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Il “Dio neutro”: una polemica svedese che ci parla (anche) delle fake news

Antje Jackelen, new archbishop of the Church of Sweden – AFP – fr

© PONTUS LUNDAHL / TT NEWS AGENCY / AFP

New archbishop of the Church of Sweden Antje Jackelen attends her installation mass at the Uppsala Cathedral, on June 15, 2014. The Lutheran Church of Sweden elected on October 2013 a woman as its leader for the first time in the institution's history. AFP PHOTO / TT NEWS AGENCY / Pontus Lundahl ++ SWEDEN OUT

Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 01/12/17

Hanno fatto discutere le recenti dichiarazioni di Antje Jackelen, volte a proibire ai protestanti di Svezia di riferirsi a Dio con appellativi, epiteti e perfino pronomi maschili. In realtà simili proposte apparentemente originali sono solo banali, contraddittorie e gravemente pericolose per i fondamenti della Rivelazione cristiana. Il caso si è arricchito di una (parziale) correzione… che però i media non hanno voluto recepire. Ci sono dunque almeno due grandi lezioni da ritenere…

Questa storia delle fake news rischia di avere un contraccolpo epocale di cui faticheremmo perfino a immaginare le proporzioni: ogni regime ha avuto (o ha) i propri organi di stampa, quasi sempre mentre ha attuato (o attua) un’emarginazione, se non una repressione, delle testate libere e dissidenti.

Le avvisaglie di una tempesta mai vista prima

Quello a cui stiamo assistendo, però, pare al di là del (pur tremendo) scenario dei totalitarismi “classici” descritti da Hannah Arendt: il nuovo “Ministero della Verità” con facoltà di “tagliare la connessione” si colloca a metà tra i futuri distopici di George Orwell e dei fratelli Wachowski. Se poi a vagheggiare di fake news è un mondo apertamente e titanicamente avverso all’idea di verità, c’è da chiedersi quale mai possa essere il fondamento in base al quale si decide se una notizia è vera o falsa.

I “progressi” della neolingua, ad esempio, sono tali e tanti da rendere sospetto di propalare fake news anche questo stesso articolo che state leggendo: tra il 1999 e il 2003 io vidi la trilogia di Matrix e appresi che i suoi registi, nonché scrittori e sceneggiatori, erano i fratelli Laurence (detto Larry) ed Andrew Wachowski; oggi Wikipedia parla di “Lana” e “Lilly” Wachowski, per cui si usa la denominazione di “sorelle”. In realtà, i due sono semplicemente diventati dei transessuali, ma anche qui la neolingua impone di fatto alla comunicazione mediatica di uniformarsi a un ben preciso codice linguistico, il quale (in Italia come all’estero) impone ad esempio di riferirsi ai trans secondo il fenotipo della riassegnazione sessuale eseguita. Dunque le Wachowski sono due sorelle. Dunque questo articolo ha scritto il falso, affermando che si tratta di due fratelli. Dunque quando i motori di ricerca dovranno assegnare un “punteggio” a questa pagina, perché nel mare magnum dell’Internet gli utenti possano trovarla, evidentemente glie ne assegnerà uno molto basso, e lo Uniform Resource Locator (decisamente meglio noto come “url”) scivolerà in fondo a una lista di molti altri url – in tal senso è emblematico che Wikipedia si sia allineata alle direttive del Grande Fratello.

Finché si tratta di decidere che si debba parlare dei fratelli o delle sorelle Wachowski, la cosa non appare decisiva, in fin dei conti: ma la questione è quella che accennavamo sopra, cioè chi e come potrà garantire le libertà (individuali e collettive), quando un mondo inzuppato di pensiero debole sceglierà di decidere che cosa è vero e che cosa è falso? Fatalmente, gli uomini più potenti del mondo avranno ampio accesso ai bottoni di quel tavolo (ma diciamo pure il monopolio), e così la verità non sarà più l’accordo della ragione umana con i fatti da lei giudicati, bensì il consenso di alcune parti. L’adagio scolastico “il consenso non fa la verità” sarà esplicitamente capovolto in “nient’altro che il consenso fa la verità”, e a quel punto la parola “verità” sarà il nome di un’oligarchia liberticida.

