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Può Dio “indurre in tentazione”? La lezione di Papa Francesco

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Arda Savasciogullari | Shutterstock

Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 06/12/17

Rispondendo a una domanda di don Marco Pozza, Papa Francesco ha richiamato la recentissima adozione di una nuova traduzione per la preghiera liturgica del Padre Nostro in Francia. La bontà delle traduzioni è questione cruciale di un libro sacro aperto ad esse fin dalla propria “nascita”: il fatto è che ogni traduzione implica (ma richiede pure) la condivisione di una certa “aria”, di un'atmosfera condivisa tra chi scrive e chi legge (e chi traduce, ovviamente).
– «Non c’indurre in tentazione». Qui… ci sono degli amici magari non credenti, o anche credenti, che tante volte mi chiedono: «Don Marco, ma può Dio indurci in tentazione?».– Questa è una traduzione… non buona. I francesi hanno cambiato adesso il testo con una traduzione [buona]: «Non lasciarmi cadere in tentazione», perché sono io a cadere in tentazione, ma non è Lui che mi butta in tentazione per poi vedere come sono caduto. No, un Padre non fa questo, un padre ti aiuta a rialzarti subito. Quello che ti induce alla tentazione è Satana. Questo è l’ufficio di Satana.

Con l’intervista di don Marco Pozza a Papa Francesco, andata in onda poche sere fa su Tv2000, la traduzione del Padre Nostro – di cui da settimane si discute in Francia (e di cui abbiamo dato conto a suo tempo) – è entrata ufficialmente anche nel panorama italico.

Certo, da noi non c’è stata la viralità scatenata da un filosofo belloccio che snocciola in radiodiffusione nazionale delle involontarie istigazioni al terrorismo come fossero noccioline… in compenso, però, in Italia abbiamo il nuovo libro edito da Rizzoli in collaborazione con Libreria Editrice Vaticana, in cui si raccolgono i testi delle conversazioni del Pontefice col sacerdote. L’altra sera la conversazione era giunta alla fatidica “sesta domanda” del Pater, e il Santo Padre ha richiamato alla memoria il fatto che da nemmeno una settimana la Conferenza Episcopale Francese ha stabilito una nuova traduzione che varia appunto quella frase.




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Il philosophe belloccio figlio d’arte aveva pensato che si trattasse di una mossa di maquillage ecclesiastico in salsa anti-islamica, perché coi suoi occhi di non credente aveva visto soltanto che scompariva il verbo “sottomettere”, sorvolando ampiamente sul vero nocciolo della questione, che è tutta teologica e che don Marco ha riproposto al Papa nella sua durezza adamantina: può Dio indurci in tentazione?

No, Dio non ci induce in tentazione – il Papa l’ha ribadito chiaramente – e, ha aggiunto che questo è invece “l’ufficio di Satana”. Che Papa Francesco parli del diavolo come e più dei suoi ultimi predecessori è cosa che cade sotto il dominio della mera constatazione statistica: del resto ogni buon figlio di sant’Ignazio vive tutti i giorni della sua vita nell’attento e delicato esame delle “mozioni interiori” per vagliare prudentemente e discernere quali vengano dal “Nemico dell’umana natura”, invece che da Dio. Nessuna sorpresa, dunque, in questo.

La Lettera di Giacomo (preziosa gemma delle Scritture, purtroppo in generale poco frequentata dai fedeli) risponde con venti secoli di anticipo:

Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male.

Gc 1, 13

Come si vede, non è per una fregola modernista che si toccano e si ritoccano le traduzioni, ma per rendere al meglio – secondo la mens ecclesiæ che è la fede cattolica – il dettato del testo evangelico. E se ancora siamo qui a parlarne dopo circa due millenni, ciò non è perché siamo la prima generazione che se ne rende conto (tanto è acuta la nostra sensibilità morale!), bensì perché il testo greco del Pater, tanto nella versione “lunga” (matteana) quanto in quella “breve” (lucana) riporta inequivocabilmente la frase che si traduce grammaticalmente con “non ci indurre in tentazione”: e il verbo “εἰσφέρω” [eisfero] da cui viene la voce “εἰσενένκης” [eisenènkes] può essere tradotto “mandare”, “portare”, “indurre” e in molti altri modi, ma nessuna coloritura semantica varia la sostanza, cioè che Dio è l’agente di un’azione che ci espone al male.

Ora, poiché Giacomo ha certamente ragione (e anzi, la sua lettera – checché ne pensasse Lutero… – è pagina ispirata!), il senso di quel verbo non può essere coerentemente inteso come se Dio tendesse ad azioni sadiche: «Nessun padre lo farebbe», chiosa con giusta semplicità il Papa. E difatti Paolo scriveva ai Corinzi che

Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla.

1Cor 10, 13

Così Tommaso d’Aquino avrebbe spiegato che la predicazione di quel verbo nei confronti del Padre sta nel fatto che Dio – mai autore e origine del male – permette che subiamo le conseguenze di altri mali (e dunque gli autori sono altri – il più delle volte siamo noi stessi) e può esserne considerato “causa” solo in quanto si astiene dall’impedirlo («non quidem agendo aliquid, sed potius non agendo», Tommaso, In 2 Sententiarum, dist 37, q. 3, a. 1, solutio).

