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Il caso Pamela: davanti all’orrore ma per ripetere la speranza di Cristo

PAMELA MASTROPIETRO

Facebook I Pamela Mastropietro

Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 06/02/18

Cercando in rete le reazioni, le analisi, le prese di posizione sono tante. La più ragionevole rimane quella del vescovo: "senza preghiera non si può essere credenti e senza fede non si può portare al mondo né l’amore né la speranza"

Pamela ha diciotto anni ed è già morta. Lo scempio compiuto sul suo corpo ci è ricordato continuamente da giorni. Tante, troppe volte nei titoli, dove lo speaker alza la voce in modo sensibile, sentiamo le frasi “fatta a pezzi e messa in due trolley”, barbaramente smembrata, macellata. Uno strascico di sinonimi, un profluvio di avverbi a rinforzo.

I fatti

Il 31 gennaio 2018 a Pollenza, nei pressi di Macerata, vengono ritrovate due valigie abbandonate in un fosso. Chi le vede si insospettisce e chiama le forze dell’ordine. Il contenuto è un cadavere. L’identità non tarderà ad emergere. Si tratta di Pamela Mastropietro, allontanatasi spontaneamente e di nascosto, anche se intercettata in fretta, dalla comunità di recupero di Corridonia, Pars, il 29 gennaio dove era ospitata con un programma di riabilitazione e recupero dalla tossicodipendenza. La comunità non è un carcere arredato meglio; non prevede contenimento coatto.

Scappa a piedi per tre chilometri, senza portare con sé né documenti né telefono. Pare abbia fatto l’autostop fino a Macerata, dove incontrerà l’uomo nigeriano che è il principale indiziato ma non l’unico per  vilipendio e occultamento di cadavere.

Le cause della morte non sono ancora state chiarite: l’omicidio è una delle ipotesi insieme con il decesso per overdose. Il farmacista di Macerata che conosce le abitudini e le necessità dei tossicodipendenti ha riferito al Corriere che la siringa da 5 ml acquistata da Pamela è quella che si usa per i cocktail di sostanze, per l’eroina invece va bene quella da 1, la stessa che usano i diabetici per iniettarsi l’insulina.

Innocent Oseghale accompagna Pamela da un amico, il nuovo sospettato, anch’egli spacciatore.

Il concorso di colpa, per ora, è in spaccio di droga e non per omicidio. Le indagini tossicologiche non sono ancora state completate e potrebbero confermare o smentire la versione del ventinovenne già in carcere ad Ancona. L’uomo dichiara di essersi fatto prendere dal panico dopo avere visto che Pamela era morta per l’assunzione delle sostanze.

La famiglia, la comunità

Pamela a soli 18 anni aveva problemi di dipendenza già da tempo. Era entrata in comunità incoraggiata e sostenuta anche dal fidanzato l’autunno scorso. Quando è fuggita la famiglia e il ragazzo non si sono dati pace convinti che l’avrebbero trovata. Hanno chiesto aiuto anche al programma Chi l’ha visto.

Avrebbe voluto seguire le orme della madre, raccontano i familiari, diventando estetista. Ma prima avrebbe dovuto liberarsi della droga che la teneva in pugno.

La comunità Pars, di Corridonia, ha riferito che non appena Pamela è stata vista allontanarsi è stata raggiunta da un’operatrice che ha cercato di convincerla a rientrare, senza riuscirci. Lo si legge nel comunicato stampa accessibile sulla pagina Facebook della struttura.

Le reazioni

Fino a sabato mattina, il 3 febbraio, tutto lo sgomento e il dolore erano per Pamela e la sua famiglia. Curiosamente non è comparso nei titoli delle testate principali, di solito altamente sensibili alle scelte lessicali, il termine femminicidio.

Dopo la sparatoria su un gruppo di immigrati ad opera di Luca Traini l’attenzione, lo sdegno, le analisi e i richiami morali sono stati dirottati tutti sui sentimenti di odio antirazziale, sulla paura del diverso, sui sentimenti di paura irrazionale del popolo italiano.

Un altro fenomeno che probabilmente ha urtato e ferito tante persone sconvolte dall’orrore di questo fatto così cruento è stato l’uso strumentale a scopi elettorali della morte di Pamela. Se voterete noi queste cose non succederanno più, ad un estremo. All’altro capo del filo vibrano invece voci di sdegno per le recrudescenze razziste degli italiani (anche i giovani, lamenta sconsolato un inviato de La Stampa, collegato con SKyTG24) e ci si appella al principio ritenuto indiscutibile che chi delinque lo fa a prescindere dalla provenienza geografica.

Certo, è così. Ma davvero non esiste alcuna differenza tra una cultura e l’altra? Tra popoli e popoli?Tra civiltà formate da secoli di cristianesimo e popoli che praticano ad esempio lo spiritismo e l’occultismo?

