La scrittrice ed attivista Rachel Moran racconta in un libro la sua storia e perché combatte contro la prostituzione legalizzataRachel Moran, irlandese di Dublino, è cresciuta in una famiglia problematica. Ha vissuto un’infanzia di povertà ed emarginazione: lei e i fratelli vivono di elemosine e gli abitanti del quartiere li additano come “gli zingari”. Dopo il suicidio del padre, e la grave crisi psicotica della madre, avvenuto quando lei ha 14 anni viene affidata ad una casa di accoglienza. La fuga per la libertà si rivela però una trappola: diventa una senzatetto, vive di espedienti e incontra il ragazzo che la spingerà a prostituirsi per sfruttarla. La sua è una esperienza di violenza, solitudine, sfruttamento e abusi. Una storia che svela il costo emotivo della vendita del proprio corpo, notte dopo notte, per sopravvivere alla perdita dellʼinnocenza, dellʼautostima e del contatto con la realtà. Oggi, a 41 anni, Rachel Moran lotta contro la legalizzazione della prostituzione. Ha ripreso in mano la sua vita, una laurea in giornalismo, una appassionata azione come attivista contro la tratta delle schiave del sesso. La sua è una posizione forte, che condivide con il femminismo nordeuropeo dove è il cliente che viene punito e multato, che spera di esportare in tutta Europa e non solo.
Già nel 2015 in un articolo sul New York Times la Moran aveva espresso il suo sconcerto davanti al favore di Amnesty International alla depenalizzazione della prostituzione, finalizzato (recita la proposta dell’organizzazione) a tutelare «lo scambio consensuale di prestazioni sessuali a pagamento» per tutelare i diritti delle donne in quanto «la criminalizzazione espone le lavoratrici sessuali a un rischio di abusi più alto». Ed è proprio nella dicitura di “scambio consensuale” che per la Moran la proposta di Amnesty risulta inaccettabile. Per dimostrare come mai, se non solo in alcuni casi eccezionali, la prostituzione possa essere definita davvero consensuale, Rachel porta la sua testimonianza (ArtSpecialDay, 13 luglio).
Questa sua storia, ma soprattutto la sua valutazione del fenomeno della prostituzione, è contenuto in un libro che le è costato dieci anni di fatiche, ripensamenti, difficoltà con il fare i conti col suo passato ma che – finalmente – è giunto anche in edizione italiana per i tipi della Round Robin: “Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione”. Il volume è uscito da poche settimane e ha già avuto diverse presentazioni a Roma e Milano, parla con schiettezza dell’impegno a smascherare i tentativi di normalizzare una attività che di normale ha poco o nulla. Rachel racconta senza ritrosie e senza cadere in stereotipi
E’ stata obbligata a farlo? No. Però – come scrive lei stessa – il concetto di «adulti consenzienti» (uno degli stereotipi che molti ancora hanno sul tema della prostituzione) è un controsenso: «Non è possibile dare il proprio consenso a uno stile di vita che non comprendi. In secondo luogo, molto delle donne prostituite non sono adulte». Capitolo dopo capitolo, Moran ne smantella molti altri: il mito della prostituta d’alto bordo che sarebbe più simile a una cortigiana che a una prostituta di strada, quello della «puttana felice» che ha scelto lei stessa di diventarlo, quello del piacere sessuale (che si prova sì, ammette, ma «una volta ogni morte di papa»), quello del potere che la prostituta riuscirebbe a esercitare sui suoi clienti. Cliché che, se ancora esistono, è perché «purtroppo siamo inclini a credere a cose che sappiamo benissimo non essere vere. Sono sicura che gli stessi attivisti che si battono a favore di quelle che definiscono «lavoratrici del sesso» non vorrebbero vedere le loro compagne, madri o figlie nei bordelli», argomenta Moran oggi. E ribadisce: «Per me dire che la prostituzione è liberazione è un controsenso: è invece, ricordiamolo, una forma di sfruttamento» (Corriere della Sera, 5 novembre).
La sua missione è chiara: evitare che un fenomeno di marginalità diventi invece un fatto normale e normato. Nel capitolo 21 del volume è chiarito bene l’inganno contenuto nel tentativo di cambiare la percezione che si ha sulla prostituzione chiamandola in maniera più neutra e “sanitarizzata” come “Sex Worker”:
Per poter normalizzare la prostituzione, è necessario sanitarizzarla. La sua natura intrinsecamente dannosa deve essere, a tutti i costi, nascosta. Altrimenti non potrebbe essere considerata una cosa normale.
