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Luigi Capasso, DJ Fabo e Carlo Ripa di Meana: omicidi, suicidi e desiderio d’eterno

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Annalisa Teggi - Aleteia - pubblicato il 05/03/18
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Dietro e dentro la violenza grida più forte la voce che brama un legame indistruttibileI delitti in famiglia sono atroci, le forme di affetto usa e getta sembrano ammirevoli e intanto c’è chi muore sperando di ritrovare per sempre la propria moglie nell’aldilà. Nella corsa a ostacoli della vita il matrimonio è l’unica alternativa lucida sulla libertà umana e resistente a ogni forma di morte quotidiana.

Finché morte non ci separi. O è una formula vuota, o è una maledizione, o è un memorandum per anime in allenamento alla maratona a ostacoli.

La cronaca è un cesto pieni di frutti umani; maturi e acerbi ciascuno a modo suo. Noi ne scriviamo, formuliamo frasi che riflettono eventi fatti di carne. Ad esempio, pochi giorni fa molti hanno potuto leggere su tutte le grandi testate: «A Cisterna di Latina il carabiniere Luigi Capasso ha sparato alla moglie, poi ha ucciso le due figlie di 7 e 13 anni e si è tolto la vita». Soggetto, predicato e complementi, la frase è ineccepibile dal punto di vista della grammatica. Ma il contenuto umano è inaccettabile, intollerabile al pensiero che osa calarlo nella realtà. Erano separati, lui aveva un’amante; questi e altri dettagli sono al centro del dibattito pruriginoso che si è scatenato sui media. Finché morte non ci separi, ovvero: se il nostro rapporto non va come dico io, ti ammazzo.

Molti programmi radiofonici e televisivi hanno dato spazio alla promozione editoriale del libro Prometto di perderti di Valeria Imbrogno, compagna di DJ Fabo, nel quale racconta la sua storia d’amore di venticinque anni con Fabiano fino al viaggio di morte in Svizzera. Con un rovesciamento completo, la promessa tra due amanti non è più quella di essere insieme fino alla fine, nel bene e nel male, ma di perdersi, dando all’eutanasia la delega di essere l’ultimo atto d’amore. Finché morte non ci separi, ovvero: ti voglio così bene che ti abbandono con ogni dolce premura.

Contemporaneamente, la morte di Carlo Ripa di Meana a due soli mesi dal decesso di sua moglie Marina è stata guardata con il languore emotivo e romantico; ecco l’uomo che non riesce a stare lontano dall’amata e la raggiunge nel sonno eterno. Leggendo i commenti sparsi sui giornali di cronaca e di moda si respira la stessa aria malinconica e tenera di quando morirono uno dopo l’altro Raimondo Vianello e Sandra Mondaini.

Ed è strano che, in un mondo così devoto all’amore libero –fai da te – a tempo determinato – con tutte le sfumature dell’arcobaleno, si canti all’unisono la nostalgia per quell’ideale sotteso dietro la frase detta da Carlo a Marina: «Stai tranquilla, tanto sono sicuro che quando ci rincontreremo dall’altra parte ci rimetteremo insieme un’altra volta». Fin che morte non ci separi, ovvero: l’ombra della morte è l’ultimo velo prima di ritrovarsi per sempre.
Vuoi davvero dire che, forse forse, il vincolo eterno è un bisogno tutt’altro che moralistico, bensì visceralmente incarnato in noi?

Separare è il verbo del diavolo, è il suo recinto d’azione etimologicamente parlando. Possiamo immaginarcelo con le corna e il fuoco, con un viso orribile e i denti aguzzi; ma non mi stupirei se qualcuno lo ritraesse come una presenza indistinguibile in mezzo alla moltitudine umana, in tutto e per tutto simile allo studente, all’operaio, all’avvocato o alla cameriera; e con un paio di forbici nascoste nel taschino. Questi anni così violenti non sono il suo regno, al contrario. Qualcosa si adombra all’orizzonte, un progetto umano tanto simile ai versi scritti da John Lennon: immagina tutte le persone vivere la vita in pace; ciascuno per conto suo; ciascuno così rispettoso del prossimo da non sfiorarlo né ascoltarlo; ciascuno così innamorato dell’amore da non imporlo all’altro, ma da viverlo per brevi istanti leggeri e poi via, verso nuove avventure; nessun legame, nessuna nazione, nessuna religione, silenzio. Ecco la fotografia del regno infernale, la quieta pace delle monadi. La separazione consensuale universale è la vittoria del diavolo.

Finché esisteranno vincoli forti tra gli uomini, esisteranno il fragore e le scintille della fucina: segno che qualcosa viene forgiato attraverso la prova del fuoco. Tra questi, il matrimonio è il più coercitivo e ambizioso perché ambisce a un’unità molto più che umana.


Ci si scandalizza dell’aumento di delitti orribili tra le quattro mura domestiche, si punta il dito sulla cosiddetta famiglia tradizionale che così santa e immacolata non è. Uno dei primi commenti fatti sulla strage compiuta da Luigi Capasso faceva notare che era un uomo religioso e andava in parrocchia. Si guarda invece con occhio commosso e benevolo chi scioglie il vincolo di unione col proprio amato nel momento della sofferenza, si loda Valeria Imbrogno per non essersi sottomessa a quel tipo di legame che esige unità «in salute e malattia».