Che diranno della risurrezione di Gesù? Non potranno giudicarla la più colossale fake new della storia? E che fine faranno, nelle indicizzazioni telematiche, informazioni a riguardo, quando anche il rigore storico sarà narrato dalla controparte – quella col coltello dalla parte del manico – come un complotto ordito (dalla Chiesa, dalla Massoneria, da Super Pippo…) per dominare le coscienze? Sarà il classico caso del borseggiatore che scippa il malcapitato mentre lo mette in guardia dalle inesistenti cattive intenzioni di un onesto signore seduto al suo posto sul tram.

Quest’ansia di fondare un orwelliano Ministero della Verità non dovrebbe lasciare tranquillo nessuno, specie quelli che della vera verità hanno il culto: la nuova censura sarebbe tanto facile ed efficace quanto spegnere un circuito elettrico. La prossima persecuzione comincerà con l’istantaneo e immediato silenziamento (poi comunque si arriverà al sangue, inevitabilmente) – e la religione dell’incarnazione non dovrebbe farsi accalappiare con tutti gli altri nel mondo virtuale, anzi dovrebbe elaborare pensiero e strutture per liberare anche loro… 

Incertezza e ambiguità del “registro delle fake news

Certo a nessun informatore onesto piace dare notizie false (solo darne di cattive è quasi altrettanto spiacevole), ma nel contesto del sapere umano alle informazioni si accede per via dialogica, e ad ogni passaggio di dati si accumula una più o meno marginale possibilità di errore. Si può, certo, fare attenzione, anzi si deve, ma le dichiarazioni non sono e non possono chiudere la partita. Il discorso è sottile e seducente, sinuoso e insidioso: un caso di recente cronaca ecclesiale lo testimonia in modo eminente, essendo da un lato assurto a notizia mainstream (cosa che normalmente non accade alle notizie ecclesiali che non girano solo in Italia e/o non riguardano il Papa), e dall’altro costituendo un’imbarazzante evidente contraddizione con le stesse norme da applicare in caso di fake news.

Parliamo delle dichiarazioni di Antje Jackelen, “arcivescova” della comunità luterana in Svezia:

Teologicamente […] sappiamo che Dio è al di là delle nostre determinazioni di genere, Dio non è umano.

Parole che sono state riportate nelle agenzie maggiori del mondo occidentale, e che da lì sono state tradotte e riversate in innumerevoli articoli di altrettante testate giornalistiche. Ad aumentare il rilievo della cosa si è aggiunta la replica eccellente di Christer Pahlmblad, docente di teologia (nella fattispecie, di ecclesiologia e di missiologia) presso la Lunds Universitet, che ha criticato a fondo l’opportunità, l’intelligenza e la prudenza (ma diremmo pure la semplice verità) delle parole della discordia:

Le sue dichiarazioni destabilizzano la dottrina della Trinità e la comunione con le altre Chiese cristiane. […] Non è cosa ben pensata, che la Chiesa di Svezia diventi nota come quella che non rispetta la comune eredità teologica.

E non mi stupirei di leggere repliche al professore che lo accusassero di fare della teologia un instrumentum regni del conservatorismo maschilista, ovvero delle più radicali accuse che indichino nella dottrina cristiana un’emanazione storica del Maschilismo (con la M maiuscola, un po’ fascista pure, quasi fosse l’iniziale di “Mussolini”!). Quasi tutte le “teologhe” che amano definirsi “teologhe femministe”, in realtà, condividerebbero una simile lettura, ma proprio per questo cadrebbero anch’esse in un’evidente contraddizione perché, mentre pretendono che Dio sia genderless, stabiliscono di fatto nell’identità di genere un luogo teologico – ove all’acuta osservazione di Pahlmblad si rispondesse con un: «Tu stai solo difendendo i tuoi privilegi di oppressore maschio».

