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Spiritualità
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Quando l’accidia può essere una tristezza corrosiva del desiderio di Dio

VOLTO DI CRISTO

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Dimensione Speranza - pubblicato il 02/02/18 - aggiornato il 24/11/22

Può essere un male che interferisce, blocca e fa deviare dalla ricerca e dall’incontro con Lui

di Dom Bernardo Olivera *

Durante questi ultimi mesi, a causa del mio incidente cerebro-vascolare, ho avuto il tempo e l’opportunità di leggere e meditare, sperimentare e combattere, analizzare e riflettere su di un vizio classico, conosciuto da tutti: l’accidia. In questa lettera, vorrei condividere le mie riflessioni, perché penso si tratti di un male tipicamente monastico che, in seguito ad alcuni eccessi o carenze culturali è molto diffuso, in forme diverse, nel mondo attuale.

Mi affretto a dire subito che non è facile parlare dell’accidia: si tratta di un’esperienza complessa, molto più della golosità, della lussuria, dell’avarizia, dell’ira, della tristezza o dell’orgoglio. Per questo è importante chiarire innanzitutto il punto di vista in cui ci poniamo. Di fronte al fenomeno e all’esperienza dell’accidia, ci possono essere almeno, quattro opinioni diverse. Vediamole nella loro estrema semplicità:

Un medico potrebbe diagnosticare uno scompenso di energia di natura organica.

Uno psicologo parlerebbe di un quadro depressivo dovuto a cause endogene o traumatiche.

Un moralista penserebbe che potrebbe trattarsi di un peccato la cui gravità dipende dalla piena coscienza e dalla volontà deliberata

Un accompagnatore spirituale potrebbe forse discernere se si tratta o no di uno degli otto Iogismoi (pensieri) che tentano coloro che cercano Dio con tutte le forze del loro cuore.

Tutte queste persone si trovano di fronte allo stesso fenomeno e ciascuna esprime la propria opinione a partire dal proprio punto di vista. In parte, tutte hanno ragione, ed è per questo che, nel discernimento di un caso specifico, è necessario tener conto tutti gli aspetti che sono stati segnalati. In una cultura come la nostra, tanto marcata dalla psicologia, è forse necessario ricordare la realtà del male, oggettiva e personalizzata, ostile e lucida, che chiamiamo demonio o satana.

La mia angolatura si pone nella prospettiva della spiritualità, intesa come fede incarnata e vissuta. Considero quindi l’accidia come un male che interferisce, blocca e fa deviare.., dalla ricerca e dall’incontro con Dio. L’accidia mina la perseveranza nella vita cristiana e monastica. È duro e triste riconoscerlo, ma più di un abbandono della vita consacrata ha inconsciamente come causa questo vizio corrosivo.

Mi pongo, inoltre, nel contesto del combattimento spirituale, nell’ambito dell’ascesi monastica che conduce alla purezza del cuore nel nostro pellegrinaggio verso la vera patria, il cuore del Padre.

Comincerò accogliendo la tradizione relativa ai «vizi o peccati capitali» in generale e all’accidia in particolare. Cercherò quindi di sottolineare alcuni aspetti della tradizione e, forse, di arricchirla, per poterla trasmettere soprattutto ai più giovani.

1. La tradizione che abbiamo ricevuto

1.1. I peccati capitali

I monaci del deserto di Egitto ci hanno insegnato che ci sono delle tendenze disordinate da cui derivano delle altre, come da una fonte. Siamo così agli inizi della dottrina tradizionale sui «peccati capitali».

Evagrio il Pontico (+ 399) fu il primo a sistematizzare questa dottrina: egli parla così di otto pensieri o tendenze viziose, che l’eremita deve affrontare e sconfiggere. Giovanni Cassiano (+ 425) ha tradotto questa dottrina nel contesto cenobitico occidentale.

Tutti conosciamo la sorte che ha avuto questa classificazione di vizi o peccati capitali dopo le Istituzioni Cenobitiche di Cassiano. San Gregorio Magno (+ 604) svolse un ruolo fondamentale in tale evoluzione. Gregorio segue Cassiano, ma con qualche elemento specifico che gli è proprio: cambia l’ordine dei vizi; l’accidia scompare dall’elenco, anche se alcune delle sue manifestazioni vengono incorporate alla tristezza; aggiunge l’invidia e toglie dall’elenco la superbia, considerando che è la radice e l’inizio di ogni peccato. Segue in questo la letteratura sapienziale secondo la versione della Vulgata: «Inizio di ogni peccato è la superbia» (Sir 10,15). Più tardi, la vanagloria e l’orgoglio verranno fusi in un solo vizio e arriviamo così alla lista tradizionale dei sette peccati capitali, che si è imposta in occidente a partire dal secolo XIII. Giovanni Climaco (+ 650) e Giovanni Damasceno (+ 749) trasmetteranno questa dottrina alle Chiese di Oriente.

La tabella che segue intende chiarire quello che è stato appena detto. Mi perdonerete la trascrizione del greco e l’uso del latino. Anche per quelli che ignorano queste due lingue, quello che voglio dire sarà evidente.

