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Possiamo conoscere con certezza l’identità di qualche dannato?

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 19/02/18

Alcune persone sembrano sentire la necessità di divulgare pretese rivelazioni private in cui questo o quel personaggio storico verrebbe dichiarato dannato, affermando sovente che tutta la Tradizione cattolica conforterebbe certe affermazioni. È vero il contrario, invece, e semmai è importante capire perché non ci sia dato di conoscere l'identità di neppure un dannato (eccetto il solo Lucifero)

Dalla Divina Commedia in qua, passando anche per solenni rivelazioni di santi e beati, di tanto in tanto ci capita di avere notizia che qualcuno sia all’inferno. E, come accade ogni volta che ci troviamo fortemente impressionati da un pensiero incisivo che ci attraversa la mente, ci poniamo “la domanda seria”: ma sappiamo di qualcuno che sia all’inferno?

Come già qualche altra volta ho fatto, in passato, lascio subito la risposta per chi ha fretta: no, di nessuno abbiamo certezza che sia all’inferno. Epperò lo so che adesso le “domande serie” si affastellerebbero una dietro l’altra? «Come no?», «E perché?», «E allora Giuda?», «E Lutero?», «E perché allora alcuni santi hanno detto di aver riconosciuto dannati nelle loro visioni? Dicono forse bugie i santi?», «E Dante?».




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Ora, accingendomi a rispondere più diffusamente per chi ha meno fretta, metto anzitutto le mani avanti su Dante: sono piuttosto convinto, infatti, che alla base della Commedia ci stia un’esperienza mistica particolarissima, e che dunque in quelle pagine immortali non splenda solo un poeta senza pari, ma anche un teologo e un divulgatore di prima grandezza. Tuttavia non sono tenuto a prestar fede a tutti e singoli i contenuti del Poema: per frate Alberigo, lo si ricorderà (If XXXIII, 118-149), Dante arriva a immaginare che le anime ree di crimini particolarmente laidi vengano “balestrate” subito in Cocito, cioè nel fondo dell’inferno, ancora prima della morte fisica dell’uomo. Ora, a tutti risulterà evidente quanto inconciliabilmente una simile affermazione cozzi con diversi elementi basilari della fede cristiana, e in nessun modo il fedele cristiano è tenuto a prestare «il religioso ossequio dell’intelletto e della volontà» a una proposizione che non solo non è contenuta nella fede cristiana, ma che ne è esplicitamente esclusa.

Così come quando Dante dice di aver incontrato all’inferno Papa Niccolò III, il quale involontariamente gli avrebbe predetto la futura dannazione del Papa regnante nel 1300, Bonifacio VIII (If XIX, 46-87): in nessun modo simili passaggi impegnano la fede del cristiano, il quale tuttavia sa bene che nessuna dignità ecclesiastica – neppure quella suprema – esime dal rischio concreto di «rovinare o perdere sé stesso» (cf. Lc 9, 25). Dunque in linea di principio è tutt’altro che impossibile che uno o più papi siano dannati… solo che non è dato averne certezza. Tra poco cercheremo di capire perché.




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Ma Dante – mi ribatterà qualcuno – non era un santo, mentre ci sono diversi santi che hanno affermato di aver veduto l’inferno, tutt’altro che vuoto (come costuma affermarsi tra certi sedicenti teologi); e fra costoro qualcuno ha pure attestato di aver riconosciuto e veduto qualcuno in particolare. Penso ad esempio alla beata Maria Serafina del Sacro Cuore (1849-1911), che avrebbe affermato di aver veduto in estasi l’inferno e di aver potuto distinguere il profilo di Martin Lutero tra quelli dei dannati:

Dopo queste parole – il racconto è in terza persona, N.d.R. – vide un’orribile voragine di fuoco, in cui venivano crudelmente tormentate un incalcolabile numero di anime. Nel fondo di questa voragine v’era un uomo, Martin Lutero, che si distingueva dagli altri: era circondato da demoni che lo costringevano a stare in ginocchio e tutti, muniti di martelli, si sforzavano, ma invano, di conficcargli nella testa un grosso chiodo.

