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La perfetta letizia esiste (e non è smettere di soffrire)

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Rakesh JV-CC

padre Carlos Padilla - pubblicato il 14/03/18

Non sono più felice quando non devo rinunciare a nulla, quando non c'è sofferenza

Dio vuole che io sia felice. Mi ha messo nell’anima un desiderio immenso di ottenere una vita piena e gioiosa. Ma a volte parlo di fiducia e poi non arrivo ad averla.

Credo di confidare, di fidarmi di Dio. Lo dico con un sorriso sulle labbra quando ho confidato e mi è andata bene. Credo di confidare in Maria quando le cose vanno come voglio io, quasi come ho chiesto.

E allora sono felice, pieno. Tutto quadra. Il mio cammino è chiaro, e non cado. E allora la mia fiducia, come per magia, diventa più forte, salda come una roccia.

Ma se poi all’improvviso va tutto male? E se le cose non risultano come le volevo? Tremo. Dubito. Non confido in Dio.

Mi allontano da quel Dio che permette il mio male, la mia sofferenza. Non mi sembra più tanto buono quel Dio che non mi spiana il cammino eliminando i pericoli.

Ho una fede immatura, disposta a credere solo di fronte al successo, ma vacillante quando il cammino diventa difficile.

Gesù non mi dice che non mi accadrà mai niente di male. Non mi assicura successo nel cammino se seguo i suoi passi.

L’unica cosa che mi assicura è che non sarò mai solo e che sarà sempre al mio fianco, nella mia barca, sostenendo i miei passi vacillanti.

Gesù mi dice che ci saranno delle tormente nella mia notte. Che all’improvviso arriveranno burrasche e piogge torrenziali. Non mi dice che il mio cammino sarà esente da ogni pericolo. Non mi assicura un sole meraviglioso.

Dio non mi fa questa promessa. Mi dice solo di gettare radici profonde, di costruire sulla roccia.

Ma il mondo mi dice che se faccio una certa cosa o ne compro un’altra andrà tutto bene. Mi assicura che non temerò più nulla se seguo i suoi passi. Mi assicura il successo nella vita. Mi dice che sarò felice.

E in realtà quelle parole toccano nel più profondo il mio intimo anelito. Corrispondono al mio desiderio più vero. Come non voler essere felice per sempre?

Padre José Kentenich dice che il mio desiderio di gioia è nel più profondo della mia anima: “Se non ho gioia tanto per la mia crescita interiore in Dio quanto per quella degli altri, che effetti ci saranno? Se la gioia è un istinto primordiale, l’uomo la cercherà altrove” [1].

Spesso mi interrogo sulle vere cause della mia gioia. Una persona diceva che “la misura della felicità è la misura della dedizione”. È vero.

Ma dare mi costa. E a volte penso che se do troppo non sarò felice. Soprattutto se non ricevo nella stessa proporzione.

La mia tentazione è quella di essere felice a costo della felicità altrui, ma questa non è la vera via da seguire. Credo che sarò più felice rendendo felici gli altri. Ciò che fa fiorire la vera gioia è la mia dedizione.

Il mondo, poi, non soddisfa del tutto la mia ansia di infinito. Manca sempre qualcosa. Vorrei che la mia gioia fosse basata su Dio. La casa della mia vita costruita sulla sua roccia.

Ma quando scavo un po’ nella mia anima mi rendo conto di quanta sabbia ho e di quanto sia scarsa la solidità. Quando le circostanze sono avverse perdo gioia e coraggio.

E allora la mia fiducia si indebolisce e cerco nel mondo il riposo, la pace definitiva, la gioia autentica. Ma non la trovo. Se la cercassi in Dio sarebbe diverso.

Spesso mi sento triste, tocco il vuoto dell’anima. Come diceva padre Kentenich, “chi di noi non soffre in modo molto profondo per questa mancanza di gioia? Chi non soffre profondamente con il suo popolo, con i suoi seguaci, che soffrono tanto per questa carenza?” [2].