Tra le liste orientali e occidentali, le differenze sono di poca importanza. Di fatto, l’invidia è una forma di tristezza a causa dei beni altrui. L’accidia è stata integrata alla tristezza e si sottolinea la dimensione di pigrizia o di ozio malsano. Si può dire in definitiva che il punto di vista degli autori latini è soprattutto dogmatico e morale, mentre quello degli autori spirituali orientali è principalmente pratico e dell’ordine della vita spirituale.

Alcuni teologi medievali hanno presentato magistralmente questa dottrina: tra di loro, si distaccano Ugo di San Vittore, Pietro Lombardo, Bonaventura e Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo meriterà un’attezione speciale.

Evagrio il Pontico

–          Hoi genokptatoi

–          (Practicòs 6-14)

Giovanni Cassiano

–          Gli otto spiriti o vizi

–          (Istituzioni 6-12;

–          Collazioni 5)

Gregorio Magno

–          I sette peccati capitali

–          (Moralia 31)

– Gastrimargia– Gastrimargia:

ventrius influvies (golosità)

.- Inanis gloria
– Invidia

– Porneia– Fornicatio– Ira

Philargiria– Philargiria: amor pecuniae (avarizia)– Tristitia (+ diversi aspetti della accidia)
– Lype– Ira– Avarizia

– Orge– Tristizia– Ventris ingluvies

– Akedìa– Avedia: anxietas, taedium cordis, otiositas
– Kenodoxìa– Cenodoxia: iactantia, vana gloria– Luxuria
– Hyperephana– Superbia– (Superbia)

Alcuni secoli dopo, Giovanni della Croce descrive magistralmente, nel suo libro La Notte Oscura, come questi vizi-peccati si manifestino in coloro che già sono avanzati nella vita spirituale e cominciano a soffrire per «la notte passiva dei sensi». Negli Esercizi spirituali, Sant’lgnazio di Loyola raccomanda di presentare i peccati capitali a chi è in ritiro, perché mediti su di essi. San Francesco di Sales, nella sua Introduzione alla Vita Devota, offre un’esposizione interessante e pratica.

E così potrebbe continuare la storia. Fermiamoci, per concludere, su di un testo del Catechismo della Chiesa Cattolica: «I vizi possono essere catalogati in parallelo – alle virtù al/e quali si oppongono, oppure essere collegati ai peccati capitali che l‘esperienza cristiana ha distinto, seguendo san Giovanni Cassiano e san Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia, l‘avarizia, l’invidia, l‘ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia» (1866).

Ancora una parola per continuare ad aprire un cammino e creare futuro. La psicologia contemporanea ha approfondito le motivazioni e le manifestazioni di questi vizi; la sociologia ci ha mostrato che questi vizi assumono frequentemente forme sociali e culturali e giungono perfino ad essere fomentati e considerati rispettabili (per esempio: l’orgoglio si cela nell’autostima e l’ira si maschera nell’affermazione categorica). Potremmo anche domandarci se la denominazione di «vizi o peccati capitali» sia adeguata: non ci saranno altri peccati di solito più fondamentali e che generano altri mali? Ci si dovrebbe anche chiedere se questi peccati capitali corrispondono alle tendenze disordinate proprie alle donne o ad altre culture e ad altre religioni.

1.2. Il male dell’accidia

Tentiamo una visione storica globale, a volo d’uccello, sul fenomeno dell’accidia. Mi interessano soltanto alcuni pochi maestri spirituali, che hanno posto le fondamenta sulle quali noi ancora oggi costruiamo.

Il grande teorico dell’accidia è Evagrio il Pontico. Il termine «teorico» deve essere inteso come un aggettivo sostantivato, che indica la capacità di esprimere in concetti e in parole una esperienza vissuta, Evagrio presenta le varie manifestazioni dell’accidia con perspicacia e umorismo. Conosciamo tutti questi testi e non è necessario menzionarli qui, poiché sono stati studiati in profondità e con chiarezza in questi ultimi anni.

Basti, per il nostro intento, mettere in luce alcuni aspetti chiave della dottrina di Evagrio. L’accidia è un pensiero-passionale complesso, si nutre contemporaneamente dell’affettività irascibile e concupiscibile, e risveglia generalmente tuffi gli altri vizi. Questo spiega perché le sue manifestazioni possano apparire estremamente contraddittorie: indolenza e attivismo, paralisi e frenesia, frustrazione e aggressività, fuga dal bene e consegna di sé al male. Si spiega, quindi, il fatto che produca come una specie di disintegrazione interiore.

La tristezza è sorella gemella dell’accidia; si assomigliano in qualcosa ma non sono identiche. Chi è triste trova più facilmente un rimedio al suo male; chi soffre di accidia è totalmente assediato. La tristezza è un’esperienza passeggera e parziale; l’accidia è un modo di vivere permanente e globale e, in questo senso, è contraria alla natura umana.

