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Amoris Laetitia
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«Ma quindi come faccio a fare la comunione da divorziata risposata?»

COMMUNION

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 25/01/18

La franca e impegnativa domanda di una lettrice ci porta a una delicata riflessione su Amoris Lætitia e sul documento dei Vescovi argentini che Papa Francesco ha ormai autenticato a mezzo della pubblicazione negli Acta Apostolicæ Sedis. Vediamo dunque di capire cosa il documento non dice… e anche cosa dice.

Il dibattito su Amoris lætitia è così dominato da contrapposte polarizzazioni che non di rado anche quanti si pongono davanti alla nuda lettera dei documenti magisteriali con buona disposizione d’animo e retta coscienza faticano a raccapezzarsi. Così ci è capitato di ricevere in redazione – grazie di cuore, grazie sempre per le vostre preziose interazioni! – la lettera di una lettrice che scriveva, fra l’altro:

Mi piacerebbe approfondire il tema della Comunione ai divorziati alla luce di ciò che papa Francesco ha scritto nel capitolo VIII di Amoris lætitia. Se ho ben capito si procede da caso a caso considerando le responsabilità del divorzio cosicché ad esempio una donna con figli lasciata dal marito e che abbia poi contratto una nuova unione non sia in peccato mortale ma veniale in quanto non ne ha responsabilità e colpe e quindi poter avere la Santissima Eucarestia.

La domanda posta è in sé così apparentemente semplice che l’interlocutore si sente portato a cercare una risposta altrettanto lineare. Chissà quanti sacerdoti, in queste settimane e in questi mesi, si sentono fare domande analoghe… Il fatto è che la domanda non è tanto semplice quanto semplicistica, e non si potrebbe rispondere con semplicità a una siffatta domanda senza prima correggerla, nel testo e nel sottotesto.

Pars destruens

Prima di tutto bisogna capire cosa non s’intende con l’espressione “da caso a caso”. Non s’intende, per essere chiari, abolire una casuistica per approvarne un’altra. Non s’intende “fino a ieri questa situazione era irregolare, adesso va bene”. Questo sarebbe semplicemente – per così dire – espiantare un semaforo da un crocevia per impiantarcene un altro (e fuor di metafora il bene e il male non sono certo convenzionali e intercambiabili come un semaforo). Questo non è quanto il Papa ha inteso fare con Amoris lætitia. Se vogliamo restare nella metafora della segnaletica stradale verticale, il Papa non ha sradicato alcun semaforo, ma ha invitato tutti a tenere ben presente la ratio legis che ha voluto e posto il suddetto semaforo, oltre al fatto che nessun semaforo può tenere conto della complessità della vita stradale: può passare un’ambulanza, una volante della polizia, un tipo con il fazzoletto al finestrino e una donna in macchina che sta partorendo… Tutti costoro passerebbero col rosso, non sempre avendo la lettera del codice dalla loro parte, ma il contesto sociale (che ha stabilito il Codice e per il quale il codice esiste) ammette agevolmente che passino: può accadere, sulla strada vera, molto più di quanto il Codice della Strada espressamente preveda (il tutto escludendo i casi estremi del matto e dell’attentatore, che ci porterebbero troppo lontano).




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Insomma, parafrasando il Vangelo, il semaforo è fatto per la strada e non la strada per il semaforo – e proprio per questo, ed entro tali limiti, il semaforo è utilissimo e prezioso. È davvero incredibile che taluni si mostrino così inflessibili con la debolezza degli uomini in cammino e così morbidi con la cieca ricorsività degli uomini viziosi. A pensarci bene capisco meglio perché Osea, citato da Gesù, accosti in parallelo la misericordia alla conoscenza di Dio:

Andate dunque e imparate cosa significhi:

«Misericordia io voglio, e non sacrificio.
[La conoscenza di Dio più degli olocausti]»

Mt 9, 13 [cf. Os 6, 6]

Veramente «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4, 8), e quindi giustamente, invece, «a chi molto ama viene perdonato molto» (cf. Lc 7, 47). Ed ecco infine spiegato perché i malvagi che si credono buoni, quand’anche andassero a messa tutti i giorni, non possono che essere invidiosi di Dio (cf. Mt 20, 15) – il quale solo è buono (cf. Mc 10, 18; Lc 18, 19).