Sì, tra le quattro pareti della famiglia tradizionale accadono e accadranno delitti tra i più riprovevoli e raccapriccianti, perché l’ipotesi di partenza è che il «noi» sia il viaggio adeguato per il compiersi dell’io. Laddove i legami si fanno inconsistenti e inesistenti, e ci s’inchina alla inviolabilità di «questo è il mio spazio e questo è il tuo spazio» la violenza è tanto forte quanto invisibile, perché l’umano è già in via d’estinzione. Lo si chiama rispetto, ma è uno sterile egoismo assoluto.
Quest’ipotesi non è una giustificazione della violenza, al contrario, è lo sguardo tremante con cui ogni giorno guardo la mia famiglia, mio marito in primis, e mi rendo conto che proprio lì, tra le persone che ho più care, la battaglia si fa serrata: senza un legame così radicale come il matrimonio forse non verrebbero fuori così chiaramente i miei peccati più tremendi. È con mio marito e coi miei figli che la mia persona viene scolpita e ridefinita alla luce di un «noi» che è altra cosa rispetto al regno orgoglioso dell’ «io, io, io!». È proprio una fucina incandescente, le ferite si aprono, spurgano, a volte s’incancreniscono. Voglio scommettere, però, che alla fine il mio ritratto sarà più sorridente di quel che avrei disegnato da sola.

Perciò, lucidamente, tra le molte possibilità appetibili ho scelto il matrimonio come sacramento. Nel tempo, ogni sfumatura zuccherosa associata a questo tipo di legame si è sbiadita, perché grazie al signor Chesterton ho intuito che l’orizzonte della vita da sposati ha a che fare con metafore più azzardate. Sportive, ad esempio:

«Pagani e cristiani, indistintamente, hanno trattato il matrimonio come un nodo, una cosa che, normalmente, non deve essere sciolta. In breve, questa fede sul legame sessuale si basa un principio di cui la mente moderna non possiede uno studio veramente adeguato. Forse la cosa a cui si avvicina di più è il secondo fiato.
Il principio è il seguente: qualsiasi cosa a cui teniamo, anche ogni piacere, ha un punto di dolore o noia che deve essere superato, in modo che il piacere possa rinascere e durare. La gioia della battaglia arriva dopo la paura iniziale della morte, la gioia di leggere Virgilio arriva dopo la noia di averlo studiato, il tepore per chi fa il bagno nel mare arriva dopo lo shock dell’immergersi e il successo di un matrimonio arriva dopo il fallimento della luna di miele. Tutti i giuramenti umani, le leggi e i contratti sono modi differenti per sopravvivere con successo a questo punto di rottura, a questo istante di possibile resa». (GK Chesterton, Cosa c’è di sbagliato nel mondo)

C’è quel momento durante una corsa in cui manca il fiato al punto che si mollerebbe tutto, ma superato quel momento critico arriva un «secondo fiato», una nuova fase in cui la fatica sembra alleggerirsi e giungono nuove energie. Il sacramento del matrimonio è volitivo, perché sta lì, come un intransigente giudice di gara, a sollecitarti nel momento in cui molleresti. Al confronto, l’amore libero non si stanca, ma non ha neppure un traguardo.

«Due persone devono essere legate per farsi reciprocamente giustizia, può essere per venti minuti durante un ballo o per vent’anni in un matrimonio. In entrambi i casi il punto è che se l’uomo si annoia dopo cinque minuti, deve andare avanti e chiedere a se stesso lo sforzo per recuperare la felicità. La coercizione è una forma in di incoraggiamento e l’anarchia (o ciò che alcuni chiamano libertà) è fondamentalmente oppressiva, perché è fondamentalmente scoraggiante. Se tutti galleggiassimo in aria come bolle, liberi di andare qua e là in ogni momento, il risultato pratico sarebbe che nessuno avrebbe il coraggio di cominciare una conversazione». (ibid.)

Finché morte non ci separi è qualcosa di più della data di scadenza terrena di un matrimonio, forse è la tabella di marcia della nostra maratona a ostacoli quotidiana. La morte, quella generalmente intesa, arriverà una volta per tutte e sarà un passaggio, una separazione breve per ritrovarsi dopo, come Carlo Ripa di Meana ha detto a sua moglie. Ma quante morti quotidiane siamo in grado di infliggere al vincolo con il nostro sposo o sposa?

È questo il memento dietro quella frase che suona così lugubre: la ritualità del il sacramento dimostra una chiarezza visiva sul giorno-per-giorno della vita di coppia mettendo in conto che la libertà della persona è sacra, proprio perché, istante per istante, deve scegliere e può scegliere di tradire, di abbandonare la corsa.

L’eternità è una posta in gioco alta, l’unica su misura per l’uomo a dire il vero, e ci si va incontro sapendo bene che ogni nuova mattina possono fare capolino occasioni piccole e grandi, tragiche addirittura, per mettere a morte questo vincolo ben più che umano; ci si può ammazzare a vicenda con una pistola, ma anche con una separazione consensuale e amichevole. Più frequentemente il veleno mortale della separazione è dentro le ripicche quotidiane, i silenzi nervosi, le cattiverie sputate addosso senza pensare, perfino i «ti ho capito». Va bene così, non potrebbe essere altrimenti, è la parte più umana del matrimonio, quella necessaria a renderci consapevoli del bisogno di affidare l’ideale buono di fedeltà eterna a mani meno tremanti delle nostre.