Le manifestazioni principali del «demone del mezzogiorno» che è l’accidia sono: instabilità interiore e bisogno di cambiare (vagabondaggio dei pensieri e vagabondaggio geografico); attenzione eccessiva per la propria salute (preoccupazione per il cibo); avvérsione al lavoro manuale (ozio e pigrizia); attivismo incontrollato (sotto il manto della carità); negligenza per le pratiche monastiche (si minimizzano le osservanze); zelo indiscreto rispetto ad alcuni esercizi ascetici (estrema criticità nei confronti del prossimo); sconforto generalizzato (portico della depressione).

In quanto attiva tutti gli altri vizi, l’accidia non può essere curata da una virtù contraria. Si impone una terapia diversificata e multiforme: lacrime di compunzione (grido non verbale che invoca salvezza); ricorso alla Parola di Dio (per opporsi all’insinuazione del vizio); meditazione sulla morte (il presente in prospettiva dell’eternità); pazienza, resistenza e perseveranza (evitando le compensazioni e ponendo la propria speranza in Dio). È facile constatare come tutti questi rimedi o armi ci incamminino verso l’incontro con Dio. In definitiva, l’accidia è una fuga da Dio e si cura soltanto con la ricerca concreta e paziente del Suo Volto.

Giovanni Cassiano, rispetto all’accidia, è debitore e divulgatore di Evagrio: segue la sua dottrina, ne sistematizza e ne semplifica i dati. Utilizza il termine greco e o traduce con tedio o inquietudine del cuore. Intensifica la relazione tra tristezza e accidia, le due sorelle diventano ora gemelle o doni. Mette eccessivamente in rilievo una sua manifestazione o sintomo, l’ozio, per cui insiste sul rimedio del lavoro manuale. Di conseguenza, innocentemente, permette al demone del mezzogiorno di occultarsi o cercare di occultarsi per i secoli dei secoli.

L’insegnamento di Cassiano sull’accidia- tedio non manca tuttavia di note originali. La più interessante si riferisce ai «figli e alle figlie dell’accidia», cioè: l’ozio, la sonnolenza, la mancanza di opportunità, l’inquietudine, l’andar vagando, l’instabilità dello spirito e del corpo, la verbosità e la curiosità.

L’importanza di Cassiano rispetto alla realtà dell’accidia è duplice. Grazie a lui, l’ascesi del deserto di Egitto è passata al monachesimo occidentale in una forma inculturata al cenobitismo. E, inoltre, grazie allo sforzo di sistematizzare la dottrina ricevuta, la sua influenza si farà sentire nelle generazioni future.

Fra gli eredi di questa tradizione, si trova San Gregorio Magno: la sua dottrina marcherà uno stacco, come abbia già fatto notare sopra; la menzione dell’accidia scompare dalla sua lista dei vizi capitali, benché alcuni suoi elementi siano integrati nel vizio della tristezza. Gregorio dice inoltre che la malizia dell’accidia deriva dal fatto di essere una tristezza per il bene divino e per tutti i beni che sono in relazione con questo bene. In altri termini, il giudizio della ragione si è pervertito: il bene viene percepito come male, e, all’inverso, il male come bene.

L’unica menzione dell’accidia nella Regola di San Benedetto, si trova nel capitolo 48, dedicato al lavoro manuale e alla lettura. Questo semplice fatto ci fa pensare alla dipendenza di Benedetto rispetto a Cassiano. Il capitolo comincia con queste parole:

«L’ozio è nemico dell’anima; e quindi i fratelli devono in alcune determinate ore occuparsi nel lavoro manuale, e in altre ore, anch‘esse ben fissate, nello studio delle cose divine» (RB 48,1).

Notiamo che I vizio da combattere è l’ozio o la pigrizia. L’arma che ci viene offerta è l’alternanza tra lavoro e la lectio divina. Più avanti, il Patriarca ci dirà:

«[Durante la Quaresima] si pensi bene poi ad affidare ad uno o due seniori il compito di girare per il monastero nelle ore in cui i fratelli attendono alla lettura, e di osservare se per caso non vi sia qualche fratello fannullone (accidioso) che si dà all’ozio o alle chiacchiere e non si occupa nella lettura, sicché non solo è inutile a se stesso, ma disturba pure gli altri. Se si trovasse – non sia mai – un fratello simile, venga ripreso una prima e una seconda volta; se non si emenda, soggiaccia al castigo regolare in tal misura che gli altri ne abbiano timore. Né un fratello si accompagni ad un altro nelle ore non permesse. Anche la domenica si diano tutti alla lettura, eccetto quelli che siano assegnati all’uno o all’altro ufficio. Se poi qualcuno fosse cosi negligente e svogliato da non volere o non potere studiare o leggere, gli s’imponga qualche cosa da fare, perché non stia ozioso. Ai fratelli infermi o di delicata costituzione si assegni un lavoro o un’arte tale che da una parte li mantenga occupati, e dall’altra non li opprima con la soverchia fatica o non li induca ad andar via: la loro debolezza deve essere dall’abate tenuta in considerazione» (RB 48, 17-25).

