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“Ogni sera guardo mio figlio che dorme e gli chiedo scusa per non esserci come vorrei”

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Todd F Niemand - Flickr.com

Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 20/12/17

Da una lettera al blog di Repubblica lo spunto per una riflessione necessaria: il tempo cosiddetto "di qualità " sia per il lavoro. A noi mamme e ai nostri figli ne serve una quantità enorme.

Dal blog di Concita su Repubblica.it ci si può affacciare spesso e senza appannature su scorci di quotidiano vissuto dal paese reale, che ci riflette e si fa domande, senza retorica.

Almeno questa lettera, come anche altre che ci era capitato di notare e riprendere, racconta con pacata sintesi ma senza tralasciare nulla, il vero problema delle madri che lavorano.

La questione, a ben guardare da subito, non è delle mamme e basta. Ma delle famiglie. E prima ancora dell’endiadi separata a forza e insensatamente a lungo madre-figlio.

Nessuna simbiosi patologica, per carità, ma la constatazione amara che ogni minuto sprecato in ufficio ad aspettare in caso il capo abbia bisogno di qualcosa (e cosa potrà mai essere, si domanda Stefania) è un mucchietto di granelli di sabbia lasciati scorrere invano.

E la clessidra della giornata è una sola.

Che senso ha restare due ore oltre l’orario normale per riunioni spesso buttate in chiacchiere da goliardi imbolsiti mentre la giornata al nido, per il piccolo, è finita da un pezzo? (E anche qui: senza i nonni che si fa? Che fanno le tante famiglie che non possono contare nemmeno su quella impagabile risorsa? E infatti chi li paga?). Potremmo dire che si tratta di violenza?

L’autrice della lettera non lo dice. Ma dice tutto il resto.

“Da quando sono diventata mamma, ho rivalutato ancora di più il valore del tempo. Ogni minuto sprecato sul posto di lavoro è un minuto in meno con mio figlio.”

Non si tratta di sensazioni, di vissuto personale variabile: è la semplice verità dei fatti. Tempo aggiunto di qua-uguale-tempo sottratto di là.

Prosegue annotando e denunciando quasi sconsolata il trattamento che le viene riservato quando cerchi di uscire dal posto di lavoro all’orario che le competerebbe:

“Ogni giorno, quando alle 16,30 (orario in cui dovrebbe terminare la giornata lavorativa) mi accingo a dire al mio capo diretto che sto per andare a casa ricevo uno sguardo di sufficienza mista a disappunto. E’ il momento più umiliante della giornata.”

Si sente umiliata come persona che lavora e che non si risparmia:

“(è) umiliante come lavoratrice, che onestamente fa il suo lavoro, perché oso il più spesso possibile uscire in orario”

Come donna per il fatto che questa particolarità le venga imputata come limite:

“è umiliante come donna, perché in quello sguardo il messaggio è: se fossi uomo non ti permetteresti mai di andare via a quest’ora”.

E forse sarebbe quello il momento perfetto per dire che non è un limite – nemmeno alla ossessione condivisa della produttività!- ma è il nostro irriducibile dato antropologico, prezioso quanto quello maschile, e la cosa, anche se facciamo finta di no, continua a riguardare tutti. Ma certo è facile farlo ora, da qua, da dietro lo schermo di un computer senza la pressione di un superiore.

“Soprattutto è umiliante come mamma”,

dice infine ed è una climax che mi sento di sposare totalmente nel suo crescendo.

“perché il mondo del lavoro considera la maternità un ostacolo: la cosa principale che ci aspetta in ufficio è la disponibilità temporale, bisogna esserci anche se non vi sono pratiche da sbrigare”. Leggi anche:Il dovere e la bellezza della diversità: alla riscoperta della vocazione femminile

Che paradosso. Diffusissimo, peraltro. Ma se coi nostri figli possiamo diventare acrobate convincendoci che la fola del tempo di qualità sia vera, non potremmo provare a fare lo stesso con il lavoro?

Ci sono già fior fiore di studi che lo dimostrano. La motivazione fa impennare il rendimento, è un suo moltiplicatore: e cosa motiva di più una mamma a fare del proprio meglio che il desiderio di tornare a casa con suo figlio? Per stare con lui? Curarlo, esserci?

E allora proviamo a rovesciare la faccenda: insistiamo per un tempo di qualità al lavoro e reclamiamone la maggior quantità possibile per i nostri figli. Anche scadente, non importa. Perché con i figli non serve essere sempre “efficaci ed efficienti”. Serve innanzitutto esserci. Questo non significa che allora basta coabitare (uno alla tv, uno incollato al tablet, in due stanze diverse magari) ma certo è la condizione minima!

È bello notare come sempre più voci e con sempre maggiore consapevolezza si stiano levando per reclamare questo diritto: non i posti nei CdA, che senza baby sitter ce li sogniamo comunque (e la baby sitter è una sostituta, intendiamoci). Non una rincorsa affannosa e per certi versi screziata di rabbia dei ritmi e degli stili di lavoro maschili, ma una promozione della donna integralmente intesa, compresa, e ben volentieri, la sua maternità.

Costanza Miriano lo dice da un lustro almeno; e se rumorose sono state le non così frequenti reazioni ostili e scandalizzate, molto più consistenti e grate sono state quelle di chi in quelle istanze si riconosceva. In chi prescindendo senza alcuno sforzo da posizioni confessionali rivede finalmente nella donna la sua specificità come un dono (tutto da coltivare, perché non siamo gatte): la maternità. A partire da quella biologica, pure quando la sterilità ce la impedisce, per arrivare a quella spirituale.

Il tono e le conclusioni con i quali finisce la missiva al blog Stefania sono quelli di una mamma che lavora: stanchi.

E carichi per giunta della colpa che imputa a se stessa per non averla trovata ancora tutta la forza che serve a cambiare le cose.

Ogni sera, quando il mio bimbo si addormenta lo guardo e gli chiedo scusa per non esserci come vorrei a causa dell’ottusità dei miei capi e mi vergogno di non essere abbastanza forte per cambiare questa realtà che tiene lontano, più del dovuto, una mamma e un figlio“.

Forse potrebbe iniziare uscendo comunque all’orario previsto e portandosi a casa lo sguardo di disapprovazione del capo; in fondo di quello non si muore.

Potrebbe provare a scrivere un breve discorso da impararsi quasi a memoria per usarlo a tempo debito. Così l’emotività non avrebbe il sopravvento. Potrebbe continuare a provarci. A dividere il grande problema in tanti piccoli problemi e ad affrontarli così. Uno alla volta, uno per giorno.

Spero non si lasci paralizzare dal fardello del perfezionismo e che accetti di non compiacere tutti. Perdonandosi le volte che non dovesse riuscirci.

“La sola alternativa” non “è” come dice Stefania “gettare la spugna e lasciare il posto ad altri”, ci e le auguriamo.

Anche perché spesso le donne che lavorano in contesti sordi ai ritmi e alle necessità di una mamma (immaginiamo le impiegate del privato, le commesse nei negozi di centri commerciali, pagate poco o pochissimo, le operatrici di call center, e molte altre) lo fanno soprattutto per un motivo: hanno bisogno dello stipendio.


DONNA CUCINA POP ART

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