La signora Jackelen avrebbe rivendicato con orgoglio di star raccogliendo oggi frutti di una lunga campagna di “sensibilizzazione”, avviata nella Conferenza del 1986… ma perché all’improvviso uso il condizionale? Perché il 25 novembre sul sito ufficiale della Svenska kyrkan (la chiesa nazionale luterana svedese) è comparso un comunicato di smentita (ritoccato con modifiche datate fino al 30!) che riportiamo per intero:

I media hanno divulgato informazioni scorrette, in Svezia e all’estero, riguardo al linguaggio inclusivo del nuovo libro dell’Ufficio divino, che è appena stato adottato dal Sinodo Generale. La presidente del comitato per il Culto, Sotika Pedersen Videke, chiarifica comunque alcuni fatti. «Naturalmente, le espressioni tradizionali della fede cristiana restano, nel nuovo libro per il culto. Comunque sono stati aggiunti alcuni modi per indirizzarsi a Dio al neutro, in alcune preghiere» – dice. «In ebraico lo Spirito Santo è grammaticalmente un nome femminile, e così anche nel Libro per il Culto Svedese, che segue la nostra traduzione della Bibbia del 2000. Per esempio, nell’introduzione al culto, ci sono tre differenti opzioni. Due fra queste contengono il tradizionale “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito”, usando “Spirito” nella sua forma femminile. La terza alternativa è “Nel nome del Dio Unitrino”. «In ultimo: in svedese esiste ormai un pronome ufficiale di genere neutro: “hen”. Questa parola non è affatto usata nel Libro per il Culto» – dichiara Sofija Pedersen Videke.

L’anomalia rispetto alla procedura che si va stabilendo in caso di fake news (che amplifica e rafforza generalmente quella vigente sulle ordinarie rettifiche giornalistiche) vuole che la testata che abbia divulgato fake news riporti ufficiale smentita nella medesima pagina e con identica evidenza rispetto alla prima. Ne va della buona fama di eventuali soggetti lesi, nonché della serietà della testata e dei giornalisti coinvolti. Ecco, in un caso così “globale” ciò non è stato fatto, e a quanto abbiamo potuto constatare la dichiarazione dell’ente “Chiesa Svedese” non è stata riportata dalle agenzie e dalle testate che avevano propalato la prima notizia. Come si capisce, ciò pone l’ulteriore problema della verificabilità e dell’oggettività delle smentite: lo stesso comunicato non afferma, infatti, che le parole di Antje Jackelen sarebbero state inventate o distorte, in toto vel in parte; né risulta che il professor Pahlmblad abbia rilasciato ulteriori dichiarazioni (ed è impensabile che un accademico serio parli con la stampa senza essersi sincerato della consistenza dei fatti che commenta).

Ipoteticamente, un giornalista avrebbe ancora il diritto di indagare, fare domande e inchieste (se necessario anche in incognito), visionare dati, reperti e prove; e poi avrebbe il dovere di pubblicare quanto fosse risultato dalla sua attività professionale. Una smentita ufficiale, però, dovrebbe essere riportata almeno dagli organi di stampa già intervenuti. Il fatto che ciò non sia stato fatto – lo ripetiamo – aumenta la sensazione di incertezza e di precarietà circa le fake news: l’episodio valga da campanello di allarme, in particolare, per i cristiani.

Il nostro contributo

Se le prime dichiarazioni, comunque, sono state più o meno correttamente riportate da tutte le agenzie e dai notiziari – dalla Associated Press in giù – forse il contributo specifico che su queste pagine possiamo dare è illustrare in cosa il prof. Pahlmblad colga nel segno (e in definitiva cosa c’entri il “sesso di Dio” con la Trinità).