Una suora, quando le chiesero se le costavano le rinunce che aveva comportato l’ingresso in convento, rispose: “La mia rinuncia più grande è stata rinunciare alla tristezza che avevo prima”.

Mi è sembrata una risposta un po’ povera. Anch’io voglio rinunciare a questa tristezza, ma ciò non toglie che nella mia vita, nella mia vocazione, nel mio cammino concreto, in cui si prova ogni mattina la mia libertà, debba rinunciare.

Ogni vocazione, quella di chiunque, presuppone autentiche rinunce. Ciascuno conosce le proprie. Ogni rinuncia ha il suo valore, ma non è che per il fatto di aver rinunciato il cammino al quale Gesù mi chiama perde luce.

La felicità non consiste nel non dover rinunciare. Non sono più felice quando non devo rinunciare a nulla, quando non c’è sofferenza. Quell’immagine di felicità che a volte mi si inserisce nell’anima non è vera.

La mia vocazione passa per aderire a un bene che mi rende felice, ma allo stesso tempo devo baciare la rinuncia che fa male all’anima. La rinuncia a non avere altri beni che sono anche di Dio e preziosi.

Non è che per il fatto di toccare con dolore la mia rinuncia la mia scelta, il mio “Sì”, i miei passi smettono di avere luce. Ne hanno ancora di più. La rinuncia concreta illumina i beni a cui aderisco con gioia.

E nel mezzo del cammino potranno venire tempeste, tormente, dubbi, ma se il mio cuore è ben ancorato in Dio non tremerò.

E riposerò sollevato tra le sue mani di Padre: “San Francesco arriva a questa conclusione: se siamo perseguitati, disprezzati, ecc., e ci rallegriamo in Dio, allora avremo la perfetta letizia. Se concepiamo la gioia in questo modo, è forse qualcosa di blando, o al contrario è estremamente vigoroso, qualcosa di cui abbiamo bisogno?” [3]

La perfetta letizia non c’è quando mi va tutto bene, ma quando Gesù nel mio cammino mi fa guardare sorridendo i passi che ho davanti.

Nella mia Via Crucis abbraccio la mia vita com’è. Con i suoi limiti e il suo dolore. Con le sue carenze e le sue rinunce. Con la sua tormenta e i suoi monti alti e ripidi. Con il suo sole e il suo freddo.

E bacio la croce che fa parte della mia vita. Rinuncio definitivamente alla tristezza. Rinuncio a vivere senza pace. Rinuncio a vivere mendicando amore con l’anima piena di amarezza.

Rinuncio a non confidare in Dio ogni volta che la mia vita non va come l’avevo progettata. In base a quel progetto che pensavo mi avrebbe reso felice.

Rinuncio ad essere mediocre cercando la pace nelle piccole gioie della vita. Non voglio la mediocrità che mi turba e mi impoverisce.

È vero che quelle piccole gioie che accarezzo valgono la pena. Sono come quegli uccellini che riempiono la mia giornata con il loro canto.

All’improvviso tutto si riempie di luce, tutto brilla, anche se presto, in un sospiro, improvvisamente scompare.

E sorrido e mi riempio di pace. Sento il dolore per la rinuncia, per il sacrificio, ma allo stesso tempo sento anche il sollievo, la pace e la speranza.

Mi riempio di una luce che viene dall’alto, e ripongo la mia gioia in ciò che conta davvero. Non smetto di sentire il dolore. È come una fitta. Non ci rinuncio. Il dolore mi rende più umano e più consapevole dei miei limiti e delle mie carenze.

Ma rinuncio alla tristezza che a volte comporta il sacrificio. Non voglio la tristezza. Non rinuncio nemmeno al mio sorriso.

Come quello di quel Cristo di Javier che mi sorride dalla croce. Nel suo tormento mi sorride. Nel dolore mi guarda pieno di pace. Nella sua agonia si preoccupa di ciò che provo, di quello che vivo. Voglio vivere così. La perfetta letizia è in questo.

[1] J. Kentenich, Le fonti della gioia sacerdotale
[2] Ibidem
[3] Ibidem

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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