Ora, dopo questa tirata che i detrattori volentieri tacceranno di “misericordismo” ci si aspetterà che io finalmente enunci i casi in cui è possibile, per le persone in situazioni già brevemente dette “irregolari”, accedere ai sacramenti. Mi dispiace, non si può: è questo il punto. Proprio questo non vuole, Papa Francesco, ed è forse la cosa più chiara in un contesto dilaniato da narrazioni violentemente contrapposte: la signora sbaglia nel porre la domanda proprio perché anche lei viene a proporre un caso.

La qual cosa è, in un certo senso, inevitabile, ma lo vedremo meglio nella pars construens: per ora accenno solo che quando dei vescovi sono andati dal Papa a porgli analoghe questioni, chiedendo se potessero dare o non dare siffatti permessi, Francesco ha appunto rimandato al discernimento. Il quale non significa che ogni vescovo diventa papa e re della morale nella propria diocesi – «giudice finalmente, / arbitro in terra / del bene e del male» (F. De André) –, ma che ognuno di loro deve farsi carico di cadauna particolare situazione di ciascuna persona, specialmente di quante vivono maggiori difficoltà. Il che è molto più facile a dirsi che a farsi: i primi ad essere sollevati, se Amoris lætitia si risolvesse in un semaforo (nuovo o vecchio cambia poco) sarebbero «i pastori che amano esser chiamati pastori mentre si rifiutano di adempiere l’ufficio di pastori» (Agostino, s. 46, 1), giacché «il mondo è pieno di sacerdoti e tuttavia si trova di rado chi lavori nella vigna del Signore; ci siamo assunti l’ufficio sacerdotale e non compiamo le opere che l’ufficio comporta» (Gregorio Magno, h. 17). E siffatti cattivi pastori – lo si dica serenamente quantunque gravemente – si trovano variamente assortiti nei due contrapposti schieramenti.




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Non può essere, dunque, l’aver subito il divorzio piuttosto che averlo procurato, a fare la differenza: a nessuno che sia stato lasciato dal coniuge è mai stato negato il conforto dei sacramenti, ma ogni uomo che si sposi s’impegna ad amare in modo totale ed esclusivo una e una sola persona «per tutti i giorni della propria vita». Della propria, dice la formula! – nemmeno di quella dell’altro: dunque non c’è modo di liberarsi dal giogo per il quale si è diventati coniugi (il coniugium è proprio l’appaiarsi sotto un unico giogo) per il semplice fatto che l’altra persona se n’è andata. Certo, il giogo che una pariglia di buoi porta senza neppure accorgersene – anzi si tratta di un «giogo soave» (Mt 11, 20) – può diventare un carico pesante, o esistenzialmente “insostenibile” (Lc 11, 46), per una giovenca o per un bue rimasti soli. Ciò vale per la vedovanza, ma ancora più dolorosamente per quando la promessa (mi piace che in francese sia “promessa” il nome dell’anello nuziale) viene infranta: nel primo caso un nuovo matrimonio è di nuovo possibile perché con la morte di uno dei coniugi il matrimonio viene meno – anche se la Chiesa ha sempre tenuto in alto onore lo stato della vedovanza – ma soprattutto è la stessa assenza del coniuge dipartito ad essere temperata di dolcezza nella comunione dei santi. E come si vede… poco aggiunge (o toglie), in tutto ciò, la presenza (o l’assenza) dei figli. La quale dunque non è, in sé, un criterio che permetta alle coppie in condizioni già definite “irregolari” di accedere ai sacramenti.

Pars construens

A tale proposito, dunque, occorre anzitutto richiamare all’attenzione comune il motivo teologico che sostiene insieme la sacramentalità e l’indissolubilità del matrimonio cristiano: esso consta della stretta analogia tra «l’unità di vita e d’amore» (CCC 1603) instaurata tra i coniugi e quell’unione mistica tra Cristo e la Chiesa che opportunamente è stata definita “sponsale” (il testo fondamentale si trova in Ef 5, 21-33). Ecco perché – come mi è capitato di rilevare altrove – ritengo che cogliesse nel segno la nota critica di Aldo Maria Valli rispetto al “matrimonio al volo” benedetto dal Santo Padre nella tratta aerea interna al Cile: non è affatto necessario che il matrimonio avvenga all’interno della celebrazione eucaristica, nondimeno resta sommamente opportuno che il legame tra i due “misteri grandi” venga evidenziato con il collocamento del sacramento nuziale all’interno di quello eucaristico. Per questo motivo troverei molto preoccupanti, se risultassero confermate, le proposte di promozione del rito del matrimonio celebrato fuori dal rito eucaristico.

