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Ha ancora senso far penitenza con strumenti come il cilicio?

CILICE PENITENCE

Albert Lozano - Shutterstock

Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 22/11/17

Pellicole come Il nome della rosa, di J.J. Annaud, ci hanno inculcato l'idea che alcuni strumenti appartengano a una lontana mitologia medievale, forse soprattutto letteraria. Ogni volta che invece si scopre che un santo dei nostri giorni usava praticare simili mortificazioni ci si ripropone intatta la domanda: «Non è masochismo? Come si collega l'ansia di espiazione con la buona notizia del Vangelo?»

Di tanto in tanto si viene ad appurare, mano a mano che le carte di questo o quel santo vengono scoperte e lette e pubblicate, che lo stesso (o la stessa) faceva uso di penitenze corporali quali il cilicio. La cosa cade quasi a latere, senza destare particolari attenzioni, se il santo visse in un tempo lontano: «Si sa – pensiamo spesso noi quando non sappiamo le cose –, in altre epoche era naturale ciò che ora non si usa più». E difficilmente sapremmo argomentare la dismissione di un’usanza piuttosto che di un’altra, se non mediante quel tautologico riaffermare che – appunto – non si usa più. Vi sta sotteso un pregiudizio positivistico e storicistico, che sottintende come chiaramente sia un bene che “le usanze di un tempo” non si usino più – non foss’altro che perché furono un tempo.

La locuzione “è lo spirito del Concilio” suona poi come una ricorrente smaltatura che alla suddetta tautologia viene volentieri apposta in ambienti ecclesiali dei nostri giorni: non ci si flagella, oggidì, certo non più – è lo spirito del Concilio!

E mi ricordo senz’altro il pensoso maestro Elmar Salmann, che una volta ciondolò il capo acuto sopra la cattedra bofonchiando con amabile parlata teutonica:

Cuarant’anni fa, se incontravamo l’Apate nel korridoio, ci inginokkiavàmo finché non fosse passato… adesso gli ticiamo “Ciao!”. Non foglio dire che fosse meglio allora… o che sia meglio adesso… dico solo: riflettiamo! Cuando sono entrato in monastero ci flacellavamo… adesso ognuno ha la sua macchina!

Quelli che usano il cilicio… oggi

Dato che padre Salmann è tutto fuorché un uomo nostalgico, si capisce ancora meglio quanto possa sorprenderci la scoperta del cilicio di Paolo VI. Ma come! Il Papa della “Gaudete in Domino” – un’enciclica sulla gioia! – usava simili gadget medievali? Lo capiamo meglio rileggendo un’importante catechesi tenuta da Papa Montini per le Ceneri del 1966: attenzione, il febbraio del ’66 è ancora in piena scia di euforia conciliare e viene percepito lontanissimo dal 1968, quando la divaricazione tra il Maggio e la Humanæ vitæ avrebbe sancito la fine della gloria montiniana! Diceva dunque Paolo VI ai fedeli, quel 23 febbraio:

