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La legge sul biotestamento? Ecco cosa non funziona secondo il mondo cattolico

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia Italia - pubblicato il 14/12/17

Il timore è che si stiano aprendo le porte all'eutanasia, visto il "depotenziamento" del ruolo dei medici, che da ora in poi dovranno attenersi alla cosiddetta Dat

Dopo uno stallo durato otto mesi e forti tensioni all’interno della maggioranza tra Pd e centristi, appelli di senatori a vita e sindaci di tutta Italia, il biotestamento incassa il via libera definitivo dell’aula di Palazzo Madama e diventa legge dello Stato.

La legge che regola il fine vita, formata in tutto da cinque articoli, è stata approvata con 180 sì, 71 contrari e sei astensioni (La Repubblica, 14 dicembre).

La prima parte, quella più rilevante, riguarda il consenso informato del paziente cosciente, quindi capace di esprimere direttamente le proprie volontà sulle cure, sulle cosiddette «Dat» le «Disposizioni anticipate di trattamento», in previsione di una malattia che renda impossibile autodeterminarsi (Corriere della Sera, 14 dicembre).

Un esempio pratico: se si soffre di cancro in fase terminale, si può certificare di non volere, o di interrompere anzitempo, le cure lenitive, relative alla nutrizione e alla idratazione artificiale, anticipando così i tempi di morte.

Ma andiamo con ordine e vediamo le novità punto per punto.

1) Il consenso informato

L’articolo 1 prevede che, nel rispetto della Costituzione, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata. Viene ‘promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico il cui atto fondante è il consenso informato’ e ‘nella relazione di cura sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari’.

2) I minori

Per quanto riguarda i minori ‘il consenso è espresso dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore o dall’amministratore di sostegno, tenuto conto della volontà della persona minore’.




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3) Le Disposizioni Anticipate di Trattamento 

L’articolo 3 prevede che ‘ogni persona maggiorenne, capace di intendere e volere, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso Disposizioni anticipate di trattamento (Dat), esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonchè il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali’.

Le Dat, sempre revocabili, risultano inoltre vincolanti per il medico e ‘in conseguenza di ciò – si afferma – è esente da responsabilità civile o penale’. Sempre questo articolo stabilisce le modalità di espressione della propria volontà: ‘Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata, con sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale o da un medico dipendente del Servizio sanitario nazionale o convenzionato. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, possono essere espresse attraverso videoregistrazione’. In caso di emergenza o di urgenza, precisa inoltre il ddl, ‘la revoca può avvenire anche oralmente davanti ad almeno due testimoni’.




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4) Pianificazione delle cure

‘Nella relazione tra medico e paziente – si legge nell’articolo 4 – rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico è tenuto ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità’ (Ansa, 14 dicembre).




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Il mondo cattolico si è diviso sulla legge. I commenti sono per lo più negativi (anche se una fetta di parlamentari che si definiscono di “area cattolica” ha sostenuto la legge). Ecco i dubbi più diffusi.

E l’obiezione di coscienza?

Secondo la Fondazione Policlinico e l’Università Cattolica, il processo assistenziale dei medici non si può ridurre alle caselle barrate di un formulario.

La legge in via di approvazione non prevede obiezione da parte dei medici anche quando dispone che nutrizione e idratazione siano atti terapeutici senza che ci sia alcuna evidenza di beneficio o nocumento nel morire non alimentati o idratati. In armonia con la Conferenza episcopale statunitense proporremo ai nostri pazienti che «in accordo con la legge informeremo i pazienti sui loro diritti per disporre di disposizioni avanzate di trattamento (Dat). Tuttavia non onoreremo una Dat contraria all’insegnamento cattolico. Se una Dat confligge con tale insegnamento si spiegherà perché la Dat non può essere onorata» (Avvenire, 11 dicembre).


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E l’assistenza alle famiglie dei malati terminali?

