora torniamo indietro. E ci mettiamo quieti accucciati nel presente. A lasciarci educare all’esclusività. All’amore avido di Dio che ci vuole interi. Non un cuore fatto a fette che ogni tanto Gli buttiamo perché ci fornisca il servizio. Il servizio di avere un senso da trasmettere ai figli, il servizio di avere un sommo bene che come basamento conficcato nel terreno possa reggere tutte le nostre ardite costruzioni. Il servizio di assicurarci la certezza di un dopo perché la fame di “sempre” è umana.

Ti ama davvero Dio e quindi ti spezza. Perché se non ti spezzi non Lo cerchi. Se non ti apri non Lo fai entrare. Se non allarghi il cuore a suon di preghiere e digiuni e gioia e bellezza riconosciuta allora a volte ti fa la grazia di mettertici dentro un divaricatore. Se non ti fa martire devi farti monaco.

Forse la risposta provvisoria sarà anche in un dolore che si fa più quieto. Sarà il comporsi in una lotta che urge ma ogni santo giorno e allora deve farsi quotidiana, normale.