di Alessandro De Carolis
Un “viaggio è riuscito quando riesco a incontrare il popolo”. È la convinzione, peraltro ben nota, con cui il Papa chiude la conferenza stampa sul volo di rientro dal Bangladesh, iniziata mezz’ora dopo il decollo dall’aeroporto di Dacca. Una confidenza che Francesco sceglie personalmente di mettere a suggello dei 58 minuti trascorsi con i giornalisti, durante i quali affronta fra l’altro il dramma umanitario dell’etnia Rohingya, il tema deldisarmo nucleare, la possibilità – per il momento remota ma desiderata – di un viaggio in Cina:
“A me il viaggio fa bene quando riesco a incontrare il popolo dei Paesi, il popolo di Dio. Quando riesco a parlare, incontrarli o salutarli, gli incontri con la gente… Abbiamo parlato degli incontri con i politici (…) ma la gente, il popolo… Il popolo è proprio il profondo di un Paese. Quando riesco a trovare questo, sono felice”.
Che Francesco tenesse in modo particolare a condividere i pensieri a caldo sul suo 21.mo viaggio apostolico lo si capisce quando dopo pochi minuti sollecita espressamente “domande sul viaggio”, intervenendo in modo placido su quell’abitudine di alcuni media di coinvolgere il capo della Chiesa sui temi caldi dell’attualità quasi “dimenticando” le Chiese appena visitate.
E in effetti la prima domanda tocca subito il nervo scoperto di un argomento acceso da tempo sui media mondiali, riguardante il dramma del popolo Rohingya, “l’etnia più perseguitata del mondo”. I cronisti vogliono conoscere dalla voce del Papa cosa abbia portato a quel momento inatteso e intenso di venerdì scorso, quando ha abbracciato commosso un gruppo di profughi sotto gli occhi del pianeta. Un gesto di umanità, e un colpo di scena mediatico, giunto dopo settimane in cui molti avevano dibattuto sul perché Francesco avesse deciso di non pronunciare il nome di quell’etnia nei suoi discorsi ufficiali in Myanmar e Bangladesh.
Per spiegare il tutto, il Papa fa l’esempio di un adolescente che talvolta parlando con qualcuno si irrigidisce e sbattendo “la porta sul naso” rompe il rapporto. Per me, obietta Francesco, “la cosa più importante è che il messaggio arrivi”:
“A me interessa che questo messaggio arrivi. Per questo, ho visto che se nel discorso ufficiale avessi detto quella parola, avrei sbattuto la porta in faccia. Ma ho descritto le situazioni – i diritti, nessuno escluso, cittadinanza – per permettermi nei colloqui privati di andare oltre. Io sono rimasto molto, molto soddisfatto dei colloqui che ho potuto avere, perché è vero, diciamo così, non ho sbattuto la porta in faccia, pubblicamente, una denuncia: no; ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia e così il messaggio è arrivato”.
Francesco descrive i momenti vissuti al termine dell’Incontro interreligiosodi Dhaka. Dice di aver pianto con i Rohingya, in lacrime davanti a lui, e anche di essersi “arrabbiato” e aver chiesto per loro “rispetto” a chi cercava di farli andar via con troppa celerità dal palco. Racconta di come l’idea della preghiera finale che ha riunito tutti a semicerchio sul palco – una delle immagini “potenti” di questo viaggio – sia nata sul momento, suggeritagli dall’avere vicino dei leader di altre religioni, e poco dopo, sollecitato da una domanda, confessa pure di aver pensato di raggiungere il campo dei Rohingya ma di non aver potuto per problemi organizzativi.
Una domanda stimola il Papa sulla figura di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la lotta in favore della democrazia nell’ex Birmania e oggi al centro di giudizi controversi nella sua veste di Consigliere di Stato e ministro degli Esteri birmano:
“Nel Myanmar è difficile valutare una critica senza chiedere: è stato possibile fare questo? O: come sarà possibile fare questo? (…) La situazione politica… è una Nazione in crescita, politicamente in crescita; è una Nazione in transizione che ha tanti valori culturali nella Storia, ma politicamente è in transizione. E per questo, le possibilità devono valutarsi anche da questa ottica”.
Sulla visita del generale birmano, anticipata rispetto al programma, Francesco conferma di averlo ricevuto su sua richiesta e, riemergendo ancora la problematica sull’utilizzo o meno in quella circostanza del nome “Rohingya”, sottolinea con intenzione: durante quel colloquio “non ho negoziato la verità” e “ho usato tutte le parole che volevo dire”. Poi si passa al Bangladesh e un giornalista nota come Francesco sia stato più vicino ai Rohingya di tante altre formazioni, alcune di stampo terroristico, che invece – e il Papa lo stigmatizza – hanno cercato di “approfittare la situazione”. Per quanto mi riguarda, replica asciutto, “io non cerco di parlare con questa gente, io cerco di parlare con le vittime”.
Un collega di lingua inglese chiede cosa sia cambiato oggi rispetto a Giovanni Paolo II che nell’82 definì l’opzione nucleare “moralmente accettabile”, mentre Francesco l’ha recentemente condannata, sullo sfondo della crisi tra Nord Corea e Usa. Nella nostra epoca, chiarisce, “è cambiata l’irrazionalità”:
“Oggi siamo al limite: questo si può discutere, ma è la mia opinione; ma la mia opinione convinta: io ne sono convinto. Siamo al limite della liceità di avere e usare le armi nucleari. Perché? Perché oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità (…) Cosa è cambiato? Questo: la crescita dell’armamento nucleare (…) sono sofisticati e anche crudeli, anche sono capaci di distruggere le persone senza toccare le strutture… Siamo al limite”.
Una domanda posta in modo critico sonda il Papa sul tema dell’evangelizzazione, che in alcuni contesti può creare “tensioni”. Francesco, citando Benedetto XVI, ribadisce che la “Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione.
Quindi il discorso tocca il capitolo dei viaggi apostolici, quelli messi in preventivo ma poi rinviati come l’India – il Papa ammette che la vastità del subcontinente ne richiederebbe uno specifico – e quelli al momento solo un’idea e forse qualcosa di più:
“Il viaggio in Cina non è in preparazione (…) Mi piacerebbe, non è una cosa nascosta. Le trattative con la Cina sono di alto livello culturale (…) Poi c’è il dialogo politico, soprattutto per la Chiesa cinese, con la questione della Chiesa patriottica, la Chiesa clandestina, si deve andare passo passo, con delicatezza, come si sta facendo (…) con pazienza. Ma le porte del cuore sono aperte” (Qui il resto della conversazione tra il Papa e i giornalisti).