Nel testo appena citato, San Benedetto considera tre situazioni diverse. La prima si riferisce al tempo della Quaresima che, nella mente di San Benedetto, è il tempo paradigmatico della vita intera del monaco (RB 49,1). La punizione che riceve il monaco accidioso indica che la sua esperienza è colpevole: non si tratta semplicemente di pigrizia o di debolezza, ma piuttosto di un disinteresse o di un disgusto per le realtà spirituali. D’altro lato, non gli manca energia né interesse per dedicarsi ad altre cose inutili al suo proposito monastico.

Il giorno di domenica costituisce il contesto dove si colloca temporalmente la seconda situazione. Essendoci meno tempo di lavoro, ci sarà più tempo per leggere e meditare. Se qualcuno fosse, volontariamente o involontariamente, negligente o svogliato gli si darà qualche lavoro per evitare l’ozio. Lo scopo di questo lavoro è più ascetico e terapeutico che pratico e produttivo. Si noti che la negligenza, la mancanza di attenzione o di concentrazione può essere causata dalla pigrizia o dalla mancanza di desiderio e di motivazione. L’accidioso, nella mente di Benedetto, è anche uno svogliato: sta ponendo ostacoli alla consolazione dello Spirito Santo e non sta aspettando la Pasqua col gaudio del desiderio spirituale! (RB 49,6-7).

Per la terza situazione, quella degli infermi o dei deboli che possono essere facilmente preda dell’ozio, Benedetto raccomanda un lavoro leggero e appropriato alle loro forze.

Si trova nella Regola un’altra serie di testi sulla tristezza. Al cellerario, egli raccomanda con insistenza di non contristare i fratelli e prescrive in maniera più generale: «Nella Casa di Dio nessuno si turbi o si rattristi» (RB 31,6-7; 18-19). Ai più deboli deve procurare un aiuto per il servizio della cucina perché non lo faccia con tristezza, in quanto in questo servizio «si guadagna una maggiore ricompensa e un maggior merito di carità» (RB 35, 1-3). E dice qualcuno di simile rispetto al lavoro nei campi: la tristezza impedirebbe di essere veramente monaci e di imitare i Padri e gli Apostoli che lavoravano con le loro mani (RB 48-7-9). In questi tre testi, l’ambito del lavoro è l’humus in cui può fiorire la tristezza che è generalmente l’anticamera dell’accidiae, con ciò la malattia rende nullo il rimedio: il lavoro non potrà essere la terapia contro l’ozio…

D’altro canto, fra gli strumenti dell’arte spirituale, troviamo i seguenti: «Non indulgere al soverchio sonno, non essere pigro, temere il giorno del giudizio, desiderare la vita eterna con ardente brama spirituale, avere ogni giorno la morte in sospetto davanti agli occhi, ascoltare volentieri le sante letture, non assecondare l’invidia, e della misericordia di Dio non disperare mai» (cfr RB 4). Queste buone opere non si riferiranno, in un modo o nell’altro, al demone meridiano dell’accidia?

La concezione benedettina dell’accidia è abbastanza simile a quella esposta da Giovanni Cassiano nelle Istituzioni Cenobitiche: accidia, ozio e tristezza vanno sempre insieme e il lavoro di manuale è il rimedio generico per curarle. Ci sono tuttavia dei dati originali ed importanti. Benedetto presenta l’accidia come un ostacolo che impedisce la lectio divina, tramite la quale il monaco e la monaca tendono verso Dio; l’accidia raffredda il palato e impedisce di gustare il sapore delle cose del cielo e di Dio stesso. D’altro canto, il gran rimedio benedettino contro l’accidia è: il recinto del monastero e la stabilità nella comunità! (cfr RB 4,78).

I Cistercensi del secolo del XII sono testimoni fedeli di questa dottrina del Patriarca Benedetto, anche se non manca loro una propria originalità. Ascoltiamo soltanto uno di essi, Elredo di Rievaulx: «Poiché l’ozio è il nemico dell’anima, la reclusa dovrà evitarlo con somma diligenza, perché è padre di tutti i vizi: Effettivamente, l’ozio fomenta la lussuria, provoca le divagazioni, alimenta i vizi, causa l’accidia e genera la tristezza. Semina i peggiori pensieri, risveglia le affezioni illecite, accende i desideri disonesti. Produce il tedio della solitudine, rende insopportabile la cella. Che non ti sorprenda mai oziosa, lo spirito del male. Ma poiché in questa vita il nostro spirito è esposto al vuoto e non rimane mai stabile, dobbiamo evitare l’ozio mediante un’ordinata varietà delle occupazioni e proteggere la nostra solitudine con la successione alterna del lavoro» (La vita della reclusa, 6,35; cfr. Isacco della stella, Sermone 14,1-4).