Al di là di tutte le osservazioni che si potrebbero fare nella fattispecie – la pena descritta è grottesca e difficile anche solo da immaginare, se a subirla è un’anima priva di corpo, ma questa è una critica che vale anche per Dante – giova ricordare che neanche l’autorità dottrinale dei santi riconosciuti come “dottori della Chiesa” è superiore alla dispensa del Magistero ecclesiastico. San Tommaso nega l’Immacolata Concezione, e a nessun teologo serio verrebbe mai in mente di contrapporre il Doctor Angelicus alla Viva Tradizione della Chiesa; Sant’Agostino sembra in qualche pagina affermare che in effetti vi sia una sorta di “duplice predestinazione” all’inferno o al paradiso, eppure non esiste un teologo che gli contrapporrebbe le successive censure dei concili di Orange e di Trento, come se il Doctor Gratiæ avesse potuto contravvenirvi. Nella fattispecie, dunque, la pretesa rivelazione di suor Maria Serafina Micheli va inquadrata nel contesto della sua visita ad Eisleben, svoltasi nel 1883 proprio mentre si celebrava il quarto anniversario della nascita del celebre concittadino riformatore: nulla di più naturale che la giovane consacrata (34 anni all’epoca dei fatti) venisse portata a meditare sul destino di quell’uomo controverso, che aveva aperto dolorose ferite nel corpo ecclesiale. Questi i fatti: di qui in poi ci sono solo illazioni. Fu vera visione? O solo suggestione? Fu narrata con intento parenetico? O apologetico? Soprattutto, viene recepita per fini di edificazione o di demolizione? A tali domande corrispondono evidentemente altrettanti elementi che concorrono nel discernimento quanto a una pretesa rivelazione privata. Ferma restando la regola aurea di tutte le rivelazioni private (inclusa quella di Lourdes, che comunemente è ritenuta la più chiara e sicura dell’evo moderno): in nulla che si discosti dalla rivelazione pubblica della Chiesa va seguita una qualsivoglia rivelazione privata.




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Ciò significa – ancora obietterà qualcuno – che le rivelazioni private non aggiungono alcun elemento alla fede? Non sarei così drastico, se dovessi dare una risposta a questa domanda: la rivelazione privata non è meramente tautologica, e può anzi introdurre degli elementi a cui il cristiano può dare il proprio assenso di fede. Le direttrici sono però due:

  1. tali contenuti non possono contrastare con il depositum fidei, e sono tanto meno credibili quanto più se ne distanziano;
  2. tali contenuti non possono dirsi o intendersi vincolanti per la fede del cattolico, nel senso che se qualcuno non ritenesse di aderirvi con atto di fede non per questo decadrebbe dalla fede cristiana.

Un esempio? Quanti accolgono la rivelazione privata di santa Margherita Maria Alacoque – nota come “la grande promessa” o “i primi nove venerdì del mese” – fanno cosa buona, mentre quanti non la accolgono non fanno cosa cattiva. E per quanti la accolgono, la pratica devota è buona se coltiva la speranza della salvezza eterna, che è espressione di fede amorosa in Gesù; ma devia e diventa gravemente erronea se adduce alla presunzione della propria perseveranza finale – sulla quale incombe un anatema del concilio di Trento. L’esempio valga solo per chiarire quale sia la sinergia tra rivelazioni private e rivelazione pubblica.