Vale la pena ricordare questo perché allo stato attuale delle cose esiste un’interpretazione autentica e autenticata dei dubia su Amoris lætitia: poco tempo fa ho avuto l’onore di intervistare, con un caro amico che mi accompagna nella ricerca teologica, monsignor Agostino Marchetto, unanimemente riconosciuto “il miglior ermeneuta del Concilio Vaticano II” (Benedetto XVI – Francesco). A mons. Marchetto dunque ho chiesto quale sia il suo giudizio sul peso che la pubblicazione della nota dei vescovi argentini unitamente al rescritto pontificio bergogliano negli Acta Apostolicæ Sedis porta sulla vexata quæstio. La sua risposta è stata:

La pubblicazione in AAS di cui fa menzione, penso ponga fine alla discussione su quello che è il pensiero del Santo Padre. […].

È vero, ma non è solo fair play ammettere che da questo punto di vista la formulazione volutamente ancipite di Amoris lætitia ha trovato una sua chiarificazione: dopo aver ricevuto la risposta di mons. Marchetto sono tornato a leggere quella nota pastorale e mi sono accorto che solo agli occhi di chi la raccoglie tutta nel suo sesto punto – come l’Esortazione postsinodale era stata banalmente ridotta all’VIII capitolo! – quella nota “apre” a “dispense” e “permessi”.




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In realtà, a leggerla come essa va letta [a tal fine la riportiamo integralmente in calce, N.d.R.], vi troviamo come il primo punto del “decalogo argentino” esclude che la questione possa ridursi alla procedura di richiesta/rilascio di un permesso. Il secondo è migliore del primo:

[…] il pastore deve porre l’accento sull’annuncio fondamentale, il kerygma, che stimoli all’ incontro personale con Gesù Cristo vivo o a rinnovare tale incontro (cfr. 58).

Resterebbe immancabilmente deluso, quindi, chi andasse dal Vescovo per sentirsi dire “ma sì, fa’ pure la comunione”. Va per ascoltare un carismatico e bruciante richiamo alla conversione a Gesù, in realtà.

Quella carità pastorale del Vescovo deve necessariamente accogliere la retta intenzione del/dei fedele/i, accompagnarne l’integrazione comunitaria ed esortarne la vita teologale, ma non deve necessariamente condurre all’accesso ai sacramenti:

[…] può anche orientarsi ad altre forme di integrazione proprie della vita della Chiesa: una maggior presenza nella comunità, la partecipazione a gruppi di preghiera o di meditazione, l’impegno in qualche servizio ecclesiale, etc.

A questo punto, alla coppia già definita “irregolare” dovrebbe essere proposta la via della dottrina della Chiesa tracciata da Giovanni Paolo II in Familiaris Consortio: la coabitazione continente mantenuta in vista del bene dell’eventuale prole (la quale – osservava il santo Papa polacco – a questo punto segna un limite di non-ritorno nella vicenda personale della coppia già detta “irregolare”). Papa Francesco sa che questa richiesta è molto impegnativa, e del resto già Giovanni Paolo II era intervenuto a chiarire che quanti non riuscissero a vivere “come fratello e sorella” con il genitore dei propri figli potrebbero comunque sempre accedere al sacramento della Riconciliazione.




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Ed eccoci al famigerato “sesto comandamento” dei vescovi argentini (chissà se l’hanno fatto apposta, a mettere il più dibattuto al sesto posto del loro decalogo!):

In altre circostanze più complesse, e quando non si è riusciti a ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione menzionata può non essere di fatto realizzabile. Ad ogni modo, è comunque possibile un cammino di discernimento. Se si arriva a riconoscere che in un caso concreto ci sono limitazioni che attenuano la responsabilità e la colpevolezza (cfr. 301-302), soprattutto quando una persona considera che cadrebbe in un’ulteriore mancanza danneggiando i figli nati dalla nuova unione, la Amoris lætitia apre la possibilità all’accesso ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia (cfr. Note 336 e 351). Questi a loro volta dispongono la persona a continuare a maturare e a crescere con la forza della grazia.

Come si vede, quanto i Vescovi argentini (e a questo punto il Santo Padre stesso) insegnano è che va da principio tentata la via ordinaria: dunque i comandamenti, dunque i processi canonici, dunque la continenza domestica. Su tutto questo, però, devono prevalere il precetto evangelico di non «legare carichi insostenibili sulle spalle degli uomini» (cf. Lc 11, 46) e il criterio morale della legge della gradualità (Familiaris consortio 34): in breve, se questa coppia oggi non ce la fa a vivere secondo l’ideale indicato dalla Chiesa, occorre sostenere i due perché domani o dopodomani ce la facciano.

Il “pane dei deboli”?

Qui va una precisazione importante – troppo spesso disattesa – sulla funzione dei sacramenti nella vita degli uomini. Fermo restando che «Dio non lega la sua grazia ai sacramenti», come insegna san Tommaso, e che dunque può benissimo portare in paradiso persone che non abbiano ricevuto il battesimo sacramentale e lasciare che si dannino uomini e donne battezzati con tutti i crismi; va tuttavia ribadito che i sacramenti, tutti i sacramenti, sono un viatico utile all’uomo «in questa valle di lacrime». Nessuno si stupirà, spero, se ricordiamo che tutti i sacramenti svaniranno definitivamente col giudizio universale (e in larga misura, sebbene individualmente, anche con la morte di chi li ricevette). Come estremizzazione di queste giuste considerazioni si sente talvolta dire – e personalmente l’ho sentito di recente dalle labbra di un meraviglioso missionario in Brasile – che l’eucaristia sarebbe “il pane dei deboli”. Ecco, no: questo è un grave errore. L’espressione è calcata su quella di sant’Agostino, il quale avvertì un giorno in mozione interiore la voce di Cristo che gli diceva: «Io sono il pane dei forti: cresci e mi avrai» (Aug., conf. VII, 10,18). La metafora alimentare è usata fin dai più remoti scritti cristiani, e basta risalire al loro capostipite assoluto – san Paolo – per capire come mai non sia assolutamente possibile parlare del “pane dei deboli”:

Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali: dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?

1 Cor 3, 2-3

L’arrosto è un cibo nutriente, ma a nessuno sano di mente verrebbe in mente di prepararne per un uomo che stia male… a meno che non sia ormai in via di guarigione e abbia bisogno/possibilità di riprendere rapidamente le forze e tornare alla propria piena autonomia. Lo scriveva meravigliosamente proprio sant’Agostino, individuando una luminosa distinzione mistica tra “debole” e “malato”:

Occorre infatti distinguere fra “debole”, cioè privo di forze, e “malato”. Anche il malato è certamente un debole, ma mi sembra che fra il debole in genere e il malato, cioè uno colpito da infermità, ci sia della differenza. Son queste, fratelli, delle distinzioni appena abbozzate. Mettendoci maggiore impegno potremmo, forse, noi stessi approfondirle meglio, come potrebbero fare anche altri più esperti e interiormente illuminati. Per non deludervi sul senso delle parole scritturali, vi esporrò la mia opinione. Quando si tratta di una persona debole, c’è da temere che, capitandole una prova, ne resti schiacciata; nel caso invece di un malato, esso è già affetto da qualche passione disordinata e questa gli impedisce di entrare nella via di Dio e di sottomettersi al giogo di Cristo. Osservate certi uomini intenzionati e già decisi a vivere bene: potreste riscontrare che son meno disposti a subire il male di quanto non lo siano a compiere il bene. Invece la fortezza cristiana comporta non solo la pratica del bene ma anche la pazienza di fronte al male: sicché chiunque è zelante in opere buone (o sembra esserlo), se poi si rifiuta o non è in grado di accettare le tribolazioni che gli sopravvengono, costui è un debole. Quanto invece a quegli altri che, vinti da passioni disordinate, si abbandonano all’amore del mondo e trascurano totalmente le opere buone, costoro giacciono infermi, malati. La malattia li ha svigoriti completamente e non sono in grado di compiere alcun bene.

Aug., s. 46, 13

Ecco, tornando alla lettera dei Vescovi argentini, il punto 6 significa esattamente (e solamente) questo: a chi non è ancora in grado di compiere il bene indicato da Familiaris consortio (e fedelmente richiamato dai Padri Sinodali e dal Pontefice) si può, in alcuni casi, fornire la medicina dei sacramenti, che fortifichi lo spirito e corrobori le coscienze. Proprio perché l’eucaristia non è “il pane dei deboli”, essa neppure è “un premio per i perfetti” (e questo mette fuori gioco anche quanti, “irregolari”, vi ambiscono come a un lenitivo socio-ecclesiale per la loro cattiva coscienza): l’eucaristia è “il pane del cammino”, come da secoli e secoli l’innologia latina meravigliosamente canta.

Ecce panis angelorum

factus cibus viatorum.

Vere panis filiorum,

non mittendus canibus!

Ecco il pane degli angeli divenuto cibo dei viandanti. È davvero il pane dei figli: non dev’essere gettato ai cani!

Th. Aq., Lauda Sion

La Comunione resta “il pane dei figli” e non deve essere sprecata con chi non intende vivere da figlio nel Figlio: ma a chi vuole questo, a chi intensamente desidera corrispondere alla volontà salvifica di Cristo, a questi può essere data anche mentre tornano dalla “regione lontana” in cui sono andati a sperperare il patrimonio di casa (cf. Lc 15). È il pane dei viandanti, talvolta stanchi, talvolta lenti, spesso sporchi e di quando in quando smarriti – ma sempre decisamente diretti verso casa.


POPE FRANCIS,FERULA

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Tutto questo è stato dettagliatamente spiegato dai Vescovi argentini nella loro nota: i quattro punti che seguono il sesto precisano con ogni cura che non si può intendere questa disposizione «come un accesso “allargato” ai sacramenti, o come se qualsiasi situazione giustificasse questo accesso». Non si tratta di situazioni, cioè di condizioni in cui stare: si tratta di passaggi per cui procedere:

Il discernimento non si conclude, perché «è dinamico e deve rimanere sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (303), secondo la «legge della gradualità» (295) e confidando sull’aiuto della grazia.

Per cui, infine, che diremo alla nostra lettrice – alla quale spero di aver dato una risposta esauriente e precisa quanto potevano le mie facoltà – in risposta alla sua domanda? Riassumerei così, con un’immagine in parte già accennata e che può facilmente richiamare alla propria mente, quando le fosse capitato di aver accudito qualcuno – figli, marito, genitori… – durante una malattia che «non fosse per la morte» (cf. Gv 11, 4):

  1. Nessun medico può dirti, senza entrare in casa tua e senza aver visitato con cura il paziente, quando arriverà il momento opportuno – tra la debolezza totale e il pieno ristabilimento – in cui un ricostituente potrà risultare efficace e perciò consigliabile;
  2. Tutti i trattamenti speciali riservati a un malato in vista della sua prossima guarigione sono ovviamente destinati a terminare una volta che il malato sia almeno grossomodo ristabilito.

E ringrazio di cuore la lettrice che ha posto la domanda iniziale: raccogliendo le idee per scrivere queste pagine mi sono reso conto «della solidità degli insegnamenti che ho ricevuto» (cf. Lc 1, 4), capisco perché Papa Francesco abbia voluto autenticare questo carteggio privato con la pubblicazione negli Acta Apostolicæ Sedis e mi sento di dire con lui, riguardo ad Amoris lætitia (che comunque va letta tutta, senza limitarsi a qualche nota del capitolo VIII): «Non c’è altra interpretazione».

Il documento dei Vescovi argentini

Cari sacerdoti,

abbiamo ricevuto con gioia l’esortazione Amoris lætitia che ci spinge in primo luogo a far crescere l’amore degli sposi e a motivare i giovani affinché scelgano il matrimonio e la famiglia. Questi sono i grandi temi che mai dovrebbero essere trascurati né dimenticati a causa di altri problemi. Francesco ha aperto diverse porte nell’ambito della pastorale familiare e siamo chiamati ad approfittare di questo tempo di misericordia e a farlo nostro come Chiesa.

Di seguito ci soffermeremo solo sul capitolo VIII poiché fa riferimento ad “orientamenti del vescovo” (300) in ordine al discernimento sul possibile accesso ai sacramenti di qualche “divorziato che vive una nuova unione”. Pensiamo opportuno, come vescovi di una medesima regione pastorale, avere in comune alcuni criteri di massima. Senza togliere nessuna autorità ai competenti vescovi delle diocesi, che possono precisarli, completarli o adeguarli.

1) Innanzitutto vogliamo ricordare che non è opportuno parlare di “permesso” per accedere ai sacramenti, ma di un processo di discernimento accompagnati da un pastore. Questo discernimento è «personale e pastorale» (300).

2) In questo percorso, il pastore deve porre l’accento sull’annuncio fondamentale, il kerygma, che stimoli all’ incontro personale con Gesù Cristo vivo o a rinnovare tale incontro (cfr. 58).

3) L’accompagnamento pastorale è un esercizio dalla «via caritatis». È un invito a seguire «la via di Gesù, che è quella della misericordia e dell’integrazione» (296). Questo itinerario appella alla carità pastorale del sacerdote che accoglie il penitente, lo ascolta attentamente e gli mostra il volto materno della Chiesa, mentre, contemporaneamente, accetta la sua retta intenzione e il suo buon proposito di leggere la propria vita alla luce del Vangelo e di praticare la carità (cfr. 306).

4) Questo cammino non finisce necessariamente nell’accesso ai sacramenti, ma può anche orientarsi ad altre forme di integrazione proprie della vita della Chiesa: una maggior presenza nella comunità, la partecipazione a gruppi di preghiera o di meditazione, l’impegno in qualche servizio ecclesiale, etc. (cfr. 299)

5) Quando le circostanze concrete di una coppia lo rendono fattibile, in particolare quando entrambi sono cristiani con un cammino di fede, si può proporre l’impegno di vivere la continenza sessuale. Amoris lætitia non ignora le difficoltà di questa scelta (cfr. nota 329) e lascia aperta la possibilità di accedere al sacramento della Riconciliazione quando non si riesca a mantenere questo proposito (cfr. nota 364, secondo gli insegnamenti di san Giovanni Paolo II al card. W. Baum, del 22/03/1996).

6) In altre circostanze più complesse, e quando non si è riusciti a ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione menzionata può non essere di fatto realizzabile. Ad ogni modo, è comunque possibile un cammino di discernimento. Se si arriva a riconoscere che in un caso concreto ci sono limitazioni che attenuano la responsabilità e la colpevolezza (cfr. 301-302), soprattutto quando una persona considera che cadrebbe in un’ulteriore mancanza danneggiando i figli nati dalla nuova unione, la Amoris laetitia apre la possibilità all’accesso ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia (cfr. Note 336 e 351). Questi a loro volta dispongono la persona a continuare a maturare e a crescere con la forza della grazia.

7) Ma bisogna evitare di capire questa possibilità come un semplice accesso “allargato” ai sacramenti, o come se qualsiasi situazione giustificasse questo accesso. Quello che viene proposto è un discernimento che distingua adeguatamente caso per caso. Per esempio, speciale attenzione richiede «una nuova unione che viene da un recente divorzio» o «la situazione di chi è ripetutamente venuto meno ai propri impegni familiari» (298). O, ancora, quando c’è una sorta di apologia o di ostentazione della propria situazione «come se facesse parte dell’ ideale cristiano» (297). In questi casi più difficili, i pastori devono accompagnare le persone con pazienza cercando qualche cammino di integrazione (cfr. 297, 299).

8) È sempre importante orientare le persone a mettersi in coscienza davanti a Dio, e a questo fine è utile l’«esame di coscienza» che propone Amoris lætitia (cfr. 300), specialmente per ciò che si riferisce a «come ci si è comportati con i figli» o con il coniuge abbandonato. Quando ci sono state ingiustizie non risolte, l’accesso ai sacramenti risulta di particolare scandalo.

9) Può essere opportuno che un eventuale accesso ai sacramenti si realizzi in modo riservato, soprattutto quando si possano ipotizzare situazioni di disaccordo. Ma allo stesso tempo non bisogna smettere di accompagnare la comunità per aiutarla a crescere in spirito di comprensione e di accoglienza, badando bene a non creare confusioni a proposito dell’insegnamento della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. La comunità è strumento di una misericordia che è «immeritata, incondizionata e gratuita» (297).

10) Il discernimento non si conclude, perché «è dinamico e deve rimanere sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (303), secondo la «legge della gradualità» (295) e confidando sull’aiuto della grazia.

Siamo innanzitutto pastori. Per questo vogliamo fare nostre queste parole del papa: «Invito i pastori ad ascoltare con affetto e serenità, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro punto di vista, per aiutarle a vivere meglio e a riconoscere il loro proprio posto nella Chiesa» (312).

Con affetto in Cristo.


PAPIEŻ FRANCISZEK PODCZAS NAUCZANIA

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