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Thomas Becket, all’inizio non fu uno stinco di santo ma morì da martire

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A Sua Immagine - pubblicato il 29/12/17

Fu strenuo difensore dei diritti della Chiesa tanto da inimicarsi Enrico II

di Aurelio Molè

Le lotte tra papato e impero continuano da secoli e anche la storia di Tommaso Becket si colloca sul crinale di una questione non ancora risolta. Siamo nell’Inghilterra del XII secolo e solo inquadrando la vicenda di questo martire nel suo periodo storico è possibile capirne la figura. Non è certo nato santo, Tommaso, e ha una sfolgorante carriera sia nel regno di Enrico II Plantageneto che domina dalla Scozia ai Pirenei, sia nella Chiesa inglese.

Cancelliere del re
Nasce nel 1118 da una famiglia nobile di normanni, che da 50 anni governano l’Inghilterra. Secondo uno schema ricorrente il padre è un ricco commerciante, mentre la madre lo educa alla fede. Dal padre apprende il coraggio, la tenacia, un carattere capace di intessere relazioni, dalla madre l’amore per Dio e la dedizione al prossimo. Tommaso è descritto come una persona dotata di acuta sensibilità, di straordinaria memoria, di grande prontezza nel parlare e capacità di azione. Non è un grande pensatore, né tale si rivela nei suoi scritti. Studia a Parigi, allora centro culturale d’Europa, e tornato a Londra fa per anni il contabile presso un magistrato. Lo nota, anche lui normanno, l’arcivescovo Teobaldo di Canterbury, che lo fa diventare chierico e lo manda a completare gli studi a Roma, Bologna e Auxerre. Ritornato in patria si avvia a diventare il capo della curia, ma anche il re lo nota e lo nomina addirittura cancelliere del Regno, il suo numero due. Tommaso ripaga questa fiducia, sembra fatto apposta per un tale incarico: conosce le corti di tutta Europa, la curia papale, brilla nel diritto, sa trattare con i nobili, ha fiuto diplomatico, vince una guerra contro Luigi VII di Francia, mostrando non comuni doti di stratega militare, e sa mantenere buone relazioni anche con i pontefici. Il re dorme sonni tranquilli e nei setti anni in cui Tommaso è cancelliere il suo regno è ben governato.

Arcivescovo di Canterbury
Teobaldo muore nel 1161 e Canterbury, la più antica diocesi inglese e sede primaziale dell’Inghilterra, diventa vacante. Re Enrico II ha un interesse politico nel voler nominare un vescovo di sua fiducia. E indica la candidatura del suo cancelliere. Avrebbe avuto così dalla sua parte il primate della chiesa e tutti vescovi. Tommaso, da uomo intelligente però, risponde al re: “Se Dio mi permettesse di essere arcivescovo di Canterbury, perderei la benevolenza di vostra maestà e l’affetto di cui mi onorate si trasformerebbe in odio, giacché diverse vostre azioni volte a pregiudicare i diritti della Chiesa mi fanno temere che un giorno potreste chiedermi qualcosa che non potrei accettare, e gli invidiosi non mancherebbero di considerarlo un segno di conflitto senza fine tra di noi”. Ma il consenso dei vescovi è unanime. Solo l’arcivescovo di Londra, che aspira alla sede primaziale, è contrario. Decisivo è l’intervento del nunzio apostolico: Tommaso si convince ad accettare l’incarico e il 27 maggio del 1162 diviene arcivescovo di Canterbury.

Contrasti con la corona
Tommaso non è uno stinco di santo e la sua condotta, spesso, non è differente dagli stili di vita di corte.

Cosciente della sua superiorità intellettuale, si mostra puntiglioso e arrogante. Ama la vita gaudente e fastosa. Ora, però, avverte l’esigenza di cambiare. Ordinato sacerdote e vescovo, rinuncia alla carica di cancelliere del re, comincia a usare il cilicio, a raccogliersi di notte in preghiera, ad aiutare i poveri. Non è una conversione immediata, ma lenta e faticosa. Per alcuni commentatori, se non fosse diventato un martire, difficilmente sarebbe stato canonizzato. Ben presto, però sorgono contrasti con il re. Questi rivendica il diritto di giudicare i chierici e i monaci, di imporre tasse sui beni della Chiesa destinanti al sostentamento del clero, al culto e alle opere di assistenza ai poveri. Le cose precipitano quando il monarca vuole scegliere e nominare i vescovi, pretendendo un giuramento di vassallaggio e negando il diritto di appello al papa. Non c’è ancora chiarezza, da ambo le parti, sulle competenze del pontefice e quelle del re. Le interferenze sono reciproche. Ma Tommaso è molto lucido e quando, nel 1164, Enrico II codifica le sue intenzioni nella Costituzioni di Clarendon, lui rifiuta di sottoscriverle e alcuni vescovi lo seguono. Cominciano così aperte persecuzioni contro la Chiesa.

Il martirio
Il papa lo convince a riconciliarsi con il re. Tommaso firma le Costituzioni di Clarendon con la clausola salvo honore Dei, “ponendo in salvo i diritti di Dio”. Della cosa si discute nel concilio di Northampton, ma Enrico II rimane insoddisfatto. Per questo motivo subisce rappresaglie, pene, minacce di deposizione, reclami per il denaro dovuto, si diceva, quando era cancelliere del regno. Fugge in esilio in Francia, le sue terre in Inghilterra sono confiscate e i suoi amici perseguitati. Il papa stesso, Alessandro III, cerca una soluzione. Dopo sette anni di trattativa la pace sembra raggiunta e Tommaso rientra in patria, ma la sua concezione si scontra con quella regalista. Sono due linee di pensiero inconciliabili. Scrive Tommaso ai suoi vescovi: “Chi dubita che la Chiesa di Roma sia a capo di tutte le Chiese e fonte della dottrina cattolica? Chi ignora che le chiavi del regno sono state date a Pietro? La struttura di tutta la Chiesa non si innalza forse nella fede e nell’insegnamento di Pietro, finché tutti andiamo incontro a Cristo uomo perfetto, nell’unità della fede e nella conoscenza del Figlio di Dio?”.

Conseguenza del suo pensiero è la scomunica di due vescovi che si oppongono a questa dottrina. E’ la sua fine. Il 29 dicembre del 1170 quattro cavalieri si avvicinano alla cattedrale. I monaci vogliono chiudere le porte, ma egli si oppone e li riceve. “Sono pronto – disse loro – a morire per il nome di Gesù e la difesa della Chiesa”. E’ ucciso a pugnalate. Quali che possano essere i giudizi sulla vita, è certo che muore da santo. Paga con la sua vita. E’ un martire per la libertà della Chiesa. Con il proprio sangue porta un contributo nel chiarimento dei rapporti tra Stato e Chiesa.

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