Venne meno la Prima Repubblica quel giorno, e così venne meno la capacità della politica di lavorare insiemeLa data di domani, verrà vissuta probabilmente da molti di noi e dalle stesse istituzioni come una giornata qualsiasi, è in realtà un anniversario determinante per la vita della Repubblica italiana. Quarant’anni fa esatti il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, veniva rapito in Via Fani a Roma. Più di un commentatore ha determinato in quell’atto, il brutale assalto da parte delle BR al cuore dello Stato, la fine della cosiddetta “Prima Repubblica“, di cui gli anni successivi non sono stati che un trascinamento. Non si può parlare della figura splendente per molti aspetti di Aldo Moro, senza parlare della politica italiana e dell’Italia in generale.
La Prima Repubblica era quella venuta fuori dalla Resistenza al nazifascismo, quella del Comitato di Liberazione Nazionale, della pacificazione e della ricostruzione post bellica, forgiata dai grandi partiti di massa, in particolare il PCI e la DC, ma anche dal PSI. In quei grandi partiti, burocratici e capillari, la democrazia italiana viveva e ha prosperato per diverso tempo, grazie al boom economico, ma ogni sistema ha bisogno di rigenerazione e di innovazione e soprattutto la democrazia ha bisogno di alternanza. E di questa cristallina necessità l’uomo politico, il cattolico (fu un uomo dalla fede intensa, formata nella Fuci di Montini) Aldo Moro, era profondamente convinto. Suo il grande azzardo, costruito nei mesi precedenti il rapimento, di far convergere il Partito Comunista di Berlinguer nell’area di Governo facendogli sostenere un governo monocolore democristiano e promettendo un successivo ingresso. Per questo motivo il mattino del 16 marzo 1978 le BR, il gruppo terroristico di matrice comunista, uccise la sua scorta e lo rapì con l’intento di far fallire quella normalizzazione che rendeva tesi tutti, da Washington a Mosca.
Una verità che fatica ad emergere
La verità su questo snodo essenziale della democrazia italiana ha ancora tantissimi punti oscuri tanto sui gravi fallimenti investigativi che seguirono, quanto sulle ombre circa i mandanti, un coacervo di interessi che passavano per la CIA, i servizi deviati e quant’altro. In mezzo però un Paese attonito, in cui al momento del fattaccio tirava un’aria strana per le strade di Roma, e che nei minuti seguenti alla notizia ha visto ritornare praticamente tutti a casa, riportando i figli dalle scuole come se tutti si fossero convinti senza sms o facebook che qualcosa di tremendo era successo e che non erano i destini personali di un uomo quelli in ballo, ma quelli della nazione. C’era aria di golpe, di colpo di stato e forse fu così per certi versi.
Oggi ancora torna alla ribalta un mistero che – di nuovo – coinvolge il Vaticano. Paolo VI, che con lo statista democristiano aveva amicizia e consuetudine, fece di tutto perché Aldo Moro fosse liberato dalla sua prigionia, al punto che il Vaticano era disponibile a pagare fino a 10 miliardi di lire per lui. L’Ansa ha ricordato questo particolare assieme al mistero che avvolge la destinazione finale di quei soldi che mai vennero usati per il riscatto:
Le banconote – mazzette di dollari, con fascette di una banca ebraica – erano su una consolle nella residenza pontificia di Castel Gandolfo e furono mostrata da papa Paolo VI a monsignor Cesare Curioni, responsabile dei cappellani carcerari, il quale aveva attivato contatti per la liberazione di Moro. Era presente anche mons. Fabio Fabbri, segretario di don Curioni. Ma da dove provenivano tutti quei soldi? E che fine fecero? Nessuno lo sa.
Don Curioni è morto nel 1996 senza che quel mistero fosse svelato, mons. Fabbri ha detto alla Commissione Moro di non saperlo, e fonti vaticane, recentemente interpellate, hanno ribadito di ignorare chi procurò quel denaro e dove finì. Non era tuttavia, denaro dello Ior, ha precisato mons.Fabbri, alimentando ancor più il mistero, ormai quasi irrisolvibile.