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Ma torniamo al nostro tema: «Almeno di Giuda – qualcuno mi dirà – si potrà dire che sia all’inferno». È vero che morì suicida dopo aver tradito il Figlio di Dio, sì, e soprattutto è vero che di lui Gesù stesso ha detto parole gravissime, inaudite se si considera l’identità di chi le ha proferite: «[…] Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito! Sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato» (Mt 26, 24). Perfino queste espressioni, estremamente gravi, restano in qualche modo così oscure da non rispondere nitidamente alla domanda se Giuda sia o non sia all’inferno. Ribadiamo: è chiaramente possibilissimo che Giuda sia dannato, come è possibile che lo siano Lutero, o frate Alberigo o Niccolò III o Bonifacio VIII. Resta il fatto che la Rivelazione non ce lo dice.




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Quando dico “rivelazione” intendo il complesso di Tradizione, Scrittura e Magistero, dove la prima comporta la seconda e il terzo, il terzo interpreta la prima e la seconda e la seconda stabilisce le norme della prima e del terzo. Ricordiamo dunque quanto già Pio XII, citando Leone XIII, affermava sull’inerranza delle Scritture:

Prima e somma cura di Leone XIII fu quella di esporre la dottrina della verità dei Sacri Libri e difenderla dagli attacchi avversari. Perciò con gravi parole affermò non esservi errore quando l’agiografo, parlando di cose fisiche, «si attenne a ciò che appare ai sensi», come scrisse l’Angelico [Cfr. I. q. 70, art. I ad 3], esprimendosi «o con qualche locuzione metaforica o in quella maniera che ai suoi tempi si usava nel comune linguaggio ed ancor oggi si usa di molte cose nel quotidiano conversare anche fra la gente più dotta». Infatti «non fu intenzione dei sacri autori – o meglio, per usare le parole di Sant’Agostino [De Gen. ad litt. 2, 9, 29; P. L. XXXIX, col. 270 sq.; CSEL. XXVIII, III, 2, p. 46] – dello Spirito di Dio, che per mezzo di essi parlava, di insegnare agli uomini queste cose, e cioè l’intima costituzione degli oggetti visibili, che nulla importano per la salute eterna» [Leone XIII, Acta XIII, p. 355; Ench. Bibl. n. 106]. Tale principio «gioverà applicarlo anche alle scienze affini, specialmente alla storia», confutando cioè «in maniera non molto diversa i sofismi degli avversari» e sostenendo «contro le loro obiezioni la verità storica della Sacra Scrittura» (Cfr. Benedetto XV, Enc. “Spiritus Paraclitus“).

Pio XII, Divino Afflante Spiritu

Tale principio, diremmo parafrasando i due papi capranicensi, gioverà applicarlo quindi a tutta intera la Rivelazione, come il dettato conciliare della Dei Verbum ha fatto e come i documenti a seguire hanno recepito: tutto ciò che viene infallibilmente insegnato da Dio è per la nostra salvezza. Ne consegue che per nessuna verità Dio impegna la sua rivelazione pubblica se questa non è funzionale alla salvezza degli uomini.




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Dunque è per questo che non sappiamo chi sia dannato, ed è per la medesima ragione che invece abbiamo contezza di alcuni (molti ma probabilmente pochissimi, in percentuale) che siano già in Paradiso: quest’ultima verità è difatti funzionale alla nostra salvezza perché stimola e ravviva la fede, la speranza e l’amore; l’altra invece alimenterebbe facilmente la divisione, il terrore e il rancore (come abbondantemente vediamo presso coloro che si dànno da fare per diffonderle). Oltretutto – e va detto anche questo – quando una persona si danna esce definitivamente e irrevocabilmente dalla Chiesa di Dio; quando invece una va in paradiso vi entra nel modo più pieno e stabile possibile prima del Giudizio Finale. Per questo, nel nodo sacramentale della communio sanctorum, sapere della felicità eterna di «quanti ci hanno preceduti nella fede» è funzionale alla nostra stessa salvezza: ben lungi dal muoverci a invidia, questa verità dilata il nostro cuore e ci sprona a correre anche noi, come hanno fatto i nostri padri e i nostri fratelli maggiori, nella via di Dio.

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