La Chiesa maestra non teme d’offrire ai fedeli suoi alunni lezioni tremende, come questa: quella della cenere, quella cioè della fine d’ogni cosa creata, quella della caducità fatale di quanto noi siamo e di quanto la nostra vita ama ed ammira, quella della sorte tragica e inesorabile, che soggiace, come un’insidia sempre in agguato, ad ogni più piena manifestazione della vita, l’insidia della morte che sta per divorare quanto abbiamo di più bello e di più prezioso; ed ecco la cenere, spenta e arida e misera conclusione di tutto il mondo della nostra esperienza vitale nel tempo, generatore e distruttore. […] Eppure questo non è un rito macabro e disperato. Si pensa al medioevo, quando all’alfabeto del pensiero molto servivano le cose sensibili, e quando la vita spirituale era considerata superiore ad ogni altra forma della nostra complessa esistenza. Ma l’origine di questo linguaggio simbolico risale più indietro, quando non a tutti i fedeli, come ora avviene, s’imponeva sul capo la cenere quaresimale, ma soltanto ai penitenti qualificati, ammessi così ad espiare pubblicamente le loro colpe dinanzi alla comunità dei fedeli e da essa in tal modo parzialmente segregati. Risale anzi ancora più indietro, ai primi tempi del cristianesimo, eredi essi pure d’una tradizione biblica, che associa appunto l’aspersione della cenere alla professione della penitenza, e vi aggiunge l’imposizione di una veste ruvida e povera di umiliazione, il cilicio (cfr. Esth. 4, 3; Matth. 11, 21). Vale a dire che l’uso di questo simbolo percorre tutta la tradizione dell’antico e del nuovo Testamento, e entra in quel robusto linguaggio che la divina pedagogia della salvezza impiega non già per sospingerci alla disperazione, ma alla conversione, alla penitenza cioè, principio e via della nostra riabilitazione e condizione per ricuperare ciò che da noi non più e non mai potremmo conseguire: la misericordia di Dio, la sua grazia, la nostra vita soprannaturale, l’unica in cui deve risolversi ogni nostra aspirazione.

“Alunno” viene da alere, cioè “nutrire”: e talvolta ci si nutre di “lezioni tremende”. Paolo VI accennò in quel contesto, pudicamente ma esplicitamente, al cilicio, «veste ruvida e povera di umiliazione», rimandando ai fondamenti scritturistici di Ester e al formidabile guai di Gesù contro Corazin e Betsaida.

Dunque il cilicio non è “una fantasia medievale”, quasi che faccia il paio con le mitologiche “cinture di castità” (più documentate nella letteratura carnascialesca e cavalleresca che realmente immaginabili nella realtà quotidiana): la “veste di sacco” è un segnale efficace e forte di penitenza.

Quali siano il significato e l’intento di una simile mortificazione cercò di esporlo immediatamente lo stesso Paolo VI:

Ci si può chiedere, noi moderni, se questa pedagogia sia ancora comprensibile. Rispondiamo affermativamente. Perché è pedagogia realista. È un severo richiamo alla verità. Ci riporta alla visione giusta della nostra esistenza e del nostro destino. Ci presenta la filosofia della sapienza. Essa sorprende l’uomo moderno sotto due aspetti: quello della sua immensa capacità di illusione, di auto-suggestione, di inganno sistematico di se stesso sopra la realtà della vita e dei suoi valori; e ci grida che siamo mortali e che dobbiamo dare una spiegazione soddisfacente a questa nostra sorte, la quale, se compresa e ben meditata, ci obbliga a rivolgere il nostro supremo interesse verso i valori che sfuggono alla condanna della cenere: i valori spirituali, i valori morali. E l’altro aspetto, sotto il quale l’uomo moderno è accessibile da questo crudo insegnamento, è il fondamentale pessimismo dell’uomo stesso. Si può dire che la maggior parte della documentazione umana, offertaci oggi dalla filosofia, dalla letteratura, dallo spettacolo, conclude per proclamare l’ineluttabile vanità d’ogni cosa, l’immensa tristezza della vita, la metafisica dell’assurdo e del nulla. Questa documentazione è un’apologia della cenere. Ma mentre essa nella cenere si affonda e sconsolata rimane, la lezione dell’ascetica cristiana dalla cenere risale alla speranza e alla vita, facendone strumento di penitenza, cioè di conversione, di cambiamento, di nuova ripresa di vigore e di gaudio.

Difficile aggiungere qualcosa a questa potente sintesi del Papa di Concesio: difficile pure spiegare tanta densità senza postulare una lunga riflessione, legata a sua volta a una lenta esperienza pratica personale. Visto che la parafrasi moderna l’ha così concisamente fatta Montini, quello che può interessarci resta allora una panoramica sulla storia della Chiesa.

