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L’adultera e quell’amore di Gesù che supera il peccato

CRISTO ADULTERA QUADRO
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Dimensione Speranza - pubblicato il 05/02/18
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L’adulterio, l’infedeltà, resta un peccato. Ma nei confronti di questa peccatrice prevale l’invito a cambiare vitadi Cettina Militello

Ho scritto introducendo al VI comandamento come sia diverso l’atteggiarsi di Gesù relativamente all’adulterio o alla irregolarità di vita. Alle “peccatrici” che egli incontra rivolge parole inusitate ed estranee alla legge e alla sua pedissequa osservanza. In verità non si tratta tanto di un suo avallare atteggiamenti “disinvolti”, quanto piuttosto del suo farsi attento alle persone, alle donne in particolare, nel segno della misericordia. Lo ha ben compreso Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem in cui, al capitolo V relativo all’atteggiarsi di Gesù verso le donne, l’episodio dell’adultera è riportato al numero 14. Si tratta di uno dei passaggi più lirici e convincenti dell’intera lettera.

«Gesù», egli scrive, «entra nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata dall’eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l’altro nel costume che discrimina la donna in favore dell’uomo ed è radicata anche dentro di lei. Da questo punto di vista l’episodio della donna “sorpresa in adulterio” (cf Gv 8,3-11 ) sembra essere particolarmente eloquente. Alla fine Gesù le dice: “Non peccare più”, ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini che l’accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia “maschile”, dei vostri abusi?». E più avanti aggiunge: «Una donna viene lasciata sola, è esposta all’opinione pubblica con “il suo peccato”, mentre dietro questo “suo” peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per il “peccato altrui”, anzi corresponsabile di esso. Eppure, il suo peccato sfugge all’attenzione, passa sotto silenzio: appare non responsabile per il “peccato altrui”! A volte si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del proprio peccato. Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato (può darsi che sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell’uomo come “peccato altrui”), ma paga essa sola, e paga da sola!».

L’episodio dell’adultera

In effetti l’episodio narrato nel vangelo di Giovanni è abbastanza anomalo. Sappiamo che manca nei codici più antichi. In esso il maestro galilaico ancora una volta sembra stretto nel tranello che gli tendono gli osservanti: la legge è precisa circa la punizione relativa alla flagranza d’adulterio. Ma, se è così, non si capisce perché non sia condotto davanti a Gesù anche il compagno della donna. Come e perché, poi, questa donna è caduta in adulterio? Ha un marito? Non ce l’ha? Ha cercato forse in un altro una tenerezza che le è negata? È stata costretta? Di lei non sappiamo assolutamente nulla.

Quanto a Gesù, brillantemente si sottrae alla ratifica di un’ovvia condanna e, come leggiamo nella Mulieris dignitatem, riesce nell’intento proprio riconducendo ciascuno degli accusatori alla consapevolezza d’essere peccatori anch’essi. Proprio la prossimità nella colpa, l’impossibilità per chicchessia di ritenersi “giusto”, induce Gesù a rivolgere alla donna le parole che ben conosciamo. Nessuno la condanna. Sono andati via tutti, i più vecchi prima, poi i più giovani. E, forse in lacrime, comunque umiliata, ferita dagli sguardi, dalla ferocia dei suoi giudici e aspiranti giustizieri, essa è rimasta sola dinanzi a lui. Ed, ecco, nemmeno lui la condanna. L’invita tuttavia a non peccare più.

C’è da parte del maestro la comprensione di lei, del suo bisogno d’amore, della sua ricerca di un qualcosa che le renda qualitativamente migliore la vita? C’è il riconoscimento di un amore, quale che sia, su cui egli si china, così come s’è chinato sulla peccatrice che lo ha cosparso d’unguento profumato (cf Lc 7,36-50). L’amore giustifica il perdono; anzi, merita il perdono? Forse è così, fuori dalla logica asettica di quelli che osservano la lettera della legge?

Fuori da questo vis-à-vis che esige compassionata misericordia, non si può dire che Gesù si faccia interprete di un atteggiamento lassista o indulgente. L’adulterio, l’infedeltà, resta un peccato. Ma nei confronti del peccatore e, in questo caso, di una peccatrice su cui si coagula un’ingiusta discriminazione di genere, prevalgono il perdono e la misericordia, l’invito a cambiare vita, a non perseverare in una scelta lesiva del disegno di Dio. Che Gesù riproponga il “disegno del principio”, la vocazione originaria e dialogica che assume l’incontro nuziale a paradigma dell’alleanza, è elemento che altri brani evangelici testimoniano (emblematico Mt 19,3-9 relativo all’indissolubilità delle nozze). E tuttavia ci immette più direttamente nella contestualità dell’adulterio Mt 5,28: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore».