Un quadro politico incomprensibile oggi
In questi giorni che hanno anticipato la commemorazione, abbiamo visto il peggio dell’intellighenzia italiana ricordare gli eventi dal solo punto di vista dei brigatisti. Solo loro sono stati ascoltati, solo loro sono stati giustificati, quasi che fosse colpa di Moro, di Bachelet, di Biagi essersi fatti ammazzare e che – in fondo – bisognasse capire le ragioni dell’eversione. No. Non ci sono ragioni che tengano in uno stato democratico. Tra l’altro proprio Moro che aveva capito che solo un coinvolgimento di tutti avrebbe sanato le piaghe di trent’anni di potere incontrastato della DC venne ucciso proprio per quel motivo, vanificando ogni tentativo di reale rigenerazione della politica da un lato, e responsabilizzazione di tutti i partiti dall’altro. Erano altri tempi, la Guerra Fredda non permetteva una alternanza reale tra DC e PCI, ma la via stretta del Governo tra le due grandi chiese politiche era l’unico modo per evitare quella degenerazione che vediamo ancora oggi, in cui la qualità del personale politico è bassissima, dove non ci sono più partiti di massa, dove la democrazia interna di queste organizzazioni è spesso discutibile, dove non c’è nessun pensiero alto e di lungo periodo a guidare le singole formazioni. E dove non c’è più riconoscimento reciproco.
Un quarantennale dalla parte degli aguzzini
Allora davvero Moro è stato ucciso nel 1978, con lui la parte migliore della democrazia italiana, e continua a morire oggi nel tatticismo dei partiti. Ma è stato davvero ulteriormente ucciso da trasmissioni a senso unico come Atlantide su La7 che ha dedicato due puntate al Sequestro Moro e nemmeno un minuto ai parenti delle vittime, a cominciare dalla scorta. Per questo noi lo sfogo di Maria Fida Moro, la figlia dello statista democristiano in risposta ad un post della ex brigatista Barbara Balzerani:
Anche l’ex brigatista Raimondo Etro ha voluto rispondere alla Balzerani, con parole durissime
«Le Brigate rosse hanno rappresentato l’ultimo fenomeno di un’eresia politico-religiosa che nel tentativo maldestro di portare il Paradiso dei cristiani sulla terra… ha creato l’Inferno.. Inoltre lei dimentica che chi le permette di parlare liberamente… è proprio quello Stato che noi volevamo distruggere… così pregni di quella stessa schizofrenia che al giorno d’oggi affligge i musulmani che da una parte invidiano il nostro sistema sociale, dall’altra vorrebbero distruggerlo». E la chiusa è altrettanto drammatica: «Il silenzio sarebbe preferibile all’ostentazione di sé, per il misero risultato di avere qualche applauso da una minoranza di idioti che indossano la sciarpetta rossa o la kefiah. Ci rivedremo all’Inferno» (Corsera, 18 gennaio)
Una lettura da fare
In questo panorama desolante dell’informazione italiana una scintilla, quella dell’ultimo libro di Marco Damilano “Un atomo di verità“, edito da Feltrinelli. In questo libro, il direttore dell’Espresso (giornalista politico di lungo corso, noto per i suoi quaderni fitti di dichiarazioni e aneddoti parlamentari, memoria ambulante della politica italiana) con il suo stile lieve e mai banale racconta e svela al lettore a cosa stesse lavorando Aldo Moro, la posta in gioco, la dimensione umana e politica dello statista pugliese, intrecciando la narrazione coi ricordi di bambino di quel periodo.
In direzione simile si volge anche il nipote dell’ex Presidente DC, il professore di storia contemporanea presso l’Università Roma Tre, Renato Moro che ad Avvenire dice:
Ma oggi, a 40 dalla sua tragica fine, con tutta la necessità che ancora c’è di conoscere quel che sia davvero accaduto in quei 55 giorni, è inaccettabile che questi possano fagocitare quasi 62 anni di vita. È arrivato il momento di restituire a Moro la sua voce, la sua vita»
e ancora
«Non si può non ricordarlo come un costituente che ebbe un ruolo decisivo nel varo della Costituzione nei termini in cui è. La Repubblica fondata sul lavoro, ricordo i suoi contribuiti all’articolo 3 (il principio di uguaglianza), alla finalità rieducativa della pena, al ruolo della scuola paritaria senza oneri per lo Stato. Moro è stato relatore per la Dc sul progetto costituzionale. È stato uno dei riformisti della storia repubblicana che ha operato con più continuità e impulso. Questo aiuta forse a leggere meglio anche le lettere dalla prigionia: probabilmente percepiva che tutto il suo progetto riformista stava conoscendo uno smacco drammatico».
Che cosa ci suggerisce, questa Costituzione tanto simile alla figura di Moro, in questi giorni difficili?
«Abbiamo inventato la parola “inciucio” per dare del compromesso un’immagine deteriore. E invece questa Repubblica, questa democrazia, sono figlie di un compromesso. Per fortuna, aggiungo. L’etimologia della parola vuol dire cum promittere, promettere insieme. Che cosa c’è in politica di più alto? Ed è l’operazione che Moro realizzò nella Costituente».