San Tommaso di Aquino, nella sua Somma Teologica (Il-lI, 35), buon conoscitore della tradizione che Io ha preceduto, parla dell’accidia da una duplice prospettiva. Prima di tutto, egli considera l’accidia come una tristezza che deprime l’animo dell’uomo in modo tale che nulla gli è gradito di ciò che fa, allo stesso modo in cui le cose si raffreddano per l’azione corrosiva dell’acido. Più concretamente, l’accidia è uno dei peccati contro l’atto interno della carità, cioè: l’accidia è un genere speciale di tristezza che si oppone al bene divino di cui gode la carità. Come conseguenza di questa tristezza, si produce un disgusto nei confronti dell’agire che paralizza lo slancio verso Dio e le realtà divine. Come si può constatare, la gravità dell’accidia consiste nella sua opposizione alla regina delle virtù teologali, la carità, che è amicizia dell’essere umano con il suo Dio. Osiamo dire inoltre che san Tommaso ci insegna a difendere la nostra gioia spirituale e a promuovere quella degli altri nella misura delle nostre possibilità.

Prendendo come fondamento San Gregorio, tenta quindi di armonizzare le diverse liste che conosce sui peccati che derivano dall’accidia. Egli parlerà così di disperazione (sfiducia nella grazia come aiuto per vincere il male), di pusillanimità (codardia del cuore nella lotta contro la tentazione), del non-adempimento dei precetti (non-adempimento dei comandamenti, dei precetti della chiesa e dei doveri del proprio stato), del rancore (indignazione contro chi è virtuoso e contro il direttore spirituale), di malizia (odio contro i beni spirituali), di divagazione sulle cose proibite (instabilità, chiacchiericcio e curiosità).

L’accidia occupa un luogo centrale nell’insieme della dottrina morale di San Tommaso. Questo vizio mina il dinamismo dell’agire, cioè, l’amore. Di più: l’accidia attenta il desiderio di Dio e soprattutto, la gioia che viene dall’unione con Lui.

Aggiungiamo ancora una parola sulla tristezza, che ci aiuterà a capire meglio l’accidia. Secondo Santo Tommaso, l’oggetto della tristezza è il male proprio; ma può succedere che il bene altrui sia considerato come un male per se stessi, e in questo senso, si può essere tristi per il bene altrui, perché diminuisce la propria gloria o eccellenza: è questo ciò che noi chiamiamo invidia (San Tommaso, lI-Il 36 1).

Tutto quello che è stato detto ci aiuta a capire perché, quando si parla di accidia, la si associa alla tristezza, all’ozio (o alla pigrizia) e all’invidia. Concretamente, l’accidia:

• è principalmente una forma teologale di tristezza e invidia. In questa direzione vanno San Gregorio e Santo Tommaso; per loro, l’ozio o pigrizia è una conseguenza dell’accidia.

• in secondo luogo, o in pratica, è un tipo di ozio o pigrizia in relazione con le cose divine, In questa linea, vanno molti autori spirituali e monastici; cioè, fanno un discorso concreto e considerano l’accidia secondo le sue conseguenze concrete e quotidiane.

Alcuni secoli dopo, l’accidia quasi non compare nel vocabolario spirituale, questo però non vuole dire che non esista. Sant’lgnazio di Loyola non usa il termine, ma conosce bene questo male. Nelle sue Regole del discernimento degli spiriti (EE, 313-336), Ignazio presenta l’opera della Grazia divina con il nome di «consolazione», e ciò che si oppone ad essa o chiama «desolazione». Dalla descrizione che fa di quest’ultima, è facile concludere che si tratta dell’accidia. Ascoltiamo:

«Chiamo consolazione ogni aumento della speranza, della fede e della carità, ed ogni gioia interiore che chiama ed attira alle cose celestiali ed alla salvezza della propria anima, tranquillizzandola e pacificandola nel suo Creatore e Dio (EE, 316).

Chiamo desolazione tutto ciò che è contrario alla terza regola: così come l’oscurità dell’anima, il suo turbamento, la mozione verso le cose basse e terrestri, l’inquietudine per agitazioni e tentazioni varie che inducono alla diffidenza senza speranza, senza amore, e la rendono interamente pigra, tiepida, triste, e come separata dal suo Creatore e Signore… (EE, 317).

È proprio di Dio e dei suoi Angeli, nelle loro mozioni, infondere la vera gioia e il gaudio spirituale, togliendo ogni tristezza e turbamento indotto dal nemico, di cui è tipico invece combattere questa gioia, adducendo ragioni apparenti, sottigliezze e continue illusioni» (EE. 329).

Una volta identificato il male, Ignazio offre il rimedio: non fare cambiamenti, restare costanti, resistere al male con l’aiuto delle virtù opposte, la pazienza… ; e ne spiega le possibili cause: una pigrizia spirituale colpevole, una prova che aiuta la conoscenza di sé, imparare che ogni bene spirituale è una grazia divina… (EE, 318-322). Alla conclusione dei suoi Esercizi, Sant’Ignazio offre un antitossico contro l’accidia: la «contemplazione per raggiungere l’Amore», questa contemplazione è un esercizio della perseveranza nel bene e una maniera di conservare e stimolare una vita nella gioia e nella consolazione nella carità (EE, 230-237).

