di padre Nuno Serras Pereira
Ogni figlio ha il diritto di essere generato dai genitori biologici (e non da tecnici di laboratorio), che devono essere sposati, e di essere allevato ed educato da entrambi. Questo diritto ovvio, in virtù della dignità incommensurabile di ogni persona a qualsiasi età, è al giorno d’oggi calpestato da legislazioni ottuse e aberranti e in genere ripudiato dalla mentalità regnante, da gran parte dei cristiani e perfino da alcuni membri della gerarchia ecclesiastica.
Il fatto di essere allevati ed educati da entrambi i genitori, purtroppo, non è sempre possibile per varie circostanze – la morte di uno dei due, la detenzione prolungata, il servizio militare all’estero in una guerra a tempo indeterminato, una malattia cronica invalidante, la violenza domestica (psicologica, fisica o morale), l’adulterio, la poligamia, l’unione poliamorosa… Tutto questo è in linea generale compreso e accettato dalla generalità delle persone, e in qualche misura anche dalla Chiesa.
Quando si tratta di figli di cattolici con un matrimonio valido che divorziano civilmente e si “sposano” civilmente, frutto di un rapporto civile, oggettivamente adulterino, si ritiene un imperativo assoluto la permanenza in quello stato, considerato l’unico modo per non commettere una grave ingiustizia nei confronti della prole. È chiaro che se i genitori decidono di vivere come fratelli per il bene dei figli che si vogliono salvaguardare è comprensibile che condividano la stessa abitazione e si aiutino nella cura della prole.
Ma cosa succede nei casi in cui uno dei coniugi vuole vivere nell’astinenza e l’altro no? Quello che vuole farlo deve sottomettersi al volere dell’altro? Evidentemente no. E in questa circostanza dovrà separarsi, ponendo fine definitivamente alla situazione oggettiva di adulterio pubblico e permanente ma continuando, in base alle sue possibilità, a contribuire alla crescita dei figli. In caso contrario si dovrebbe, ad esempio, decanonizzare e condannare come gravemente ingiusta Santa Gianna Beretta Molla.
Pediatra, era sposata e aveva tre figli quando rimase incinta della quarta. Si scoprì allora che aveva un fibroma all’utero. C’erano tre opzioni: asportare l’utero malato (il che avrebbe provocato la morte del bambino), abortire il feto o, ipotesi più rischiosa, sottoporsi a un intervento pericoloso per preservare la gravidanza. Gianna, che come medico era pienamente consapevole di quello che poteva accadere, non esitò e disse: “Salvate il bambino, perché ha il diritto di vivere e di essere felice!”
L’intervento ebbe luogo il 6 settembre 1961. Gianna entrò in sala parto il Venerdì Santo del 1962, e il giorno dopo, il 21 aprile, nacque Gianna Emanuela. Sempre fedele, Gianna affermava: “Tra la mia vita e quella di mio figlio salvate il bambino!” Gianna morì in casa il 28 aprile 1962.
Di fronte alle alternative che le erano state proposte – non solo dai medici, ma anche dai familiari e dal marito stesso, ricordandole i tre figli che avrebbe lasciato privi della sua presenza materna –, la prima era moralmente lecita, legittima, e tuttavia Gianna mise al primo posto la figlia che portava in grembo.
Se non è stato gravemente ingiusto – tutt’altro – l’abbandono previsto (ma non desiderato) a cui Santa Gianna Beretta Molla votò i figli in virtù della sua offerta magnanima d’amore, perché dovrebbe essere gravemente ingiusto che un padre o una madre si doni con una magnanimità simile rinunciando a un comportamento gravemente immorale per non offendere più Dio, unirsi a Gesù Cristo e vivere in comunione con il Suo Corpo che è la Chiesa – potendo continuare, seppur con dei limiti, ad accompagnare i propri figli e a contribuire alla loro crescita?
[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]