Data la presente sede, la rassegna non potrà che limitarsi a pochi spunti, tuttavia non privi di molto interesse e di una qualche autorevolezza. Partiamo da san Girolamo.

Girolamo di Stridone

Il quale è noto soprattutto per essere il patrono dei traduttori e degli esegeti – e tra gli storici serpeggiano pure velenose osservazioni sul suo temperamento sanguigno e polemico fino all’esasperazione. Non tutti però sanno che a Roma, durante la sua permanenza, Girolamo coltivò una folta schiera di direzioni spirituali, addirittura raggruppate per famiglie, se non per “circoli” (né era l’unico: perfino Pelagio, nei medesimi anni, era richiestissimo nell’Urbe!). I malevoli insinuarono maliziosamente sulla prossimità del bisbetico dalmata alle belle matrone romane, a cui tanto insistentemente questi inculcava la modestia e la castità. Partito che fu per Betlemme, non mancò di tenere contatti con “le sue donne”, oltre che con gli amici (e coi numerosi avversari). Quando una di queste, chiamata Paola, morì, Girolamo dettò una lettera grondante lacrime (la dettò perché non riusciva a mettere mano alla penna senza piangere). Di lei l’eremita voleva dire ogni bene, e ricordò pure l’amore della matrona (già sposa e madre) per le penitenze corporali. Quella le aveva infatti scritto – Girolamo richiama le parole nell’Ep. 108 –:

Deve sporcarsi questa mia faccia, perché spesso da me contro il divino precetto è stata dipinta con rossetto, biacca e antimonio. Voglio affliggere questo corpo che si è dato a tanti piaceri. Convinee che un lungo riso da perpetuo pianto venga compensato. I molli lini e i drappi preziosissimi devono cambiarsi in aspri cilici.

Girolamo, Ep. 108, 15

E di tanto zelo (che avrà mai combinato – diremo noi – questa povera donna!) Girolamo si proclamò profondamente ammirato, ma non al punto da non biasimare in Paola l’intemperanza che la portava ad infliggersi dette penitenze non solo senza il parere di alcuna guida spirituale, ma talvolta addirittura contro l’avviso di Girolamo stesso e del vescovo Epifanio, che pure le corrispondeva. La lettera di Girolamo è singolarmente lunga e termina con un epitaffio che fu apposto sulla tomba della donna: sarebbe valsa da pietra miliare della direzione spirituale e della disciplina penitenziale. Ce lo ricorderà tra poco Francesco di Sales.

Benedetto da Norcia

Si parla parecchio, in questi mesi, della cosiddetta “Benedict option” (più negli Stati Uniti che da noi, in realtà): l’aspirazione a riproporre il “principio attivo” della Santa Regola – come Benedetto stesso riverentemente la chiamava – non può eludere il passo decisivo del rinnovato confronto con il testo stesso. Il quale sulla nostra materia mostra ancora una volta la propria lucida intelligenza. Scrive infatti Benedetto, il quale come il buon padre di Prov. 10, 24 “non risparmia il bastone” che ogni disciplina corporale dev’essere impartita «sempre con grande moderazione e buon senso» (R. 70, 5). L’irrogazione delle penitenze corporali, nel monastero, è quasi sempre prerogativa esclusiva dell’Abate:

Nel monastero si deve sopprimere decisamente ogni occasione di arbitrî e di soprusi; perciò dichiariamo che non è permesso ad alcuno di infliggere la scomunica o un castigo corporale a un confratello, senza l’autorizzazione dell’abate.

R. 70, 1-2

Una cosa interessante, però, è che il castigo corporale viene considerato al contempo “più elementare” e “più severo”. In che senso? Da una parte si legge:

[…] Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione. Se invece difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale.

R. 23, 4-5

E poche pagine dopo si trova:

Se un monaco, già ripreso più volte per una qualsiasi colpa, non si correggerà neppure dopo la scomunica, si ricorra a una punizione ancor più severa e cioè al castigo corporale.