Leggiamo, da ultimo, nel Catechismo della Chiesa cattolica: «L’accidia o la pigrizia spirituale giunge a rifiutare la gioia che viene da Dio e a provare ripulsione per il divino» (2094). O, in maniera più concreta, nel contesto delle tentazioni contro la preghiera, dirà inoltre che «l’accidia è una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della vigilanza, alla mancata custodia del cuore» (2733). In questi due testi, è facile scoprire l’influenza del Dottor Angelico e della tradizione che l’ha preceduto.

2. Tradizione offerta

Una tradizione viva è una tradizione che si rinnova. Non so quando sia nuovo ciò che seguirà tra breve, ma posso assicurare che nasce dalla vita. Se illumina e stimola ha compiuto la sua missione!

2. 1. Senso delle parole

Accidia è un termine greco che fondamentalmente significa: trascuratezza, negligenza, mancanza di interesse… Ma quello che ci interessa ora è il termine latino che lo traduce: taedium (tedio). Questa parola in spagnolo (e in italiano) significa: fastidio e pesantezza, noia estrema, gran disinteresse, profondo disgusto.

Ma il termine accidia esiste anche nel vocabolario della spiritualità di quasi tutti e lingue occidentali. In questo caso, fondamentalmente significa: oziosità / pigrizia (come antonimo della diligenza) e tristezza / amarezza (come antonimo della gioia).

In latino esiste tutta una famiglia di termini imparentati con l’accidia, ad esempio: acer acris, acre, acetum, acerbum… Questo ci induce a pensare, in senso figurativo, che la persona accidiosa è stata invasa da un’acidità che l’ha fatta inacidire come l’aceto. Difatti, quando il vino dolce diviene acido e si fa aceto, inacidisce; allo stesso modo, quando la gioia della carità inacidisce, si trasforma in accidia.

Quanto precede ci porta ad affermare che l’accidioso è qualcuno che è si è inacidito o inasprito nei confronti di tutto ciò che è spirituale o religioso. Seguendo questa etimologia alla buona, di stampo casereccio, siccome ciò che è acido è associato con il freddo (ricordiamo San Tommaso), l’accidia ci rende tiepidi in quanto raffredda il fervore della carità.

La lingua giapponese segue un percorso diverso e più diretto quando deve tradurre il parola accidia. Utilizza il termine mu-ki-ryoku, cioè: mu (mancanza, carenza), ki (energia), ryoku (forza, potenza). Si può anche tradurre in modo adeguato con iya-ki, che vuole dire: iya (infastidirsi, stancarsi, aborrire) e ki (energia). Chi conosce il valore e la portata del termine ki nelle culture orientali, si rende conto della gravità terribile dell’accidia: l’accidioso è un affaticato, un esausto, privo di energia e di dinamismo, qualcuno che detesta l’armonia con Dio, con l’altro e con il cosmo.

2.2. Testimonianze bibliche

Vediamo ora due testi biblici relazionati con il nostro tema. Chissà che non continuino ad illuminarci per farci capire meglio questo pensiero-passionale tanto pernicioso e che ha effetti così devastanti dentro e fuori dai monasteri.

Il primo testo è tratto dalla letteratura sapienziale, più concretamente dal libro della Sapienza, scritto originariamente in greco. Leggiamo: «Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza i suoi seguaci» (Sap 2,23-24). Questo testo è ricco di teologia; l’autore inspirato ci sta dicendo che satana ebbe invidia di noi, fatti a immagine di Dio, e per questo ci muove guerra. Ora, che cos’è l’invidia? Una tristezza causata dal bene altrui. Satana non accetta e combatte contro di noi a causa del gran bene che è la nostra unione con Dio. I suoi seguaci sperimentano la stessa invidia e la stessa morte spirituale, questo ci spiega perché il «mondo» non può lasciare in pace i figli e le figlie di Dio. Ci saranno sempre dei «Caini» che assassinano Abele, degli «Erode» che si rattristano e diventano violenti davanti alla buona novella e degli «Iscarioti» che con il loro raziocinio recriminano contro Maria di Betania a causa del suo amore.

Il secondo testo viene dal Salterio. Nella versione latina, opra di San Gerolamo (Vulgata), così recita: Dormitavit anima mea pare taedio (Ps 118/119,28). Teniamo presente che il termine greco della versione dei Settanta, che Gerolamo traduce con tedio, è, precisamente, accidia. E qual è il termine ebraico che soggiace alla traduzione greca? Nulla di nuovo: tugah = tristezza, afflizione. Le versioni nelle lingue vernacolari moderne variano, attestando cose di questo tipo: «lo piango nella tristezza (CEI), La mia vita si consuma nel dolore (LND); L’anima mia, dal dolore, si consuma in lacrime» (NRV). Come si può vedere, questo versetto biblico ci permette di affermare che San Gregorio Magno e San Tommaso non si sbagliavano più di tanto. Possiamo anche aggiungere che Cassiano associa l’accidia al sonno e che San Benedetto consiglia: non indulgere al troppo sonno (RB 4,37).