Il Forum delle associazioni familiari boccia la legge, senza appello:

Si è fatta la scelta più semplice, confondendo cura del malato con accanimento terapeutico e introducendo di fatto l’eutanasia omissiva commenta così l’approvazione della legge sul biotestamento il Forum delle associazioni familiari.

Ben più utile ed efficace sarebbe stato offrire alle famiglie un aiuto nell’assistenza ai malati terminali. Ma come sempre le famiglie vengono abbandonate a se stesse nel gestire situazioni di dolore e di sofferenza con l’aggravante che l’impossibilità di obiezione di coscienza da parte dei medici mina, invece di favorire, il rapporto con il malato e con i familiari.

E cosa accadrà nelle situazioni di emergenza?

«L’approvazione del testo di legge sul testamento biologico è un altro strappo ai valori antropologici che si fondano sul bene prezioso ed insostituibile della vita, aprendo la strada all’autodeterminazione per la morte». Così Massimo Gandolfini, leader del Family day, nonché neurochirurgo esperto nelle condizioni di disturbo prolungato di coscienza.

«Il provvedimento ha infatti scontato molteplici strumentalizzazioni, che hanno falsato il dibattito di questi mesi. Accadrà così che in un Pronto Soccorso – prosegue Gandolfini – in presenza di un ictus cerebrale o di un arresto cardiaco per infarto, il medico sarà obbligato non già a tentare di salvarlo e restituirgli la salute, bensi – in primis – a conoscere se e dove il paziente ha scritto e depositato le sue DAT … poi, semmai, a prendersi cura di lui».




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Perchè non dare al medico la facoltà di scegliere?

L’Aris, l’Associazione degli ospedali cattolici, è pronta ad impugnare il Concordato. Due le situazioni di maggiore criticità secondo gli ospedali cattolici. «La prima concerne la preoccupazione che la relazione di cura non venga ridotta a una mera presa d’atto della volontà del paziente, senza che vi sia una effettiva interazione in un contesto comunicativo adeguato alla situazione specifica. È necessario evitare che la responsabilità etica del medico venga schiacciata dalla volontà del paziente».

La seconda osservazione concerne «l’obbligo cui sembrerebbero tenute anche le strutture ospedaliere di enti ecclesiastici in ordine alla sospensione – non giustificata da motivi clinici – di prestazioni sanitarie, incompatibile con consolidati princìpi etico-antropologici alla base dell’identità stessa delle nostre strutture. Quindi in presenza di richiesta di sospensione di idratazione e alimentazione artificiali non giustificata da adeguate motivazioni cliniche e che risulti pertanto in conflitto con i princìpi etici cui gli enti cattolici si ispirano, dovrebbe essere data facoltà di non seguire le disposizioni, eventualmente proponendo il trasferimento a un’altra struttura».




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Appellarsi al Concordato

Una base giuridica per invocare un’eccezione, secondo l’Aris, è il Concordato.

L’articolo 7 comma 3 della legge 20 maggio 1985 che lo regolamenta riprende esattamente e integralmente l’ articolo 7 della revisione concordataria, il cui comma 3 recita: «Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime» (Avvenire, 12 dicembre).

La questione nutrizione e idratazione artificiale

Secondo il Comitato Bioetico della Rivista cattolica Aggiornamenti Sociali, la legge sul Biotestamento evita derive di eutanasia.

Una questione controversa, che prova a sciogliere positivamente il Comitato, riguarda la nutrizione e idratazione artificiali (NIA), che il progetto di legge, come abbiamo detto, include fra i trattamenti che possono essere rifiutati nelle DAT o nella pianificazione anticipata. «Nella riflessione cattolica,  si è spesso affermato che questi mezzi sono sempre doverosi; in realtà, la NIA è un intervento medico e tecnico e come tale non sfugge al giudizio di proporzionalità».