Ma la grammatica è quella che è, e come vediamo anche i più grandi teologi della storia possono (giustamente) fare le più raffinate distinzioni ma non osano intervenire su un testo che di per sé appare chiarissimo. Sul Corriere della Sera Gian Guido Vecchi ha oggi ricordato che

Simone Weil lo recitava ogni mattina nell’originale greco: «Questa preghiera contiene tutte le domande possibili, non se ne può concepire una sola che non vi sia racchiusa».

Un giudizio analogo a quello di sant’Agostino, che all’amica Proba ricordava:

Tutte le altre parole che diciamo, sia quelle che formula da principio il sentimento di chi prega per renderlo più vivo, sia quelle cui rivolge l’attenzione in seguito per accrescerlo, non esprimono altro se non quanto è racchiuso nella preghiera insegnataci dal Signore, se la recitiamo bene e convenientemente. Chi però dice cose che non abbiano attinenza con questa preghiera evangelica, anche se non prega illecitamente, prega in modo carnale e non so come quelle cose non si dicano in modo illecito, dal momento che ai rinati nello Spirito conviene pregare solo in modo spirituale. In realtà chi dice: Siiconosciuto fra tutti i popoli, come lo sei fra noi 47, e: Ituoi profeti siano riconosciuti fedeli 48, che altro dice se non: Sia santificato il nome tuo? Chi dice: O Dio delle virtù, convertici, mostra il tuo volto e saremo salvi 49, che altro dice se non: Venga il tuo regno? Chi dice: Guida i miei passi secondo la tua parola e non permettere che l’iniquità mi abbia completamente in suo potere 50, che altro dice se non: Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra? Chi dice: Non darmi né povertà né ricchezza 51che altro dice se non: Dacci oggiil nostro pane quotidiano? Chi dice: Ricordati, o Signore, di David e di tutta la sua mansuetudine 52, ovvero: Signore, se ho fatto questo, se c’è iniquità nelle mie mani, se ho reso male a chi mi faceva male 53che altro dice se non: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori? Chi dice: Allontana da me le passioni del ventre e fa che il desiderio dell’impurità non s’impossessi di me 54, che altro dice se non: Non c’indurre in tentazione? Chi dice: Strappami dai miei nemici, o Dio, e liberami da coloro che si levano contro di me 55, che altro dice se non: Liberaci dal male? E se passi in rassegna tutte le parole delle preghiere contenute nella Sacra Scrittura, per quanto io penso, non ne troverai una che non sia contenuta e compendiata in questa preghiera insegnataci dal Signore. Pertanto nel pregare ci è permesso domandare le medesime cose con altri termini, ma non dev’essere permesso di domandare cose diverse.

Agostino, ep. 130, 12. 22

Ora qui si nota un curioso paradosso: da una parte sant’Agostino, con questa sfilza di citazioni dai salmi, appare “più ebreo” di Simone Weil – che invece giudea lo era davvero; dall’altra Simone Weil appare “più greca” di Agostino – il quale in effetti aveva noti problemi con la lingua di Platone (anche se probabilmente erano tali perlopiù in confronto a contemporanei quali san Girolamo, mentre è presumibile che comunque fosse in grado di leggiucchiare le pagine bibliche in originale meglio di come facciamo noi). La questione, però, sta in altri termini: con quali parole e in quale lingua Gesù ha insegnato questa preghiera, che ci è giunta esclusivamente in due versioni greche indipendenti?

In aramaico, si dice, perché Gesù parlava l’aramaico. Probabile, certo, ma nient’affatto sicuro: se anche resta molto suggestivo ascoltare il Padre Nostro in aramaico, nulla vieta che anche quella fosse una traduzione (forse la prima?) delle parole che Gesù, da parte sua, potrebbe aver detto anche direttamente in greco. Oscar Wilde dedicò le prime pagine della sua lettera nota come De profundis (unica sua opera non scritta per la pubblicazione) a ribadire quanto fosse possibile che, in un contesto universalmente ellenizzato, anche Gesù sapesse parlare il greco, e che di fatto la κοινή [koiné] dell’Impero fosse in uso anche tra i discepoli del predicatore ambulante che fu l’“ebreo marginale” Gesù.




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A noi cosa resta?

A noi resta l’opera di fare nostra la preghiera di Gesù, e in questo le spiegazioni, i provvedimenti, gli stessi importantissimi studi filologici, esegetici e teologici possono risultare drammaticamente inutili: se uno ha fatto l’esperienza di un padre buono che «si getta al nostro collo mentre torniamo a casa sporchi e puzzolenti» (cf. Lc. 15, 20), costui sa cosa vogliano dire le “parole dure” che escono anche dalla bocca di Gesù. Chi non ha fatto quest’esperienza finirà invariabilmente, come il philosophe francese, a prendere lucciole per lanterne.

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