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“Il rifiuto dei poveri deriva più dalla paura che dalla crudeltà”

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Ted McGrath-(CC BY-NC-SA 2.0)

Miriam Diez Bosch - pubblicato il 27/01/18

Aumenta l'uso del termine “aporofobia”

Tanti sono in teoria molto solidali con i poveri, ma può trattarsi di un falso moralismo. La povertà spaventa. Secondo la Fondazione Fundéu, nel 2017 la parola dell’anno è stata “aporofobia”. Mary Tere Guzmán, messicana trapiantata in Spagna che si dedica alla cooperazione internazionale, crede che ci siano vari motivi per pensare che la “aporofobia” o rifiuto della povertà si sta instaurando tra noi, e che il contesto sociale ed economico in cui viviamo lo alimenta.

Abbiamo paura di perdere quello che abbiamo

Ad esempio, “rifiutiamo le persone povere per paura di poter perdere ciò che abbiamo”.

I poveri rappresentano “il fallimento palpabile” del modello economico in cui viviamo e a cui ci aggrappiamo. Un modello di vita in cui il successo, la felicità e il valore delle persone sono centrate su ciò che si ha e sui livelli di consumo.




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“Le persone povere che non hanno nulla ci ricordano la durezza della penuria, della precarietà e della possibilità di vivere senza niente, e quindi di non essere nessuno”, ha riconosciuto.

Forse pesa sempre più anche l’influenza dei mezzi di comunicazione e dei gruppi politici che cercano di identificare le persone povere come “le cause e gli unici responsabili della loro povertà”, e l’identificazione dei “poveri” con i “migranti”, gente che viene da fuori a “toglierci” ciò che è nostro.

L’aporofobia nasce come rifiuto di quello che non vogliamo essere

Sembra che l’aporofobia nasca come rifiuto di quello che non vogliamo essere, di quello che ci fa paura, ma soprattutto di quello che riteniamo inferiore, senza valore.

Credo che il rifiuto della gente povera derivi più dalla paura che dalla crudeltà, più dall’incapacità di sapere come avvicinarci a queste situazioni tanto complesse che non sappiamo leggere, che non sappiamo mitigare o molte volte semplicemente non vogliamo vedere.

È difficile aiutare e aiutarci a cambiare lo sguardo e a relazionarci indipendentemente dallo status sociale.


LAMBORGHINI

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Ci costa “cambiare occhiali”

Come società ci costa farci carico delle persone che le strutture economiche e sociali hanno espulso, e ci costa enormemente “cambiare gli occhiali” (in base all’idea “vali quanto hai”) per indossarne alcuni che ci permettano di vedere la ricchezza di ogni persona, la sua dignità e il suo valore al di là del livello di vita.

L’aporofobia ci interpella. Non possiamo smettere di lottare contro questo maltrattamento nei confronti di chi ha meno perché è vittima di questo sistema che lo ha condannato non solo alla povertà economica, ma anche al rifiuto e all’esclusione sociale.

Il termine “aporofobia” mi sembra molto idoneo per indicare ciò che accade in molte società.

Credo che nel caso europeo negli ultimi decenni, con una crescita economica sostenuta e uno sviluppo economico-sociale importante, si sia sedimentata l’idea di vivere in società piuttosto egualitarie con una classe media potente che aveva possibilità di avanzamento sociale ed economico sulla base dello sforzo, dello studio e di grandi possibilità offerte dal “progresso” economico. Negli ultimi anni, soprattutto a partire dalla crisi, la questione è diventata sempre più evidente.


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Attenzione: potremmo tornare ad essere poveri

Soprattutto per i giovani, il futuro non sembra così sicuro. L’incertezza si è impadronita di noi, e forse la società si è svegliata da un certo letargo di benessere, in cui era passata di moda la lotta di classe o l’idea che potremmo tornare ad “essere poveri”.

In molti momenti della sua storia, l’Europa ha attraversato grandi difficoltà: guerre, malattie, ricostruzioni… Negli ultimi anni, però, tutto questo sembrava lontano, improbabile come scenario del futuro.


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Dall’altro lato si è iniziato a parlare, sempre con maggiore enfasi negli ultimi anni, della crescente disuguaglianza economica e sociale. Società più egualitarie (come quelle europee) iniziano a disegnare mappe più complesse della povertà, della distribuzione diseguale della ricchezza, di accesso all’impiego o a servizi di base in modo differenziato…

Questo ha generato gap non solo economici, ma anche e soprattutto sociali. Spesso pensiamo che le disuguaglianze si riferiscano solo alle entrate, ma il concetto è molto più complesso, perché si incrocia con altri elementi come il genere, l’origine, la razza…, che acuiscono la differenza tra persone e gruppi.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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