Nel 2018 ricorre il cinquantesimo anniversario di quel movimento culturale denominato appunto il Sessantotto.
Ma in realtà ebbe inizio già nel 1967 e precisamente venerdì 17 novembre con l’occupazione dell’Università Cattolica di Milano ad opera degli studenti, tra cui Mario Capanna e Nello Casalini.
Rettore era Ezio Franceschini, membro dell’Istituto secolare dei missionari della regalità di Cristo fondato – come lo stesso ateneo milanese – dal francescano padre Agostino Gemelli (www.assisiofm.it, 14 novembre).
In quel momento molti studenti dell’ateneo fondato da Gemelli, non protestano più solo sui corsi di studio, la formazione “autoritaria”, i criteri “classisti” di accesso, e così via ma sono spinti a ridiscutere il sistema sociale nel suo insieme, a contrastare le istituzioni, comprese quelle ecclesiali.
Sette ore
Capanna, poi leader di Democrazia Proletaria, con i suoi amici più stretti, fu tra i più attivi a convincere gli altri dell’urgenza di occupare subito la Cattolica: quella sera di cinquant’anni fa, la prima occupazione durò solo sette ore e i settecento studenti coinvolti sono fatti sgombrare alle tre di notte dagli agenti chiamati subito dal rettore.
La scintilla
A fare da denotatore era stato probabilmente l’annunciato raddoppio delle tasse: letto come espediente per trasformare l’ateneo in un’università per ricchi. In realtà la repressione colpì gli studenti quando cominciavano a riflettere davvero anche sul senso e il potere dell’istituzione in cui studiavano, o i rapporti fra scienza e rivelazione, consumismo e vita cristiana.
L’incontro con il Segretario di Stato
In ogni caso con quello sgombero nel primo ateneo non statale e la serrata disposta immediatamente, si avviò la serie di manifestazioni (poi sfociate spesso in tafferurgli o drammatiche guerriglie urbane) che scandirono a lungo la vita di Milano, ma anche Torino (la cui università tornò ad essere occupata già a fine novembre), dilagando poi negli atenei di Genova, Napoli, Firenze, Cagliari, Salerno, Padova (occupati da dicembre ’67 ai mesi successivi).
E se lo strappo sembrò arrivare dopo il fallimento di ogni dialogo con le gerarchie (il 5 dicembre 1967 il presidente dell’assemblea studentesca della Cattolica veniva ricevuto persino in Segreteria di Stato dal Sostituto Giovann Benelli) e dopo le espulsioni degli studenti contestatori (cominciando da Capanna), di fatto la contestazione studentesca aveva già al suo fianco i gruppi dell’area del dissenso cattolico che si erano posti la questione dell’«accettazione passiva e teorica del Concilio» e della «Chiesa dei poveri»(www.avvenire.it, 15 novembre).
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Dagli atenei ai seminari
L’evoluzione delle proteste portò all’ondata travolgente del ’68, con gli studenti della Facoltà di medicina della Cattolica di Roma in piazza San Pietro già a metà gennaio. Sui loro cartelli di protesta si potevano leggere frasi come «Dio ci ha dato la libertà, la Cattolica ce l’ha tolta». E ancora il cosiddetto “controquaresimale di Trento”, il 26 marzo 1968, quando uno studente cattolico contestò pubblicamente il predicatore nella cattedrale; l’occupazione della cattedrale di Parma il 14 settembre.
In estrema sintesi: mentre la contestazione nelle scuole e all’università si secolarizzava, perdendo di vista le sue origini “religiose”, la protesta usciva dalle aule ed entrava sotto altre forme nelle chiese, nei seminari, tra i gruppi parrocchiali.
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Ideali “troppo alti”
Roberto Beretta, giornalista di Avvenire, nel libro“Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici” spiegava le ragioni della protesta: «Si parlava molto di mettere in pratica il Concilio e anche di più: di attuare il famoso (e fumoso) “spirito del Concilio”. Ma non tutto nella contestazione cattolica era strumentale o anti-gerarchico, anzi forse il suo maggior difetto non fu tanto la destabilizzazione delle strutture tradizionali, bensì la scelta di darsi ideali troppo alti senza la consapevolezza (che in realtà avrebbe dovuto essere contenuta nel Dna stesso dei cattolici…) che comunque la vera salvezza, l’unica e definitiva “rivoluzione”, non si sarebbe mai potuta compiere con le sole forze umane né seguendo qualsivoglia ideologia terrena».
Cattolici “marxisti”
Ci furono ambiti e periodi in cui cattolici e marxisti non si distinguevano affatto, evidenzia Beretta. «La cosa più sconcertante, infatti, fu l’appiattimento di molti credenti (preti compresi) sugli strumenti di analisi marxista, o comunque materialista. L’imperativo era infatti “rovesciare le strutture”: come se non sapessimo da almeno duemila anni che il male sta invece nei cuori e che anche la struttura più perfetta non è di per sé la “salvezza”…».
L’errore dei sessantottini cattolici
Lo studioso del ’68 cattolico è categorico: «Credo che la colpa principale dei cattolici nel Sessantotto fu esattamente questa: invece di portare all’interno del movimento studentesco e della contestazione gli ingredienti fondamentali della loro millenaria sapienza teologale ed umanistica, mitigando così gli eccessi della protesta, si fecero contagiare da atteggiamenti contro i quali la fede stessa avrebbe dovuto vaccinarli» (it.zenit.org, 2009).
La messa “beat”
Un esempio pratico di questo contagio lo ricorda sul Corriere della Sera (30 aprile 1967) quando a Udine, durante la celebrazione di una messa “beat“, i sessantottini “cattolico-marxisti” si esprimevano così:
«Non bisogna condannare le nuove generazioni per i loro atteggiamenti.
E non importa se sono capelloni; in fondo, i capelli lunghi li portava
anche Gesù. Quanto alla Messa beat non vedo motivo di gridare
allo scandalo. […] anche sul piano religioso, con i giovani dobbiamo riuscire
a stabilire un dialogo; e non si può dialogare se non si conoscono
i gusti e la mentalità dell’interlocutore».