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Una grande lezione su ciò che accade quando neghiamo il dolore nella nostra vita

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Catholic Link - pubblicato il 01/03/18

di Daniel Prieto

L’uomo, homo narrans, è un essere mimetico, che oltre alla sua identità personale effettiva abita il mondo intessendo un’identità narrativa attraverso una serie di esperienze che in modo inevitabile deve assumere, interpretare e poi narrare (a se stesso o agli altri), inserendole inoltre in una meta-narrazione (culturale, storica, sociale, religiosa…). Quando queste esperienze sono condivise si mettono alla prova, perché soffrono la tensione di confrontarsi di fronte alle interpretazioni altrui, che non sempre confermano la nostra “visione dei fatti”, ma possono ferire, falsificare, limitare, purificare o distruggere ecc. la nostra interpretazione, esterna o interna, costringendoci a dilatare o a restringere i nostri spazi (mondi) interiori ed esteriori (a causa di esperienze affettive di amore o di odio, di gelosia o di rivalità, di desideri o repressioni piene di colpa…).

In questo processo, i genitori quando i figli sono piccoli hanno il ruolo fondamentale di educarli a fare buon uso della loro libertà (ex/ducere, ovvero condurli verso, nella fattispecie un porto sicuro), perché imparino a tessere le loro esperienze in una narrativa che non falsifichi la realtà, ma che sia a poco a poco capace di interiorizzare e accettare i limiti (e la sofferenza che questi comportano), integrando ciò che è positivo e rifiutando e purificando ciò che è negativo, per imparare così ad amare gli altri. Solo così si può evitare che il loro mondo si assolutizzi, chiudendoli in se stessi. Questo processo dev’essere paziente e delicato, visto che quando la realtà degli altri ci ferisce o ci delude, abbattendo aspettative, fantasie o illusioni (in molti casi infantili, anche se buone), genera un movimento spontaneo di difesa e sfiducia che ci porta a costruire “muri di separazione” tra il mondo altrui e il nostro (come quando diciamo “Tizio vive nel suo mondo”, per indicare che quella persona vive concentrata sui propri affari e interessi). In questi casi, tuttavia, la soluzione non può essere l’iperprotezione che crea una barricata per proteggere il mondo della persona interessata, visto che il desiderio di sminuire il dolore può finire per trasformarsi in un tentativo di contenerlo del tutto fino a farlo scomparire (o negarlo), il che impedisce alla persona amata di realizzare i “riti di passaggio” necessari per crescere e maturare. La persona che non è stata corretta diventa presto o tardi di incapace di amare anche chi l’ha amata eccessivamente. La persona adulta a livello di età è invece infantile a livello affettivo.

Non è raro trovare persone che per via di un’iperprotezione eccessiva nell’infanzia, o al contrario per la mancanza di protezione e di amore, sono cresciute proteggendosi, bloccando la propria affettività, creandosi un mondo rigido, egocentrico e capriccioso, che impedisce loro di aprirsi agli altri (o di intavolare una comunione profonda), perché hanno perso la capacità di confidare e di mostrarsi vulnerabili. Questo tipo di persone ha difficoltà ad affrontare in modo responsabile e maturo la propria vita e quella altrui, perché è rimasta intrappolata in una narrativa infantile senza rendersene conto (problema molto diffuso tra molti genitori della nostra epoca e che i sociologi indicano come “sindrome di Peter Pan”). Molti di questi, poi, tendono con la loro ragione e la loro volontà ad affermarsi sempre più a costo degli altri (figli inclusi), tentando di erigersi a dèi della realtà, in un movimento che pretende illusoriamente di conquistare la vita con le proprie forze. Spesso, come la nostra protagonista, cercano di superare e vincere inutilmente i limiti del tempo e dello spazio (le malattie, la vecchiaia, la morte…) con i progressi della tecnica. Alla fine, però, si scontrano sempre con l’impossibilità di fabbricarsi, con la propria alchimia, un’immortalità e una vita che vinca la morte, perché queste possono solo sorgere dalla comunione, e solo lo Spirito può concedere questo amore reciproco che nasce dalla dipendenza e dalla fiducia.

Dipendenza e fiducia in fondo sono la condizione di possibilità di una relazione con l’unico che può prometterci una cosa simile: Colui che è la Vita, Colui che può davvero superare i limiti dello spazio e del tempo. Nelle loro genealogie, Matteo e Luca ci rimandano alle origini della creazione sia in un senso teleologico (tutto ha la sua radice in Dio Padre) che in un senso più storico, mostrandoci la drammaticità della storia con i suoi personaggi così caratterizzati dal male.

Come intuisce con profonda bellezza Guardini nel suo libro “Il Signore”, “Nei lunghi anni silenziosi a Nazareth Gesù probabilmente ha talvolta riflettuto su questi nomi. Quanto in profondità deve aver sentito che cosa vuol dire: ‘storia degli uomini’! Tutto quanto vi è in essa di grande, di vigoroso, di confuso, di meschino, di oscuro e di malvagio, tutto ciò che minacciava la sua esistenza e ribolliva intorno a lui doveva assumerlo, presentarlo a Dio e risponderne davanti a Lui”.

Cristo è venuto proprio ad assumere in modo radicale i limiti della nostra condizione umana (della nostra solitudine), per aprire da dentro il nostro spazio interiore chiuso e sfiduciato al rapporto di dipendenza con l’unico Padre che può condurci a un amore in grado di guarire tutte le nostre ferite e di dilatare “il nostro mondo” (narrativo e personale) verso i confini di tutta la storia e del cosmo. Sì, perché Cristo è venuto ad abbattere il muro di separazione che ci divide e frammenta in tanti mondi (giudei e gentili), e per creare in sé di tutti “un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo” (cfr. Ef 2, 14-16).

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

QUI L’ORIGINALE

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