R. 28, 1

Mentre il brevissimo capitolo 30 recita:

Ogni età e intelligenza dev’essere trattata in modo adeguato. Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica, quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano.

R. 30

Insomma, possiamo azzardarci a sintetizzare che la pedagogia benedettina considera la pena corporale ideale per quanti non sono in grado di cogliere la portata del provvedimento spirituale, ma che la riprende quando un orgoglio tracimante, dunque non inabile a comprendere il piano spirituale, gli resta nondimeno indifferente.

La penitenza personale, in tal senso, è solo lambita dalla Regola, perché s’intende disciplinata dai supremi principî di equità e di moderazione che ispirano la disciplina delle pene medicinali inflitte ai monaci.

L’imitazione di Cristo

Ma l’ordinamento monastico può interessarci forse solo per gusto di erudizione, mentre per il nostro nutrimento spirituale vorremmo capire come, se e quando si faccia bene a infliggersi qualche mortificazione corporale. I tre testi di cui vado a proporre qualche passo sono espressione nobilissima della cristianità moderna (o devotio moderna, secondo l’espressione con cui alcuni l’hanno insipientemente screditata). Il terzultimo e il penultimo capitolo della Prima Parte dell’aureo libello già attribuito a Tommaso da Kempis (ma la questione è tutt’altro che chiusa…) sono soffusamente dedicati al tema della penitenza. Vi leggiamo, fra l’altro:

Ora, una piena fiducia di morire santamente la daranno il completo disprezzo del mondo, l’ardente desiderio di progredire nelle virtù, l’amore del sacrificio, il fervore nella penitenza, la rinuncia a se stesso e il saper sopportare ogni avversità per amore di Cristo. […] Procura di vivere ora in modo tale che, nell’ora della morte, tu possa avere letizia, anziché paura; impara a morire al mondo, affinché tu cominci allora a vivere con Cristo; impara ora a disprezzare ogni cosa, affinché tu possa allora andare liberamente a Cristo; mortifica ora il tuo corpo con la penitenza, affinché tu passa allora essere pieno di fiducia

[…]

In quel giorno il corpo tribolato godrà più che se fosse stato nutrito di delizie; risplenderà la veste grossolana e quella fine sarà oscurata; una miserabile dimora sarà più ammirata che un palazzo dorato. In quel giorno una pazienza che non sia venuta mai meno, gioverà più che tutta la potenza della terra; la schietta obbedienza sarà glorificata più che tutta l’astuzia del mondo. In quel giorno la pura e retta coscienza darà più gioia che la erudita dottrina; il disprezzo delle ricchezze varrà di più che i tesori di tutti gli uomini. In quel giorno avrai maggior gioia da una fervente preghiera che da un pranzo prelibato; trarrai più gioia dal silenzio che avrai mantenuto, che da un lungo parlare. In quel giorno le opere buone varranno di più che le molte parole; una vita rigorosa è una dura penitenza ti saranno più care di ogni piacere di questa terra.

Im. Chr. I, 23,2. 24,3.

La caratteristica dominante di questo libretto sta nel fatto che – se ancora è nettamente riconoscibile una matrice monastica nella proposta etica – esso è comunque rivolto a un pubblico più largo, cioè a tutti quelli che vogliono vivere nella “devozione” (oggi diremmo “a quanti prendono sul serio la vocazione universale alla santità”).

Ignazio di Loyola

Più di un secolo dopo, l’ambizioso soldato spagnolo che si convertì durante una dura convalescenza sarebbe riuscito a veder firmate le Costituzioni di quell’inaudita novità che si chiamò “Compagnia di Gesù” (e sia lodato il Cielo per Paolo III che, pur essendo divenuto cardinale per i favori concessi dalla sorella al predecessore, ebbe occhio lungo e discernimento fine). In quelle pagine Ignazio torna più volte a parlare di “penitenze”, alludendo anche (sebbene non esclusivamente) alle mortificazioni fisiche. Leggiamo ad esempio:

Quanto alle correzioni e penitenze, la misura da osservare la stabilirà la carità discreta del superiore e di chi egli metterà in suo luogo. Essi le proporzioneranno alla disposizione delle persone e alla edificazione di tutti e di ciascuno in particolare a gloria di Dio. Ognuno, poi, dovrebbe accettarle volentieri e con desiderio sincero d’emendarsi e di profittarne spiritualmente, anche se gli fossero imposte per una mancanza non colpevole.