Ovviamente in questione non è il desiderio come molla esistenziale dell’accostarsi all’altro/altra sino a diventare con lui/lei una sola carne. In questione è la voglia smodata e turpe che imbratta l’altro/altra, pur a sua insaputa, e ne fa un oggetto da possedere indipendentemente dalla sua volontà e dalla sua stessa disponibilità. Il che ci conduce alla globalità del soggetto umano, all’inseparabilità di ciò che seguitiamo a chiamare “corpo” e “anima”. Pesa pure lo sguardo vorace; è peccaminoso non meno di quanto lo sia un adulterio effettivamente consumato.

Un discorso che rimane aperto

Ma quali sono i termini che troviamo nei brani citati? In Gv 8 la colpa della donna è indicata come moicheia(adulterio). In Mt 5,27 Gesù, che ha richiamato la legge e dunque il comandamento «non commettere adulterio», indica come tale anche il peccato commesso dall’uomo che guarda con concupiscenza (epithymia) una donna. E, ai vv. 31 e 32, adulterio è ancora quello a cui è indotta la donna che il marito ripudia e sempre adulterio è quello commesso da colui che la prende con sé. In tutti questi casi a essere usato è il verbo moicheuo. In Mt 5,32 è però anche usato il termine porneìa, fornicazione.

Adulteri e fornicazioni sono accostati in Mt 15,19 nell’accorato ricondurre l’impurità non a ciò che viene dall’esterno ma a ciò che promana dall’interno, dal cuore dell’essere umano.

Da lì germinano omicidi, adulteri, fornicazioni, furti, falsa testimonianza, bestemmia. Quanto a porneia lo ritroviamo non solo come generico indicativo di fornicazione, ma anche come termine qualificante la prostituzione. Rinviamo ad altro momento l’approfondimento di quest’ultimo termine. Infatti è la contiguità stabilita con altre azioni connesse alla sfera sessuale a motivare l’amplificazione del comandamento, la sua abnorme estensione.

Ci basta per il momento registrare l’atteggiarsi diverso di Gesù, il suo prestare attenzione agli aspetti intimi e interiori più che all’azione nella sua cruda immediatezza. Prima dell’adulterio e, se si vuole prima dell’impudicizia, c’è la corruzione del cuore, l’incapacità sua di orientarsi verso l’altro/a con un atteggiamento di rispetto. In gioco è l’epithymia, la concupiscenza cui si soggiace passivamente ricusando di orientare altrimenti la propria vita.

Sia chiaro – l’ho già affermato – a rendere peccaminoso il desiderio non è la domanda dell’altro/a, che anzi è questa la molla, il sale buono del vivere. È piuttosto l’orientarsi dissennato e sregolato, l’op-porsi al disegno di Dio. A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui Gesù mette in questione l’atteggiarsi dei benpensanti, di quelli che, senza appello, disinvoltamente condannano il peccato degli altri e quello solo.

Domanda d’amore profonda

Quanto a Gesù, se ci troviamo dinanzi a una condanna senza appello di ciò che è disordine, impudicizia, prostituzione, dobbiamo anche costatare come la colpa non si abbatte sul peccatore o sulla peccatrice senza lasciargli scampo. Al contrario a prevalere sono il perdono e la misericordia. La radicalità insomma colpisce il peccato, non chi lo commette e che invece va ricondotto a pentimento e a conversione, proprio a partire dal peccato stesso, dalle dinamiche che l’hanno generato. La molla spesso è un’errata domanda, un mal riposto desiderio che in quell’azione, in quella scelta vede l’ottimizzarsi della propria vita.

A essere stigmatizzata è, dunque, l’incapacità di orientare la domanda, non la domanda in sé stessa. Non avrebbero altrimenti senso le parole di Gesù alla peccatrice in casa di Simone, il suo perdonarle i peccati «perché molto ha amato». E, d’altra parte, proprio il contrasto tra ciò che Simone non ha fatto e che la peccatrice, invece, ha fatto, ci svelano il dramma di una domanda d’amore assai profonda, intatta nel suo valore, malgrado la dissennatezza della scelta. Ed è rispondendo a questa infinita abissale domanda di senso, oltre il fallimento, oltre il peccato, che Gesù la congeda dicendo: «La tua fede ti ha salvata: va’ in pace!».

(da Vita Pastorale, n. 7, 2013, pp. 58-59)

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE