Quali, tra serafi e cherubi, sono i più prossimi a Dio? Chi sono le potenze e i principati?
Giacché nella Bibbia le diverse classi di angeli si trovano citate in maniera sfusa, non vi si riscontra la tassonomia in nove classi gerarchiche*, dalla più prossima a Dio alla più distante dalla luce divina. Per questa si sarebbe dovuto attendere Sant’Ambrogio nel IV secolo, e soprattutto il De cœlesti hierarchia dello pseudo-Dionigi Areopagita, scrittore ecclesiastico vissuto verso l’anno 500, per vederci più chiaro. Fu la sua classificazione quella che sarebbe passata alla posterità, per quanto san Gregorio e Jan Van Ruysbroec vi ci siano ugualmente cimentati e quantunque le Chiese orientali dispongano delle loro proprie tradizioni.
Di conseguenza, se non c’è una tradizione uniforme nella Chiesa, c’è comunque l’idea che
è in un modo gerarchico, graduato e ordinato, che la luce divina viene comunicata agli angeli, dalle prime gerarchie fino alle ultime.
San Tommaso d’Aquino
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* Nota del traduttore: Al lettore non sfuggirà che in questo pezzo abbiamo usato le bizzarre parole “serafo” e “chèrubo” (coi relativi plurali “serafi” e “cherubi”) in luogo dei più comuni “serafino” e “cherubino”. Poiché l’uso che proponiamo, pure ragionevole e autorevole (alcuni vocabolari lo attestano anche oggi), è ormai universalmente disatteso in favore dell’altro, ci sentiamo in dovere di offrirne rapida apologia. La parola “serafino” è la semplice italianizzazione dell’ebraico “שְׂרָפִים” (seraphîm), così come “cherubino” viene dall’ebraico “כְּרוּבִים” (kerûbîm). In entrambi i casi si è derivato un sostantivo singolare a partire da uno plurale (in ebraico suonerebbero rispettivamente “seraph” e “kerub”): al di là di questa stranezza etimologica, la terminazione “-ino” presenta in italiano la controindicazione di caratterizzare diminutivi e vezzeggiativi – cosa inappropriata a creature formidabili dal cui moto dipende, nella cosmologia antica, perfino quello dei cieli. A queste ragioni possiamo aggiungere l’avallo di un’autorità indiscutibile: in Pd XXVIII, 98-99, infatti, Dante (evidentemente avvertito dell’inopportunità di forgiare un nome “puccioso” e “petaloso” per creature eteree e fiammeggianti), scrive: «[…] i cerchi primi / t’hanno mostrato Serafi e Cherùbi». Se ci distanziamo anche dal Poeta nell’accentazione di “chèrubi” non è perché ne sappiamo più di lui, ma perché è il suo accento a essere forzosamente spostato, come talvolta gli toccava fare, per rispettare la metrica dell’endecasillabo.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]