L’umanità di Dio

Una cosa che però va premessa è questa: se pure nel Grande Lessico dell’Antico Testamento la parola אֱלוֹהִים [Heloîm, Dio] si definisce nel suo semantema anzitutto per esclusione, cioè come “ciò che non è uomo”, e questo a partire soprattutto da diversi testi profetici; nondimeno uno dei primi e più sconvolgenti attributi che i giudeo-cristiani rivendicarono per il loro Dio, in mezzo a un mondo pagano, era la sua φιλανθρωπία [philantropía], che volentieri i latini hanno espresso con la parola humanitas. Sì, Dio è umano.

Naturalmente “φιλάνθρωπος/humanus” significava anzitutto “benevolo verso gli uomini” – e per gente abituata a pensare che l’unica divinità amica degli uomini, Prometeo, fosse stata per codesto sentimento di compassione punita da Zeus… questa era una novità inaudita! – eppure c’erano almeno altri due motivi per cui gli apologisti avrebbero difeso con i denti l’affermazione dell’umanità di Dio, quella che ora, forse, qualcuno vorrebbe ipotecare.

La prima è l’eterna predestinazione dell’incarnazione: ciò per cui – a differenza di eminenti dottori come Tommaso d’Aquino – teologi come Ireneo affermavano che il Figlio di Dio si sarebbe incarnato anche se Adamo non avesse peccato. Non riesco neppure a immaginare cosa avrebbero risposto costoro alla domanda: «Ma il Verbo di Dio non si sarebbe potuto incarnare in una donna? Gesù doveva necessariamente nascere uomo?». Penso che sulle prime avrebbero strabuzzato gli occhi, per poi rispondere ampiamente su questi tre punti:

  1. Gesù è nato maschio, e questo è un fatto contro il quale nessun argomento tiene – se c’è un sesso che sicuramente e in senso pieno appartiene a Dio, questo è il sesso maschile;
  2. ᾽Υιός [Üiós] indica specificamente il “figlio maschio”: inoltre Λόγος [Lógos] è una parola di genere maschile, esattamente come Θεός [Theós]: pretendere di poter usare la parola “Dio” ma non “Signore” e i relativi pronomi (personali, relativi…) maschili senza cadere in una grossolana contraddizione è meno da eretici che da ignoranti;
  3. Tornando al primo Testamento, peraltro, fin dalle prime pagine si afferma apertamente che è l’uomo a essere creato a immagine di Dio – e fin nella sua natura sessuata: «A immagine di Dio lo creò; maschio e femmina lo creò» (Gen. 1, 27).

Ma che c’entra la Trinità?

Qualcuno potrà ora osservare che le obiezioni finora esposte vertono più sul versante cristologico che su quello trinitario: come a dire che Gesù è vero uomo e quindi c’è un che di mascolino in Dio, non foss’altro che Cristo è irriducibilmente maschio e che – pur beneficiando dell’esperienza di maternità e paternità che si fa in famiglia – nella sua predicazione ha sempre chiamato Dio invariabilmente “Padre” (e “papà”).

Tutto vero, e tuttavia va pure ricordato che la letteratura profetica, normalmente caratterizzata da un Dio che è Signore, re, guerriero, giudice, talvolta padre e sposo… è pure quella che qua e là apre squarci inaspettati al femminile di Dio (in Svezia farebbero molto bene a leggere Il femminile di Dio di Luisa Muraro – avercene di simili femministe!):

Come una madre consola il figlio,

così io vi consolerò.