Ma c’è anche un’altro modo di capire questa parola ispirata. Il testo originale ebraico si può tradurre così: il mio desiderio (nefesh) viene meno per la tristezza, In altri termini: la tristezza spegne il desiderio originario che mi lancia verso Dio. Sappiamo che il pigro, figura frequente nel libro dei Proverbi, è qualcuno che non funziona perché il suo desiderio, essendo chiuso in se stesso, lo conduce alla morte (cf. Pr 21,25).

2.3. Combattimento e desideri disordinati

Il combattimento spirituale ebbe inizio immediatamente dopo il peccato originale e continuerà fino alla fine dei tempi: «lo porrò inimicizia fra te (il serpente) e la donna, e fra la tua discendenza e la sua discendenza; egli ti schiaccerà il capo e tu insidierai il suo calcagno» (Gen 3,15). San Paolo situa questa lotta nella dinamica del mistero della salvezza (Col 2,15; Ef 6, 11-12; 1 Cor 15,24- 26) e ci offre le armi spirituali appropriate (Ef 6,11-1 7; 1 Ts 5,8; cf. 1Pt 5,6-9).

Noi monaci, abbiamo ricevuto volentieri questa eredità, e così le espressioni «militare per Cristo» o «milizia di Cristo» sono riferite alla vita monastica fin dalle origini. I nostri Padri Cistercensi lo sapevano molto bene. San Bernardo, ricordando il testo paolino: «lotto, ma non come chi batte l’aria … », esclama: «Questa è veramente la tromba della milizia, queste sono le parole di un capitano coraggioso che lotta valorosamente» (Sermone per la Festa di Tutti i Santi, 2,2).

I desideri umani, come espressione di una carenza, soggiacciono ai sentimenti. Cioè, i desideri muovono l’affettività e questa, a sua volta, suscita pensieri passionali. I pensieri, chiudendo il cerchio, possono incentivare i desideri: un pensiero passionale di rabbia, causato da un desiderio frustrato, può generare un desiderio di vendetta e siamo già in piena guerra.

Possiamo dire che il classico combattimento contro i pensieri passionali o logismoi è, in definitiva, una lotta contro i desideri disordinati che soggiacciono a questi pensieri, caricandoli di passione. I grandi maestri dell’arte spirituale hanno fatto riferimento a questi desideri in maniera diversa (spiriti, demoni, pensieri, afflizioni, affezioni, passioni, attaccamenti, appetiti, volontà, vizi, peccati capitali…) e ci hanno insegnato a combatterli e ad eliminarli in una lotta singolare mediante la mortificazione, l’abnegazione e l’umiltà; si tratta, in definitiva, di spogliarci dell’uomo vecchio per rivestirci dell’uomo nuovo, con l’aiuto della grazia divina.

Sul campo di battaglia, si scontrano la vita e la morte: la vita in Dio e la morte, lontano da Lui. In altre parole, abbiamo da un lato il desiderio fondamentale di Dio, che ci unifica nella memoria di Dio e permette di realizzarci come persone umane: gli affetti e i pensieri che da qui emergono restano in relazione con il Signore. Dall’altra estremità del campo, sta la disintegrazione della persona e a dimenticanza di Dio. In prossimità a questo estremo, si trova la causa dei nostri mali, dei nostri desideri, affetti e pensieri definiti da oggetti o fini negativi. Ogni volta che ci invadono questi desideri e pensieri passionali, si sta offuscando in noi la memoria di Dio, ci dimentichiamo di Lui e disintegriamo la nostra interiorità indebolendo il nostro desiderio originario di Dio.

Quando vogliamo identificare i principali desideri disordinati, incontriamo di nuovo i peccati o vizi capitali.

• Desideri disordinati del cibo: golosità.

• Desideri disordinati del piacere sessuale: lussuria.

• Desideri disordinati dei beni materiali: avarizia.

• Desideri insoddisfatti e reazione attiva davanti alla frustrazione che ne deriva: ira.

• Indebolimento del desiderio o trascuratezza nei confronti di Dio e delle cose spirituali: accidia.

• Desideri disordinati di apparire e di emergere: vanagloria.

• Desideri disordinati della propria eccellenza: superbia.

Questi desideri seguono generalmente un dinamismo progressivo – in crescendo – che si riconosce facilmente. Non è necessario dire che quanto prima affrontiamo la lotta tanto maggiore sarà la possibilità di vittoria.

• Risveglio dei desideri e dei sentimenti che ne conseguono.

• Confronto con i pensieri che ne derivano.

• Fascino davanti alla possibilità di assecondarli e timore di soccombere di fronte ad essi.

• Lotta per respingerli o zoppicamento davanti ai nemici.

• Sconfitta o vittoria davanti a loro.

• Imprigionamento in caso di una possibile sconfitta o libertà come frutto della vittoria.

Vediamo tre principi generali ed importanti da tenere presenti prima di attaccare battaglia. Dobbiamo innanzi tutto sempre tenere in conto che noi non siamo questi desideri, possiamo solo identificarci con il desiderio originario e costitutivo che ci apre e ci lancia verso l’Altro e gli altri per realizzarci personalmente. In secondo luogo, questi desideri vanno e vengono, allo stesso modo dei sentimenti e dei pensieri a cui danno origine. Da ultimo, se noi non li aumentiamo con altri desideri, sentimenti o pensieri, svaniranno come bolle di sapone.

