Fare i conti con se stessi e la propria storia può essere un carcere eterno, oppure occasione per mettere mano alle proprie ferite o le proprie colpe desiderando un a carezza di libertà «La Verità vi farà liberi» ci ricorda il Vangelo di oggi. E a me viene da essere un po’ Ponzio Pilato: «Cos’è la verità?». Penso a quando, col ditino alzato, dico ai miei figli: «Mangiate le verdure, perché fanno bene!». È la verità, ma non è la Verità.
I miei figli ne trarranno un piccolo bene, ma non respireranno aria di libertà, ubbidendo a testa bassa sulle verdure. Noi usiamo il concetto di verità per chiudere una questione, il più delle volte pensiamo che sia un sinonimo di «avere ragione»: uno è in torto, l’altro ha detto la cosa giusta, dunque ecco impacchetata la verità.
Eppure non è una faccenda così comoda come il totocalcio, squadra che vince o squadra che perde. La x del pareggio rappresenta l’incognita matematica, forse è su questo segno che occorre meditare. Che poi è tanto simile a quella Croce su cui l’orizzontale e il verticale del mondo hanno visto accadere il mistero di una libertà che patisce personalmente e poi guarisce tutti (ma proprio tutti tutti!).
La Verità che può farmi libero deve essere qualcosa di vivo, di operoso nel tempo, non una parola morta e conclusa. Forse più che cercarla in astratto è più semplice guardare cosa accade nel qui e ora della vita a chi si mostra segnato dall’incontro con la mano buona della Verità. Guarda caso non sputa sentenze, è ironico anche nel dramma, non s’inacidisce di ripicche.
Mi pare di aver intravisto la presenza di questo respiro nel caso che ha visto coinvolta la famiglia di Aldo Moro, in particolare la figlia Maria Fida, e l’ex-brigatista Barbara Balzerani in occasione del quarantennale della strage di via Fani.
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La Balzerani, invitata a presentare il suo nuovo libro proprio nel giorno della ricorrenza – eppure ci si spertica a dire che è stato assolutamente casuale! – presso il centro sociale Cpa di Firenze sud, ha dichiarato: «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te». Ha anche aggiunto: «Non è che se vai a finire sotto un’auto sei una vittima della strada per tutta la vita, lo sei nel tempo che ti aggiustano il femore». Qualche giorno prima, con un riso amarissimo, se n’era uscita dicendo: «Che palle, sta per arrivare il quarantennale della strage, qualcuno vuole ospitarmi?» (da Corriere.it).
Non è la spavalderia del carnefice a parlare, non è la legge del più forte che schiaccia e rischiaccia il moscerino che ha pestato. È il botto più forte che si fa prima che l’ultimo fuoco d’artificio si spenga. Ciascuno vorrebbe dare un nome al groviglio di sé, essere chiaro e cristallino a se stesso come il cielo dopo la tempesta. Non ci si riesce quasi mai, e più una persona ostenta chiarezza e arroganza nel dare il nome che vuole alle cose, più la sua anima brucia di assenza di senso.
Lo suppongo, pensando a me stessa. Ci sono volte in cui m’incaponisco a sbandierare ai quattro venti la mia assoluta tranquillità di giudizio, tendenzialmente su eventi importanti che mi riguardano, e lo faccio con un’audacia che svela tutto il bisogno di capirci qualcosa in un guazzabuglio ancora ben lontano dall’essere approdato a una chiarezza umana pacificante.
La ex terrorista, condannata all’ergastolo e tornata libera nel 2011, ora vede aprirsi un fascicolo nei suoi confronti dalla Procura di Firenze per le dichiarazioni fatte. La giustizia deve fare il suo corso, ma è evidente che quelle parole così audaci hanno un interlocutore più radicale del banco umano degli imputati. È un grido indecoroso e sfrontato diretto a qualcuno, un ignoto scrutatore dell’anima, che venga a ricomporre un puzzle scombinato; è un grido alla rovescia, mascherato dalla tenacia di incaponirsi a dire che tutto è chiaro.
La risposta della figlia di Aldo Moro è l’altra faccia della medaglia, è l’ipotesi ferita che la Verità sia una strada e non una sentenza. Quale specie di ironia può far dire a Maria Fida Moro: «Io ho il diritto di dire ‘che palle il quarantennale’, non tu» replicando alla Balzerani? La vittima si permette di estorcere una risata dalla faccenda? Tutt’altro. Si chiama paradosso o rovesciamento ed è l’arma di chi è libero di fronte alla verità. Può permettersi di guardarla a testa in giù, senza distorcerla.
Una figlia che ha visto ucciso il padre può lamentarsi di una ricorrenza di cui avrebbe volentieri fatto a meno e può permettersi di rimandare al mittente la battuta, chiedendo: tu, che liberamente hai scelto di partecipare al gesto che dopo quarant’anni siamo qui a ricordare, ci hai fatto i conti davvero?
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La coscienza non va in vacanza, ci segue anche in una SPA di lusso. Così prosegue Maria Fida di fronte al desiderata espresso dalla Balzerani di andarsene all’estero in un resort. È una dritta che vale oltre il caso in sé. Puoi essere in un luogo di pace, ma non essere in pace. Ma poi, è la quiete inerte e abbronzata ciò che ci aspettiamo?
Pilato s’interrogò sulla Verità di fronte a Gesù. Un incontro stimolante genera più pace di una sauna cinque stelle deluxe. Sulla medesima ricorrenza, è andata in scena a Roma una storia diversa: un incontro pubblico in cui erano presenti Agnese Moro e Adriana Faranda. E nelle parole di quest’ultima ex-brigatista s’intravede l’ipotesi di un percorso umano più consono all’esigenze affamate dell’anima: «Quando alla fine riconquisti la libertà, ti rendi conto che quella del carcere è una forma di giustizia ma incompleta. A me non bastava. Quello che sentivo come dovere e anche come desiderio era affrontare fino in fondo il problema della giustizia, ritrovando le persone che erano state colpite, andando a cercare l’altro che avevamo negato» (da Avvenire.it).
Nella triste stanza che ospitò la prigionia di Aldo Moro oggi dormono due bimbe di 7 e 4 anni: è la camera da letto e dei giochi delle figlie della famiglia che abita in via Camillo Montalcini 8, piano 1 interno 1. La realtà è più eclatante di mille parole. Ogni morte può trasformarsi in vita.
Questa è la proposta dietro la Verità che ci renderà liberi.
Invece, la verità che c’imbastiamo in solitudine a nostro uso e consumo non ci renderà liberi né di fronte alle nostre virtù né di fronte ai nostri peccati. In un caso o nell’altro si diventa statue, da venerare o da abbattere. Il torto e la ragione sono gabbie asfissianti. Un refolo d’aria fresca entra nella casa del nostro cuore quando quella benedetta domanda: «Cos’è la verità?» si fa tutt’uno con quella: «Chi sono io?» rivolta a qualcuno che non sia lo specchio. E che stupore, quando vedremo nel volto del nostro interlocutore trapelare l’eco della voce che rispose ai mea culpa di Pietro: «Mi ami tu?».