Is. 66, 13

Una bella immagine, sì dirà: tanto ardita quanto rara. Il che è meno vero di quanto possa sembrare, se la patriarcale lingua ebraica (come si faccia a definire patriarcale un popolo che riconosce la genealogia solo in linea materna è mistero rilevato unicamente negli scritti delle femministe…) usa il plurale di astrazione רַחֲמִים (rehamîm, alla lettera “le viscere materne”) per esprimere la misericordia, l’attributo sovrano di Dio. Anche la lingua greca, signoreggiata dagli aedi, dai filosofi e dai politici, usa il verbo σπλαγχνίζω (splanchnízo, alla lettera “mi si contrae l’utero”) per dire “muoversi a compassione”.

Molto di più, in un lampo di audacia divina il quarto Vangelo dice apertamente che il discepolo amato (cioè Giovanni, cioè ogni buon destinatario dell’Evangelo) «riposava nell’utero di Gesù» (Gv. 13, 23). Sì, lo so che se andate a controllare trovate scritto che «gli stava vicino»: è che i traduttori non sanno mai come rendere quella frase senza offendere le pie orecchie, ma il termine che l’evangelista usa in quel passo non è neppure il generico (e spesso figurato) σπλάγχνα [splánchna], di cui abbiamo detto, bensì il dettagliato e tecnicissimo χόλπος [chólpos, da cui “colposcopia”, “colpotomia”, “colpectomia” e i tanti termini di scienza ginecologica che tutti, per esperienza diretta o indiretta, conosciamo]. Dunque Gesù ha un utero? Pare di sì, se ascoltiamo più le Scrittura che le ideologie di moda della nostra età secolare, sazia e disperata.

Gesù ha un utero, certo, perché ricapitola in sé tutta l’umanità, dove «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna» (Gal. 3, 28) – è l’uomo perfetto a immagine del quale Dio fece l’uomo «maschio e femmina» (in ebraico il pronome di quel versetto è singolare, non plurale: si riferisce all’homo, non al vir o alla mulier).

Dio è neutro? Semmai è “utro”!

Ma se c’è spazio per la femminilità nel Figlio incarnato (che comunque – a scanso di equivoci – è vero uomo in tutti i sensi, certo non un ermafrodito), a maggior ragione c’è spazio per la femminilità nella natura stessa di Dio, a cui le Scritture riferiscono i tratti della mascolinità e quelli della femminilità ben prima che si giunga alla “pienezza dei tempi” (Gal. 4, 4) con l’Incarnazione.

Origene ci ha conservato un passo suggestivo di un “Vangelo degli Ebrei”, altrimenti perduto:

Ed ora lo Spirito Santo, mia madre, mi prese per i capelli e mi trasportò sul grande monte Tabor.

Ovviamente è Gesù che parla, e chiunque abbia orecchio per le Scritture riconosce un’eco di Ez. 8, 3, dove “uno spirito” afferra il profeta per una ciocca dei capelli e lo porta a Gerusalemme. Ora non c’interessa parlare del perché Origene tenesse in considerazione quell’antico e singolarissimo testo: c’interessa l’affermazione esplicita – peraltro riscontrabile altrove – della femminilità (e della maternità) dello Spirito (del resto רוח [rûah, alla lettera “soffio”, “vento”, “spirito”] è sostantivo femminile in ebraico).

