Dal nostro dolore iniziamo a vedere e sentire il dolore degli altri, di tutti. Dio ha fatto così con Mosè: gli si manifesta nel momento del dolore personale
Qualche giorno fa ho ascoltato una catechesi a cui continuo a pensare. Anzi, adesso che me ne rendo conto, è una settimana che l’ho ascoltata, ed evidentemente ancora la devo capire bene. Padre Emidio parlava di Mosè, che dalla corte del faraone a un certo punto, dopo che ha ucciso, la storia la sapete tutti, scappa nella terra di Madian e si mette a fare il pecoraro. E’ in quel momento della vita, quello in cui ti accorgi di fare un lavoro del cavolo e ti sembra che la tua vita sia immersa in un grigiore e una pesantezza che non avresti mai scelto.
E’ allora che Dio gli si manifesta nel roveto ardente, e gli chiede di portare il suo popolo alla Terra Promessa. L’incontro personale col Dio del roveto avviene sempre nel momento del dolore, quando cominci ad accorgerti del dolore tuo e del mondo, un dolore che non finisce mai.

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Mosè viene incaricato di portare il popolo di Dio, e questo è quello che è chiesto a molti di noi, credo anche a noi che bazzichiamo dalle parti di questo blog. Lui apparteneva a una super élite, come, che so, uno che oggi sia di casa alla Casa Bianca, frequenti Oxford e Harvard e conosca molto di più degli altri (gli Egiziani erano gli Americani di oggi, più o meno).
Mosè nel deserto forma un popolo, cerca di trasferire tutta la sua sapienza a quel popolo di schiavi che non avevano studiato, ma a un certo punto si spazientisce con loro, ed è per questo che Dio gli dice che non entrerà nella Terra promessa.
Anche a noi è chiesto di fare come Mosè, cioè di portare gli altri alla fede. Da salvati, diventare salvatori. Ma non dobbiamo spazientirci. Anche noi, anche se non abbiamo fatto Harvard più o meno siamo tutte persone piuttosto formate nella fede, nella vita abbiamo ricevuto abbastanza formazione, cultura, educazione (io ogni tanto dubito parecchio di me stessa, in merito, ma se poi mi guardo intorno penso che dai, mi posso accontentare, c’è parecchio di peggio in giro).
Il privilegio però non deve diventare un’occasione per giudicare, anche quando davvero ci cadono le braccia. Il punto è diventare padri e madri dei fratelli nella fede. Siamo in un momento speciale della storia della Chiesa. Sono circa quaranta minuti che penso a quale aggettivo scegliere. Se dico particolare, o, peggio mi sento, critico, vengo subito etichettata come nemica del Papa (mi succede, ogni tanto, ma pazienza).