Costituzioni 268, 15

E ancora:

Non bisogna esagerare né essere indiscreti nel castigo del corpo, con digiuni, veglie, ed altre penitenze esterne e fatiche, che recano danno ed impediscono beni maggiori. Perciò, è bene che ognuno informi il confessore di quanto fa in questo punto. E questi, se pensa o dubita che uno ecceda, lo mandi dal superiore. Questo si fa per procedere con più lume, e per glorificare maggiormente Dio nostro Signore nelle nostre anime e nei nostri corpi.

Costituzioni 300, 5

E dopo numerosi accenni Ignazio riassume mirabilmente il proprio principio all’inizio del Capitolo III:

Poiché, in considerazione del tempo e dell’approvazione della vita, che si richiedono prima che i soggetti ammessi in Compagnia siano accolti tra i professi o i coadiutori formati, si presume che riusciranno uomini spirituali, che hanno fatto tali progressi da correre nella via di Cristo nostro Signore, compatibilmente con le forze del corpo e con le occupazioni esteriori di carità e di obbedienza, non sembra che, per quanto riguarda l’orazione, la meditazione, lo studio, come anche la pratica corporale dei digiuni, delle veglie e delle altre austerità e penitenze, si debba assegnare regola diversa da quella dettata dalla discreta carità. Ma se ne deve sempre informare il confessore e, nel dubbio intorno a quel che convenga fare, anche il superiore. In generale, si dirà soltanto questo: si badi che l’uso immoderato di questi mezzi non debiliti le forze del corpo e non occupi il tempo talmente che non siano sufficienti per l’aiuto spirituale del prossimo, secondo il nostro Istituto; e che, al contrario, non si giunga a un rilassamento tale, per cui lo spirito si raffreddi e s’infiammino le basse passioni umane.

Costituzioni 582, 1

Il grande criterio è dunque l’ordinata obbedienza a una volontà esterna, che impedisca alla nostra di scivolare nella superbia spirituale per via di una sfrenata corsa nelle pratiche ascetiche come pure, allo stesso modo, di decadere in un lassismo indifferente a ogni esigenza morale.

Francesco di Sales

Il rimando a san Girolamo, implicito in Ignazio, diventa patente nell’ultimo autore, che difatti scrive:

San Girolamo racconta che la sua cara figlia spirituale Santa Paola, non solo era portata all’esagerazione, ma era testarda nella pratica delle mortificazioni corporali, fino a non volersi arrendere al parere contrario che il suo Vescovo, Sant’Epifanio, le aveva espresso al riguardo. Oltre a ciò, si era lasciata andare talmente al pianto per la morte dei suoi, che aveva rischiato di morire. San Girolamo conclude: «Mi direte che anziché tessere le lodi di questa santa, sto scrivendone critiche e rimproveri. Ma, davanti a Gesù, che ella ha servito e che io voglio servire, affermo che non mento né pro né contro, come cristiano di una cristiana; voglio dire che io ne sto scrivendo la storia e non un panegirico; i suoi vizi sono virtù per gli altri». Intende dire che gli scarti e i difetti di Santa Paola sarebbero state virtù in un’anima meno perfetta; se consideriamo seriamente le cose troveremo degli atti che vengono considerati difetti in coloro che sono perfetti, che potrebbero essere considerate grandi perfezioni in coloro che sono imperfetti.