Allo stesso modo, è utile conoscere anche le quattro modalità tradizionali di combattere questi desideri disordinati.

• Il primo modo è attaccarli senza indugio appena siano stati riconosciuti, e lo si può fare concentrando l’attenzione in qualche cosa di opposto o di diverso dall’oggetto del desiderio. Questa pratica è utile e consigliabile di solito quando si tratta di desideri che provocano pensieri ripetitivi e compulsivi.

• Il secondo modo è sostituire il desiderio disordinato con il desiderio di Dio e del suo Regno. È questa la soluzione più adeguata per i desideri e i pensieri autodistruttivi e che portano a stati depressivi.

• Il terzo modo consiste nell’osservare semplicemente con attenzione lo sviluppo del desiderio, i sentimenti che suscita e i pensieri a cui dà origine: in questo modo svaniranno e non riusciranno a diventare abbastanza forti da renderci prigionieri. Ricordiamo in proposito che sentire non è consentire.

• Da ultimo, il quarto modo è donarsi in modo disinteressato e gratuito in qualche opera buona per il servizio e l’utilità del prossimo.

Diciamo infine che quando questi desideri disordinati si sono trasformati in vizi o in forme abituali di compiere il male, sarà necessario sradicarli mediante l’esercizio perseverante ed assiduo delle virtù opposte: temperanza, castità, generosità, pazienza, diligenza, modestia, umiltà e carità.

Nonostante tutto quello che abbiamo detto, si impone una parola particolare sulla lotta contro l’accidia. In quanto negligenza nei confronti di Dio e dei mezzi che conducono a Lui, è difficile combatterla con delle semplici virtù, l’attenzione ad altro, i servizi di carità, la vigilanza… Il grande maestro dell’accidia, Evagrio il Pontico e con lui tutti i grandi maestri spirituali di Oriente ed Occidente, ci dicono all’unisono: hypomoné, hypomoné, hypomoné! cioè pazienza e perseveranza.

«Al momento delle tentazioni è necessario non abbandonare la cella, per quanto validi siano i pretesti che ci vengano in mente. Anzi, bisogna restare seduti all’interno della cella, essere perseveranti (hypomoné) e ricevere coraggiosamente ciò che ci assale, specialmente il demone dell’accidia che, essendo il più pesante di tutti, prova l’anima in sommo grado. Perché fuggire da queste lotte ed evitarle rende lo spirito inetto, codardo e traditore»(Practikés, 28).

Gesù stesso fa di questa virtù quasi un assoluto per la salvezza eterna: «Con la vostra perseveranza (hypomoné) salverete le vostre anime» (Lc 21,19). Unisco ora la mia voce a quella dell’abate di Clairvaux: l’esortazione che segue, benché originata in un contesto diverso dal nostro, mi sembra del tutto opportuna.

«E ora che cosa mi resta, carissimi, se non ammonirvi a perseverare, che è la sola via con cui gli uomini possono acquistare gloria e le virtù essere coronate? Senza perseverare chi combatte non può conseguire la vittoria, il vincitore non può ottenere la palma. La perseveranza aggiunge vigore alle forze, dà compimento alle virtù, nutre il merito, fa da tramite al premio. È la sorella della pazienza, la figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo con cui si stringono le amicizie, il legame di tutti quelli che hanno uguale sentimento, il baluardo della santità. Elimina la perseveranza; allora il rispetto non avrà più ricompensa, il beneficio non avrà più gratitudine, la fermezza non avrà più riconoscimento. Insomma, non chi avrà cominciato, ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvo» (Lettera 129,2).

Richiamiamo infine che quello che è impossibile a noi è ben possibile a Dio; Egli attende da noi soltanto che accogliamo, come possiamo, il suo dono. Perciò, se ci sentiamo troppo piccoli e troppo deboli per lottare contro il demone meridiano dell’accidia, accettiamo, per cominciare, il seguente palliativo raccomandato da San Tommaso d’Aquino: una doccia ed una buona meridiana (ST, I-lI 38, 5).

Molte cose mi sono rimaste nel calamaio: avrò forse la possibilità di continuare il tema in un’altra occasione? Dipenderà da due condizioni: prima di tutto, se continuo a crescere nella mia esperienza; e poi, se questa lettera sarà ben accolta.

In definitiva, fratelli e sorelle, l’accidia è un stato interiore ben definito, nonostante le sue molteplici manifestazioni. Questo detestabile pensiero passionale corrode la gioia di amare e di appartenere a Dio. Ma l’aspetto più deplorevole di questo vizio propriamente satanico, è che paralizza e congela, tortura e soffoca il nostro desiderio fontale di Dio. Desiderio su cui poggia la nostra ricerca del suo Volto e rende la vita monastica ciò che deve essere: una vita asceticamente orientata verso il Mistero per gustarlo misticamente.

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* ex Abate Generale OCSO

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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