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Chi sta usando chi? Alcune domande e diverse risposte sul rischio di dipendenza da connessione

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Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 28/11/17

Il vero lusso, oggi? Poter disporre, da signori del proprio “castello”, della risorse più rigida, limitata, incerta e preziosa che ci è data: il tempo

Una riflessione che forse in molti facciamo da un po’. Ma tutta la para-libertà, la così decantata “accessibilità” a servizi, informazioni, contenuti, divertimento, scambi di opinioni direttamente su una tavoletta con lo schermo sensibile al nostro tocco, siamo sicuri che non ci stia togliendo qualcosa mentre ci sta dà in un certo senso troppo?

Avere internet in tasca ci assicura uno tsunami di dati. Ci espone all’invadenza nella sfera personale da parte di tutti. Ci rende reperibili, se non diventiamo intelligentemente accorti, a tutte le ore e ovunque. Queste nuove possibilità hanno dilatato forse al di là della reale “prossemica” che siamo in grado di gestire il numero delle relazioni.

E la poco pia illusione del “tanto ci vuole un attimo, lo faccio da smartphone” ci ha sequestrato, qualche manciata di secondi o minuti alla volta, intere ore o giornate. Certo non per tutti è così. Ma, riflettiamo sinceramente…quale tipo di reazione registriamo in noi se smartphone o tablet non sono alla nostra portata? Se ce li rubano? Se dobbiamo portarli a riparare?

Prendo spunto dall’ottimo servizio pubblicato nel numero di dicembre della rivista BenEssere, la salute con l’anima (edita dalla San Paolo).

Alle pagine 100-101 della rivista ho trovato la risposta ad una domanda tutt’altro che leziosa che preme dietro e dentro la mia, forse anche le vostre, vita.

Sono io che uso i vari devices o forse a volte è vero il contrario?

Quanto tempo e attenzione mi prendono? So regolarmi? A cosa è dovuto il disagio che a volte si prova- o magari si infligge –  chiedendo e interpellando i propri contatti a tutte le ore non appena ci sorge l’esigenza di scoprire o fare presente una cosa?

E l’illusione di poter accedere a qualsiasi informazione perché “tanto c’è Google”, non sta incidendo pericolosamente su come leggo? Quello che imparo, come lo memorizzo? Su cosa credo di sapere? Non stiamo facendo una indebita equazione tra esposizione ai dati e conoscenza?

Questo pensiero è su di me, quarantenne, e con una dose maggiore di preoccupazione, sui nostri figli. Loro si formano così. “Vengono su” così, se non siamo attenti e non offriamo loro modelli adeguati.

Ma un modo c’è, per usare e non essere usati. Per godere dei vantaggi senza soccombere sotto gli ingombranti effetti collaterali. E la differenza la facciamo sempre noi e la nostra saggezza.

Dopo una seria e serena analisi del fenomeno il prof. Alessandro Antonietti, docente ordinario di psicologia all’Università Cattolica di Milano suggerisce dei passi:

Il primo, come sempre, è quello di misurare il problema: monitoriamoci, verifichiamo e quantifichiamo il tempo che spendiamo sul web e per quali cose. Una sorta di diario (lo stesso sistema che si usa a volte per rieducare la nostra alimentazione!). A che cosa avremmo potuto rinunciare? Per che cosa siamo stati così a lungo connessi?

In un recente libro, intitolato Irresistible e dedicato alla dipendenza dai social media, Adam Alter riporta che mediamente un lavoratore controlla la sua posta elettronica 36 volte ogni ora e che il 40 per cento della popolazione degli Stati Uniti soffre di qualche forma di Internet addiction. (p.100, BenEssere, dicembre 2017)



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Sono numeri impressionanti e lo sono non solo dal punto di vista della perdita di produttività, (questa, dobbiamo aspettarcelo, è la chiave di lettura privilegiata del mondo economico), ma per l’impoverimento di energie e di serenità che questo comportamento, definibile come compulsivo, provoca nella persona. Sono le persone stesse che lamentano una perdita di benessere. Essere continuamente sollecitati dalla rete senza soluzione di continuità tra lavoro e vita privata è una nuova fonte del caro vecchio stress.

In sintesi se di una cosa non possiamo proprio fare a meno è quella cosa “il boss”, non noi. È quella che possiede noi e non il contrario.

Osserva il professore con pacatezza ed equilibrio che se in USA si stanno già organizzando con corsi e centri detox dall’uso dei social media “senza arrivare a questi estremi, è pur vero che sta emergendo la necessità di educare ed educarsi a un uso corretto della tecnologia”.

Come?

Occorre decidere un ordine, dei limiti di tempo e degli spazi precisi. E attenersi ad essi, in un sano regime di autodisciplina.

Occorre stabilire criteri di priorità e importanza alle fonti e alle cose.

Uno dei difetti dell’alluvione di dati alla quale siamo sempre esposti è che rischiano di essere tutti allo stesso livello, tutti sullo stesso piano. Serve il nostro intervento, allora, la nostra discrezionalità per decidere quali mail sono importanti e quali no (non esiste solo lo spam, esistono anche cose accessorie, da guardare ogni tanto, da mettere in coda ad altre più importanti).

Servirà inoltre circoscrivere limiti di tempo. Il professore suggerisce l’idea della “banca del tempo”, una riserva di 30 minuti al giorno dalla quale attingere ad esempio per le ricerche su internet. Un altro tempo circoscritto per “stare sui social”.

Siamo in un’epoca così. La potenza dei mezzi a disposizione impone a noi di consolidare sempre più la capacità di governo. Di esercitare il nostro arbitrio, e che esso sia davvero libero!

Forse ci stupiremo di ritrovarci con riserve di tempo prezioso che prima veniva inghiottito senza nemmeno sapere bene il come né a che scopo. Forse potremo permetterci di indugiare su qualcosa, di perdere tempo nel silenzio, nel riposo, nell’ascolto, nella contemplazione. Nella lettura “vecchia maniera” una riga dietro l’altra, senza correre con l’occhio su e giù e in diagonale per farci un’idea sommaria.

Un altro criterio da governare a nostro vantaggio è quello dei luoghi. Se internet è accessibile – quasi – ovunque (ma osserviamoci quando non abbiamo il wi-fi!) per noi esseri umani in relazione i luoghi non sono tutti uguali. C’è un tempo e un luogo per ogni cosa, potremmo dire parafrasando.

Servono anche i luoghi e i tempi che siano in senso autentico wi-fi free: liberi dall’accesso a internet. A tavola (come non ripensare alla distinzione geniale tra table e tablet che fa Fabrice Hadjadj?); quando stiamo parlando con un’altra persona (no, non vale mettere la modalità silenzioso, il messaggio che non siamo totalmente per lui/lei arriva comunque) e quando ci concediamo momenti di relax.

Riscopriremo il lusso di dedicarci ad una persona alla volta, di essere tutt’occhi e tutt’orecchi per lui o lei. O per noi stessi. E per la preghiera! Per Lui. Di lasciare spazio all’indugio, alla lentezza, alle cose che non sono già dei “contenuti”. A tutti quegli aspetti “incoativi” della realtà e delle relazioni.

E quale tempo più opportuno che questo dell’Avvento? Che ci educa nell’attesa di Chi sta per arrivare, che si manifesterà piano piano, come un bambino, appunto: chi per sua stessa natura arriva per crescere.

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