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Napoli, i baby camorristi e nessun maestro…

Gomorra

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Lucandrea Massaro - Aleteia Italia - pubblicato il 06/02/18
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Solo una comunità può crescere un bambino, non bastano i genitori o la scuola, tutti siamo coinvoltiVuoi dà la colpa ‘a criatura? Che ne sa un ragazzino di 6-7 anni della differenza tra il bene e il male? Queste sono le domande che corrono veloci alla mente mentre si guarda il video, oscurato pudicamente (e correttamente!) da Larampa.it ma facilmente trovabile “in chiaro” su internet a volerlo cercare. Un bimbo dato in pasto alla rete mentre imita il suo “eroe”: il camorrista Genny Savastano della serie tv Gomorra.

«Genny Savastà, a Napoli commannamm io e te e sparamm mocc» cioè “Genny Savastano, a Napoli comandiamo io e te e gli spariamo in bocca”.

Dice don Maurizio Patriciello, prete napoletano, su Avvenire:

A pronunciare questa orribile, inaudita, spaventosa frase è un tenerissimo bambino di sei sette anni travestito da camorrista con un mitra in mano. Genny Savastano è il protagonista della serie televisiva Gomorra. Il video sta facendo il giro del web. È proprio brutto, violento, di cattivo gusto.

Un pugno nell’occhio. Il volto del bambino, non oscurato, è dato in pasto a tutti. Povera, innocente, creatura, che squallido servizio gli adulti gli hanno reso. Nonostante la legge che tutela i minori, di fatto questo bimbo non è stato per niente tutelato.

Nell’articolo don Maurizio ricorda come parlare di Mafia, di Camorra, di ‘Ndrangheta, sia necessario perché è il clima di omertà, di paura, di connivenza, di disinteresse, che permette a queste organizzazioni di prosperare. E’ necessario denunciare, punire, proteggere chi ha il coraggio di rompere con le regole che queste realtà impongono ai territori che governano. Lo scopo è il potere, il denaro, gli affari. Il nemico: lo Stato (spesso già sconfitto da tempo) e quella società civile che si ribella, che dice no, che “rompe le scatole”. Gli insoliti alleati possono essere i media. Anche la tv, anche i giornali. La morbosità, ma più ancora rendere questi criminali dei “vincenti”, degli esempi da imitare. Prosegue don Patricello:

Anche la televisione, naturalmente, deve fare la sua parte. Portare sugli schermi questa triste realtà che, da decenni, non riusciamo a scrollarci di dosso, è un dovere. La gente deve sapere, gli oppressi devono essere liberati, i mafiosi debbono scomparire dalla faccia della terra. Occorrono professionisti seri, bravi, onesti, capaci di veicolare un doppio messaggio: di denuncia e di speranza. Per quanto possa farci inorridire, dobbiamo ricordare che il male riesce anche ad affascinare. Un mistero, questo, che nessuno è in grado di spiegare. Ogni parola, ogni gesto, ogni ripresa perciò, devono essere meditate, pensate, pesate. La curiosità morbosa che in tutti fa capolino non deve essere alimentata. Indugiare nel raccontare certi particolari scabrosi non è un bene. La sola notizia di una minorenne stuprata deve bastare a farci inorridire, entrare nei particolari non aggiunge niente allo scempio perpetuato ma, al contrario, potrebbe scatenare in alcuni un processo di emulazione. I libri si scelgono, si comprano, si studiano, la televisione, invece, arriva in casa, in tutte le case, a tutte le ore.

Ma questa identificazione, questa idolatria giovanile verso questo male è possibile se il contesto di riferimento è quello del degrado, dell’assenza di valori, dei genitori che non sono mai a casa. Napoli in questo senso sta vivendo una stagione drammatica con il fenomeno delle baby gang (11-14 anni appena) che rubano, accoltellano, terrorizzano la città. E intanto questi bambini (si fa fatica a chiamarli diversamente talvolta) perdono giorno dopo giorno la loro dignità, la loro innocenza, tra una rissa e lo sfoggio del “pezzo” di fronte a tutti. Appena tre giorni fa (Repubblica Napoli), un gruppetto di tre quindicenni fermati dalla polizia con manganelli telescopici in acciaio, pronti da essere usati per intimidire o picchiare, affidati ai genitori dall’autorità giudiziaria ma, viene da chiedersi, dov’erano i genitori mentre i loro figli si armavano? E dove erano i genitori, gli insegnanti, il parroco, la polizia, prima che un altro 15enne accoltellasse il giovane Arturo (17 anni) a metà dicembre per un misero cellulare (Messaggero)?

Cosa spinge questi ragazzini a gesti come quello di Rosario (15 anni) che ha sfregiato la professoressa a scuola con un coltello a serramanico?

“Aiutate mio figlio”. E’ questo l’appello che rivolge ai magistrati e alla scuola, la madre di Rosario, il diciassettenne di Acerra che ha sfregiato la prof di italiano dell’istituto «Majorana-Bachelet» di Santa Maria a Vico, Franca Di Blasio, tagliandole il viso con un coltello a serramanico. La madre del ragazzo è chiusa in casa da giovedì e piange in continuazione, non riesce a capire come sia potuta accadere una cosa del genere. “Ora lui ha capito il gesto grave che ha fatto, ma in carcere nessuno può aiutarlo. Per questo chiedo alle istituzioni una mano, un aiuto: mio figlio può essere salvato”. Lei, mamma protettiva con i suoi figli al punto che non ha mai voluto mandare Rosario in gita con i compagni, spera in una decisione veloce della magistratura: “Sono distrutta dal dolore che è stato provocato, Rosario ora chiede in continuazione della sua professoressa. Io proprio all’insegnante e all’istituto scolastico voglio chiedere scusa: perdonate mio figlio, non è un ragazzo violento. Noi non ci siamo accorti che stava soffrendo come noi per le condizioni di salute della nonna che per lui è come una seconda mamma”. Accanto alla mamma di Rosario c’è il padre: “Forse siamo stati distratti, presi com’eravamo dalla malattia di mia madre e non ci siamo accorti che Rosario stava male” (Messaggero)

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Ecco allora che l’appello del Cardinale Crescenzio Sepe appare come un grido di dolore e di denuncia, ma anche come una “chiamata alle armi” per una comunità, quella napoletana, che non vuole e non può rassegnarsi a quanto accade: «Dobbiamo fare tanto perché da una parte c’è questa naturale propensione dell’uomo a vivere in pace, dall’altra ci sono tanti fermenti che cercano di contrastare con la violenza e il sopruso questa convivenza pacifica tra gli uomini. Ognuno di noi può portare una piccola pietra per costruire l’edificio della pace». E sulle baby- gang aggiunge: Sono ragazzi che hanno perso la propria dignità il senso e la bellezza della loro età, invece di cercare qualcosa che possa soddisfare la sete di giustizia e di serenità, si buttano nella braccia delle associazioni malavitose dove finiscono sempre male, o rimettendoci la vita o nel migliore dei casi in carcere» (Corriere del Mezzogiorno, 2 gennaio).