Francesco di Sales, Filotea II

Pochi decenni dopo l’approvazione delle Costituzioni della Compagnia di Gesù, infatti, un giovanissimo vescovo di Ginevra, maestro nella “polemica dialogica” e finissimo direttore spirituale, riaprì definitivamente a tutti gli stati di vita “la devozione” (cioè – l’abbiamo detto sopra – la possibilità di correre la via della santità). Nella celeberrima Filotea (giacché ogni anima è amica di Dio) Francesco di Sales dedica un intero capitolo (il XXIII) a Gli esercizi della mortificazione esteriore. Chi vorrà leggerlo tutto ne troverà facilmente il testo, mentre a noi qui preme raccoglierne solo alcuni passaggi, che ci paiono raccordare bene tutti i testi or ora esposti, e in tal senso evidenziarne la viva traditio:

Non ho mai approvato il metodo di coloro che per riformare l’uomo cominciano dall’esterno: dal contegno, dall’abito, dai capelli. Mi sembra che si debba cominciare dal di dentro: Convertitevi a me con tutto il cuore, dice Dio. Figlio mio, dammi il tuo cuore; e questo perché è il cuore la sorgente delle azioni, per cui le azioni sono secondo il cuore.

[…]

Ma proprio questo cuore, dal quale vogliamo cominciare, ha bisogno di essere educato su come darsi una linea di condotta e un comportamento, di modo che non si manifesti soltanto la santa devozione, ma anche una profonda saggezza con altrettanta discrezione. A tal fine eccoti alcuni consigli.

Se sei in condizione di sopportare il digiuno, farai bene a digiunare qualche giorno in più di quelli che comanda la Chiesa; perché, oltre all’effetto ordinario del digiuno, che è quello di liberare lo spirito, sottomettere la carne, praticare la virtù e accrescere l’eterna ricompensa in cielo, il digiuno ci dà modo di dominare i nostri appetiti, e mantenere la sensualità e il corpo sottomessi allo spirito; e anche se i digiuni non saranno molti, il nemico quando si accorgerà che sappiamo digiunare, ci temerà di più.

Il mercoledì, il venerdì e il sabato sono i giorni che i primi cristiani più facilmente consacravano alla astinenza: scegline uno tra di essi per digiunare, secondo quanto ti consiglierà la tua devozione e la discrezione del tuo direttore spirituale.

Ripeto volentieri quanto dice S. Girolamo a Leta: «I digiuni lunghi ed esagerati mi indispongono molto, soprattutto se sono effettuati da persone in giovane età». Ho sperimentato che il somarello fiacco cerca di deviare dal sentiero; ossia, i giovani che si ammalano per digiuni eccessivi, si girano facilmente verso le cose delicate. I cervi corrono goffamente in due circostanze: quando sono troppo grassi e quando sono troppo magri. Anche noi siamo molto fragili di fronte alle tentazioni sia quando il nostro corpo è troppo pasciuto, come quando è troppo debole; nel primo caso è presuntuoso nel suo benessere, nell’altro è disperato nel suo malessere; quando è troppo grasso non riusciamo a portarlo, quando è troppo magro lui non porta noi. La mancanza di misura nei digiuni, nelle flagellazioni, nell’uso del cilicio, nelle asprezze rende molte persone incapaci di consacrare gli anni migliori della vita ai servizi della carità; questo avvenne anche a S. Bernardo che si pentì in seguito di aver abusato di penitenze troppo dure; chi ha trattato con troppa durezza il proprio corpo all’inizio, finirà col blandirlo alla fine. Non pensi che se quei tali avessero agito con più senno, se gli avessero riservato un trattamento sempre uguale e adeguato ai suoi compiti ed alle sue occupazioni avrebbero fatto meglio?

[…]

C’è chi fa fatica a digiunare, chi invece a servire gli ammalati, un altro a visitare i prigionieri, a confessare, a predicare, consolare gli afflitti, Pregare ed altri esercizi simili: queste ultime fatiche valgono di più di quella del digiuno, perché, oltre a darci ugualmente il dominio sulla carne, in più ci offrono frutti molto più apprezzabili.

