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Leggere i Paradise Papers in chiave cattolica

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Padre Lawrence Lew, O.P.(CC BY-NC 2.0)

Alfa y Omega - pubblicato il 29/11/17

Il bambino non ha neanche pianto per la prima volta che l'80% del suo risultato economico nella vita è già determinato da quello dei suoi genitori

di Raúl González Fabre, S.J.

La pubblicazione dei Paradise Papers, notizie filtrate di documenti riservati di studi internazionali e paradisi fiscali, rimette in gioco la questione del pagamento delle tasse dove si generano i guadagni corrispondenti. Grandi personaggi della politica, del mondo degli affari e di quello dello spettacolo appaiono nei documenti dei paradisi fiscali per eludere questo obbligo morale senza – nella maggior parte dei casi – violare chiaramente la legge. Questa alchimia dell’immoralità nella legalità è realizzata da consulenti fiscali esperti.

Pagare le tasse fa da sempre parte della vita morale dei cristiani. San Tommaso d’Aquino e i suoi seguaci, ad esempio, sostenevano che pagare le imposte è un dovere di giustizia dei cittadini, e usarle bene è un dovere di giustizia dei governanti. In entrambi i casi, l’idea del bene comune permette di discernere ciò che è giusto e ciò che non lo è. Si noti che non si parla della convenienza individuale né della qualifica legale dell’atto, ma del bene comune.

Uno degli aspetti fondamentali del bene comune consiste nell’uguaglianza di opportunità per la vita economica. Dal punto di vista dei cittadini è un ideale: non avremo mai tutti le stesse opportunità, ma tutti possiamo muoverci o meno in direzione dell’uguaglianza di opportunità – possiamo renderci più uguali o più diversi.

Una grande preoccupazione del magistero sociale della Chiesa, di cui Papa Francesco parla spesso, consiste nell’aumento della disuguaglianza in molte società contemporanee. È una disuguaglianza che si diffonde a livello generazionale, perché non nasciamo adulti e perché una percentuale delle nostre entrate nel corso della vita si spiega con quelle dei nostri genitori.

In chiave di raccolta

La cosa giusta sarebbe che le nostre entrate personale dipendessero da opzioni, sforzo, meriti, ecc., non tanto dal fatto di essere nati in una famiglia ricca o povera, in un Paese più o meno sviluppato. Nel nostro mondo, però, la disuguaglianza ereditata è circa dell’80%. Il bambino non ha neanche emesso il suo primo vagito che già l’80% del suo risultato economico nella vita viene statisticamente determinato da quello dei genitori.

La disuguaglianza non si gioca solo su come lo Stato spende il denaro (quali servizi di base di istruzione, salute e benessere sociale offre ai propri cittadini), ma anche su come lo raccoglie. La disuguaglianza diminuisce se chi ha di più contribuisce maggiormente alla cassa comune, dalla quale poi escono le spese di cui beneficiano i meno abbienti. Due principi fondamentali sono la capacità (che dove se ne ha la possibilità si contribuisca alla cosa pubblica) e la progressività (che nei segmenti più alti con maggiori capacità si paghi proporzionalmente di più che in quelli inferiori).

Le ingiustizie tipiche in questo campo vengono chiamate evasione fiscale (non pagare le tasse che spetterebbero legalmente) ed elusione fiscale (sfuggire dalle imposte con escamotages legali, ad esempio fatturando in paradisi fiscali). Sono ingiustizie associate a uno stato della legge civile, che si viola o si elude.

Nella concezione cattolica la legge non definisce la giustizia morale; la giustizia viene prima e la legge deve obbedirle. Un altro problema di giustizia si può porre se le norme legali non sono del tutto giuste – ad esempio, se la raccolta delle imposte si basa più sul consumo (a cui i poveri dedicano tutto ciò che guadagnano) che sulle entrate, o se le imposte sono più sul lavoro (la fonte delle entrate di poveri e classe media) che sul capitale (dal quale traggono entrate apprezzabili solo i più abbienti), o se il patrimonio (in cui la disuguaglianza è superiore che nelle entrate) finisce per essere quasi esente…

Consideriamo un altro aspetto: il bene comune esige non solo una certa equiparazione tra i cittadini, ma anche uguali condizioni per tutte le imprese, di modo che queste ottengano dei vantaggi competitivi, e quindi più mercato e maggiori guadagni, dalla loro produttività, innovazione, ecc., ovvero dal loro migliore servizio alla società. Non, ad esempio, dal pagare meno imposte fatturando in Paesi diversi da quelli in cui generano i propri affari, non servendo così nel società in cui operano. Qualunque sia la qualifica legale, dal punto di vista morale è ingiusto, perché rappresenta una concorrenza sleale nei confronti di chi non ha altro rimedio che pagare lì le proprie imposte, e perché priva la società di risorse necessarie per i servizi di base che promuove l’uguaglianza sociale.

La giustizia economica è un gioco a vari livelli. Comprare prodotti più economici perché il nostro fornitore risparmia le imposte corrispondenti nella nostra società ci rende beneficiari e partecipi della sua ingiustizia. Nella concezione cattolica, la giustizia morale non costituisce in primo luogo un’arma per censurare l’altro, ma una sfida a cui adattare la nostra azione per renderla positiva agli occhi di Dio. Anche nel caso della discussione sulle imposte.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

Tags:
dottrina sociale della chiesaeconomiaevasione fiscale
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