Qualcosa (anzi molto) dobbiamo anche agli gnostici

Gli gnostici – primi veri responsabili di una germinale teologia trinitaria nella storia del cristianesimo – seppero ben mettere a frutto le suggestioni date dalla lingua ebraica e dalle vicende famigliari del Messia, che dalla storia di Gesù venivano proiettate nell’eternità. Così leggiamo nell’impagabile Adversus Hæreses di Ireneo di Lione che gli gnostici valentiniani vedevano in una coppia primordiale fatta di un eone maschile (βύτος [bytos], cioè abisso) e un eone femminile (συγή [süghé], cioè silenzio) la promanazione teogonica del principio divino che sarebbe divenuto il Λόγος [lógos], cioè il Figlio, ossia – stando a Teodoto – il pleroma stesso. C’è un elemento di paternità, in Dio, e uno di maternità, e benché non abbiamo mai dubitato che la somma luce si levi «tanto […] / da’ concetti mortali» (Pd. XXXIII, 67), riconosciamo che è lo stesso Dio, rivelandosi, a invitarci a parlare dell’indicibile. L’elemento maschile e quello femminile corrispondono infatti a un versante “dicibile” dell’esperienza religiosa (ciò che si chiama tecnicamente “teologia catafatica”) e a un versante “ineffabile” della stessa (che ai teologi piace chiamare “teologia apofatica”). Proclamare un apofatismo assoluto significherebbe letteralmente castrare il Lógos, cioè negare de facto e de iure la possibilità di esprimere in concetti umani «un poco di quel che» Dio mostra (cf. Pd. XXXIII, 69). Se invece la Rivelazione cristiana è sufficientemente coerente, nella tensione di tutti i suoi paradossi, da risultare complessivamente attendibile e credibile, per la ragione umana, allora bisogna riconoscere che – lungi dall’essere banalmente assenti – maschile e femminile sono archetipicamente presenti, in Dio, in un nodo inestricabile che si riverbera fin nelle due famose mani del Padre misericordioso di Rembrandt, nonché in mille altre meraviglie promanate a cascata dalla Fede in Gesù.

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Allo stesso modo la suggestiva Lettera a Flora dello gnostico Tolomeo, discepolo di Valentino anch’egli, raccomanda a Flora (quasi una Filotea dell’antichità cristiana), di “non rompere la sizigia”. «Qualunque cosa accada, Flora, non rompere la sizigia. E che diamine sarà, codesta sizigia, tanto da meritare una così accorata raccomandazione? Συζυγή [süzüghé] significa “coppia”, in greco: la teogonia gnostica si regge tutta sulla riproduzione innumerevole di quel primo elemento teogonico che è l’incontro tra il Padre e lo Spirito da cui promana il Figlio. Sì, lo so che il modello trinitario affermatosi in seguito vede la processione dello Spirito dal Figlio, oltre che dal Padre, ma bisogna pur riconoscere con onestà che il Filioque fu introdotto nel Simbolo niceno-costantinopolitano da Carlomagno contro il parere di Papa Adriano, e che se certi sinodi visigotici ne davano un’interpretazione accettabile i cristiani ortodossi d’Oriente avevano anche le loro ragioni per continuare a rigettarlo fino ai nostri giorni. Le prime teologie trinitarie, in realtà, hanno creduto di riconoscere nello Spirito l’elemento femminile di Dio dal quale sarebbe eternamente generata la Parola che è il Figlio. Tracce scomparse dalla storia delle definizioni dogmatiche, sì, ma i cui effetti restano riconoscibili nella storia dell’ascesi e della mistica – che in fondo è il cuore della storia della Chiesa.

Quale spazio al “genio femminile” nella Chiesa

Questo intendeva il professor Pahlmblad quando stroncava le (comunque non smentite) dichiarazioni della signora Jackelen; questa antica e nobile corrente conosceva a menadito Hans Urs von Balthasar nel ricordare che la Chiesa ha già un principio mariano che sussiste accanto a un principio petrino. Ma Maria parla poco, pochissimo, nelle Scritture – come la primordiale Συγή, che dello Spirito vivificante è impronta. Così Maria si comporta nel Cenacolo come Paolo raccomanda alle donne di Corinto (1Cor 14, 34-35) e come si legge nella lettera al discepolo Timoteo (1Tim 2, 12). Così i certosini e le carmelitane dilatano l’utero di Cristo nel mondo, mentre i vescovi e le badesse fecondano comunità inseminando la Parola di Cristo nelle anime: e il Dio cristiano può mai essere creduto genderless? Sarà mai un Dio neutro?

Torni alle Scritture, chiunque fosse confuso in merito:

cacci nella polvere la bocca:

forse c’è ancora speranza.

Lam. 3, 29

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