Come principio generale è meglio conservare forze corporali più di quanto serve, che perderne più di quanto è necessario; si può sempre fiaccarle, volendolo; ma non sempre basta volerlo, per recuperarle.

Mi sembra che dobbiamo avere una grande considerazione per la frase che Nostro Signore, Salvatore e Redentore disse ai suoi discepoli: «Mangiate ciò che vi sarà presentato». Io sono del parere che sia maggiore virtù mangiare senza scelta ciò che ti viene presentato, e nell’ordine in cui ti viene presentato, senza far caso se sia di tuo gusto o meno, che scegliere sempre quanto c’è di peggiore. Perché se anche questo ultimo modo di agire sembra più austero, l’altro denota maggiore mortificazione, perché non ti porta soltanto alla rinuncia al tuo gusto, ma anche alla scelta personale; e mi sembra che non sia una mortificazione da poco piegare il proprio gusto alle circostanze del caso e tenerlo sottomesso alle situazioni fortuite; in più questo genere di mortificazione passa inosservato, non dà noia ad alcuno ed è di un valore ineguagliabile quanto a buona educazione!

[…]

Se presa con moderazione, la disciplina dà meravigliosi risultati nel risvegliare il desiderio della devozione. Il cilicio domina potentemente il corpo, ma il suo uso abitualmente non è consigliabile agli sposati, alle persone di costituzione delicata, o a quelli che devono sopportare altre grosse fatiche. Tuttavia si può impiegare, volendo, nei giorni forti di penitenza, sempre che il confessore sia d’accordo.

[…]

Ci sarà qualche altro che cadrà pesantemente nel peccato di lussuria: il rimorso interiore aggredirà la sua coscienza con la spada in pugno per trapassarla di santo timore; e subito, riprendendo la padronanza del cuore griderà: carne traditrice, corpo traditore, tu mi hai rovinato. E subito infierirà a grandi colpi sulla carne, con digiuni sregolati, discipline senza criterio, cilici insopportabili. Povero te, se il tuo corpo potesse parlare come l’asina di Balaam! Ti direbbe: «Miserabile, perché mi percuoti? È contro te, anima mia, che Dio prepara la vendetta; sei tu la criminale; perché mi conduci alle cattive conversazioni? Perché impieghi i miei occhi, le mie mani, le mie labbra nei piaceri? Perché mi turbi con cattive fantasie? Fa’ buoni pensieri e io non avrò cattivi movimenti, frequenta la gente onesta e lo non sarò agitato dalla concupiscenza. Sei tu che mi getti nel fuoco e poi pretendi che non arda. Mi getti il fumo negli occhi e non vuoi che gli occhi si infiammino».

In questi casi Dio ti dice: Percuoti spezza fendi, strapazza prima il tuo cuore, perché è contro di esso che sono adirato.

Per guarire il prurito non serve molto lavarsi e fare il bagno, quanto piuttosto purificare il sangue e rinfrescare il fegato. Allo stesso modo per sanare i nostri vizi, è bene, sì, mortificare la carne, ma più ancora e necessario purificare i nostri affetti e rinnovare il nostro cuore.

Per chiudere, ricordati di non dare mai seguito a penitenze corporali senza aver avuto il parere favorevole del tuo direttore spirituale.

Francesco di Sales, Filotea XXIII passim

Queste pagine dovrebbero rispondere abbondantemente a chi domanda sinceramente il senso cristiano delle pratiche di disciplina corporale. Come al solito, vanno rifuggiti tanto i lassismi quanto i rigorismi: un esercizio spirituale davvero salutare, per l’intelletto, è tornare a scoprire che quei contenuti mirabilmente (e con categorie tanto contemporanee) esposti da Paolo VI vengono da lontano e, zampillando direttamente dalla Rivelazione scritturistica, hanno già irrigato e fecondato innumerevoli vite.

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