(Le indagini hanno iniziato a prendere in considerazione anche l’ipotesi di rituali che prevedano asportazione di organi a scopi augurali e magici. Attendiamo che le cose vengano chiarite. Ripetiamo che a tutt’oggi i capi d’accusa per i due indagati sono per spaccio di droga, vilipendio e occultamento di cadavere. Non per omicidio. Vedi Corriere.it)

Un fatto che non può lasciarci indifferenti è che ora il focus delle opinioni, dei commenti, dei servizi, degli appelli anche ai livelli più alti delle nostre istituzioni , sia alla lotta contro il neofascismo e ai sentimenti di razzismo.

Il fatto centrale, invece, è e resta la morte di una ragazzina. Una persona che era poco più di una bambina; già in pasto alla droga, il modo che lei aveva trovato per soffocare il dolore, certo. Ma un modo molto accessibile, vicino. Troppo accessibile, troppo vicino.

La mamma, che per il resto della sua vita sarà probabilmente costretta a pensare alla morte di sua figlia, è la protagonista di un incubo che rifuggiamo istintivamente tutte, credo. Ogni morte è terribile e ingiusta. Ma ci sono gradi anche lì, ci sono gironi di dolore più scuri di altri.

Non poter avere il corpo sul quale piangere è una tortura che ha martoriato da sempre le madri dei dispersi. Ma avere un corpo smembrato è forse addirittura peggio perché rinnega, con una beffa crudele, l’esperienza della gestazione proiettata sulla morte. La terra per il proprio figlio morto può farsi utero. Ecco perché il dolore è una spada: la lama taglia, separa, fa a pezzi. E cosa può ritessere, rimettere insieme?

Un corpo bello, giovane. Era stata bambina, Pamela, era stata neonata solo pochi anni fa. Ogni donna che ha partorito credo non possa impedire al pensiero di inviscerarsi dentro di sé e affrettarsi, riluttante, nei vicoli della memoria di solito colorati di dolci ricordi. E lì suo malgrado rivivere l’esperienza della gestazione: un nuovo essere umano dapprima piccolissimo ma sempre intero che si guadagna muscoli, tendini, ossa, tessuti, peluria, pelle ai proprio arti, al proprio esserci. E non ci torna anche in mente quella reazione di paura (l’avete provata anche voi?) nel toccare il bambino ormai nato e pensarlo chiamato ad inoltrarsi in questo mondo? Il mondo mette sempre paura. Perché esistono le favole con gli orchi, esistono i libri di storia con orrori sterminati seguiti da spesso vani “mai più”. Esiste il fatto cruento di questi giorni ed esiste il male che cova dentro ogni cuore.

Il senso del dovere più alto. Le parole di un Pastore

Impossibile non accorgersi che le reazioni uguali e contrarie: “troppi immigrati, rimandateli a casa”; “abbiamo bisogno di loro, i nigeriani e gli africani sono brava gente” peccano entrambe di parzialità e di ideologia.

Le persone non sono individui. La storia di un popolo non è un particolare ininfluente. Il valore universale di persona è frutto – pagato col sangue di Cristo – del cristianesimo e si è fatto strada in diversi secoli. Anche se a volte viene da pensare che ad abbatterlo siamo molto più veloci.

Ma soprattutto: come ci si può permettere di usare a proprio vantaggio, a scopi elettorali per esempio, di un dolore simile? Di un fatto tanto tragico e spaventoso?

Il Vescovo della diocesi, mons. Nazzareno Marconi (che ha rischiato per pochissimo di finire coinvolto nella sparatoria di Luca Traini contro il gruppo degli immigrati: in 6 sono rimasti feriti, tutti curati negli ospedali di Macerata e Ancona), ha rimesso al centro Pamela, la sua famiglia, la società e il popolo cristiano che forse per timidezza, per malinteso pudore non si pone come una lampada in alto e non mostra più a questi giovani che il senso esiste. Che Dio c’è, ci ama e ci salva, anima e corpo.

I giovani cercano risposte nelle cose e non nelle persone e glielo abbiamo insegnato noi, dichiara.

Nel suo ultimo post su Facebook, osserva, se avesse conosciuto la speranza cristiana non avrebbe scritto  «Tutti dipendiamo da qualcosa per dimenticare il dolore».

«Se noi cristiani fossimo più credibili, se il nostro annuncio del Vangelo fosse più forte e chiaro, una giovane di 18 anni avrebbe scritto: “Tutti abbiamo bisogno di Qualcuno, che ci aiuti a portare la croce del nostro dolore, fino all’alba della risurrezione”. Abbiamo abituato i giovani fin dalla nascita a ricevere cose invece che a incontrare persone attente a loro.Tutti abbiamo bisogno di incontrare Dio perché la vita trovi senso e valore, ma questo incontro passa per l’incontro con i fratelli nella fede. La fede passa per contagio, da persona a persona, da corpo a corpo, non la trasmettono i libri o Internet. Il vuoto di tanti giovani ci inchioda come credenti dal cuore comodo e avaro che vivono la fede come una cosa privata, da non condividere, da non donare». (dall’editoriale a firma di Mons. Marconi)

E invita a fare la cosa più importante e urgente e meno rinunciataria:

«Siate uomini e donne di preghiera fedele ed intensa, prima di tutto e più di tutto. Di questo il mondo ha bisogno sempre, ma oggi più che mai. Che il Signore ci benedica».

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