«Né si può escludere – prosegue il Comitato – che talvolta essa non sia più in grado di raggiungere lo scopo di procurare nutrimento al paziente o di lenirne le sofferenze. Il primo caso può verificarsi nella malattia oncologica terminale; il secondo in uno stato vegetativo che si prolunga indefinitamente, qualora il paziente abbia in precedenza dichiarato tale prospettiva non accettabile. Poiché non si può escludere che in casi come questi la NIA divenga un trattamento sproporzionato, la sua inclusione fra i trattamenti rifiutabili è corretta.




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Ma l’Accademia per la Vita ha una linea diversa

La pensa diversamente Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita. Nel corso di un incontro dell’Antea Associazione Onlus ha ribadito con forza che «soprattutto, anche qualora le terapie attive si rivelassero oramai inefficaci o sproporzionate, si dovrà comunque sempre continuare a prendersi cura del malato, attraverso l’adeguata palliazione dei sintomi e l’attenzione alla sua persona e a i suoi bisogni attraverso la cura della nutrizione, dell’idratazione e dell’igiene». Insomma, il malato «deve restare vivo fino alla morte, e non morire socialmente prima che biologicamente».

E «di fronte alle derive eutanasiche di oggi», la Chiesa «spinge a continuare ad aiutare il malato nel momento in cui la morte si approssima. Insomma, una cosa è aiutare a morire e altra cosa farlo morire. La vera dignità è quella che prova la persona fragile, malata, quando viene curata con delicatezza, tatto e accompagnata con affetto e generosa attenzione».

Al di là del dibattito, dei ricorsi al Concordato, di che sia giusto o meno decidere l’idratazione di un malato in stato vegetativo o terminale – e visto che ormai la legge è stata votata e diventerà operativa – cerchiamo almeno di coglierne il senso più autentico di essa. Perchè chiunque, un domani, potrebbe trovarsi nella condizione di dover decidere sulla propria sorte.

Accettabile se è corretto il rapporto medico-paziente

Il professore Adriano Pessina, Ordinario di Filosofia Morale e Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, contattato da Aleteia, pensa che la norma debba essere compresa correttamente per aprire una nuova pagina della bioetica. In sè la legge non è da bocciare, a patto che l’interpretazione del rapporto tra paziente e medico vada nella giusta direzione. Vediamo come.

«La legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento dovrebbe essere letta a partire da quelli che sono i caposaldi espressi nei comma 1 e 2 dell’articolo 1, dove si richiama sia la “tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione”, sia la “promozione e valorizzazione della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”».

Se questi sono i caposaldi della legge, prosegue Pessina, «allora tutta la questione, ritenuta centrale, del rifiuto o della rinuncia ai trattamenti, può essere letta e valutata senza drammatizzazione e senza allinearsi a quanti temono, o auspicano, che questa legge si trasformi nell’anticamera dell’eutanasia. Se si attua il comma 8 del primo articolo, che stabilisce che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”, si può pensare che i conflitti decisionali possano essere risolti entrando in merito alle situazioni concrete e personali».




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Se il conflitto non si risolve?

Laddove questo conflitto non si risolvesse, «è logico e moralmente giusto che la parola ultima spetti ad un paziente che si ritiene capace di comprendere il senso della propria decisione: la legge conferma questa impostazione. Ma non va sottovalutato il fatto che, qualora si debba decidere per conto di un minore o di un incapace, la legge prescrive che si deve avere “come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita” della persona nel “pieno rispetto della sua dignità” (art. 3 comma 2 e 3)».

Lo stesso discorso, conclude Pessina, «va fatto per le direttive anticipate: chi lo desidera potrà fornire indicazioni di trattamento sapendo che il medico le rispetterà se saranno congrue con la sua reale situazione clinica».


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Cosa può diventare la legge

Questa legge, chiosa il bioeticista, «può diventare uno strumento burocratico e il consenso informato un “pezzo di carta” da firmare per tutelare un contratto sanitario, oppure l’occasione per un processo di cura e di relazioni personali e cliniche costruito sulla consapevolezza di diritti e doveri che si inscrivono in quella risposta ai bisogni umani che affiorano nel tempo della malattia».

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