Per raggiungere questo obiettivo vengono usate varie tattiche. La prima tattica che analizzerò è la “non proprio acuta” terminologia che in tempi recenti è stata introdotta intenzionalmente allo scopo di inquadrare la prostituzione come lavoro. I termini “sex worker” e “sex work” sembrano innaturali e sembrano innaturali perché suggeriscono una correlazione che è innaturale. L’associazione tra sesso e lavoro non si accorda con la natura umana. Comunque, sebbene colpiscano inevitabilmente l’ascoltatore come qualcosa di strano, non producono shock, come accade con la potenza delle parole “prostituzione” e “prostituta” che evocano tutto l’immaginario mentale che viene attivato da uno scambio basato sullo sfruttamento sessuale. L’immaginario che la parola “sex work” richiama alla mente è di una donna in un ambiente sanitarizzato; un tavolo da massaggi forse con lenzuola di cotone pulite e asciugamani morbidi, un’uniforme, di sicuro, qualcosa di adatto per un’infermiera, ma con una gonna più corta. Bianco, naturalmente, e abbinato a fazzoletti candidi a loro volta per pulire il seme per terra.
Tutto è pulito nell’immaginario evocato da questa terminologia, tutto è al suo posto e appropriato e sanitarizzato, ma quando si va a vedere che cosa effettivamente fa una sex worker è lì che casca l’asino. Il seme è la mosca nella pietanza, il segnale che c’è qualcosa di poco professionale in tutto ciò; e il suo significato non è attenuato dall’immaginario disinfettato che lo circonda. Ma piuttosto la forza del contrasto sta proprio nella nozione di lavoro normale che è sottinteso.
Potrebbe essere utile immaginare quello che è presentato come perfettamente razionale in un contesto diverso. Immaginate una donna nel bel mezzo di un rapporto sessuale appassionato con il suo amante che all’improvviso scende dal letto, casualmente apre il suo portatile e manda una mail all’ufficio. Il lavoro è incompatibile con il sesso, e il sesso con il lavoro.
La Moran affronta anche le possibili obiezioni che vengono poste da chi è favorevole ad una legalizzazione dello scambio sesso-soldi:
Ci sono molti aspetti della prostituzione che sono incompatibili con il termine “lavoro”, ma uno dei più importanti e rivelatori di questi è che è l’unica forma di cosiddetto “lavoro” nel quale la persona è allo stesso tempo colei che presta il servizio e il prodotto. Come ha risposto una sopravvissuta all’affermazione che la prostituzione non è meglio né peggio di girare hamburger al McDonald’s:
“A McDonald’s non sei la carne. Nella prostituzione sei la carne”.
L’uso del termine “sex worker” è un’arma retorica per normalizzare la prostituzione. Non ci sono dubbi che esistano quelli a cui servirebbe per la propria agenda politica se la società abbracciasse interamente questo termine, ma non ho mai sentito nessuna persona, in una conversazione, che non avesse un’agenda politica dietro, dire “sex worker” quando intendeva prostituta. Il termine “sex worker” è stato accolto con un sorrisino complice dalle prostitute che ho conosciuto incluso me stessa. Eravamo tutte ben consapevoli del suo obiettivo e ugualmente consapevoli di quanto fosse inutile tentare di raggiungerlo. Prostitute ed ex-prostitute si adattano istintivamente a questi tentativi senza ritegno di “tingere di rosa” la situazione. Sappiamo benissimo che questi termini non sono stati concepiti per restituire dignità alle donne nella prostituzione, sappiamo che sono stati inventati per dare dignità alla prostituzione stessa. Inoltre, sappiamo che sono utili come le tette al toro e lo sappiamo dalla fonte più attendibile di tutte – l’esperienza personale.
Ci sono poi una serie di veri e propri non sense: se la prostituzione è un lavoro come un altro cosa impedirebbe di spingere i centri degli impieghi a dare questo come sbocco professionale di una persona disoccupata? Se la prostituzione è legale e soprattutto normalizzata come si distinguerà un rapporto professionale da una molestia?
Cercare di inquadrare la prostituzione come un lavoro normale e legittimo si oppone alla logica a vari livelli; una delle cose più ovvie (quasi ridicola) è proprio quella che nell’Unione Europea la legislazione sulla salute e la sicurezza proibisce le molestie sessuali, la violenza e il lavoro che causa stress lavorativo! Non c’è bisogno di dire che, questi aspetti negativi e molti altri ancora, sono così intrinsecamente radicati che sono considerati da chi si trova nella prostituzione come rischi del mestiere:
“(…) Se la prostituzione è un lavoro normale, dovremo essere in grado di dire quali sono le abilità necessarie per entrare nella prostituzione. Secondo Whisper (organizzazione di sopravvissute alla prostituzione), queste abilità comprendono: avere rapporti sessuali, fingere piacere sessuale, sopportare qualsiasi genere di violazione corporea e acconsentire che il tuo corpo venga usato in ogni modo possibile e immaginabile da un’altra persona. Questi atti sono considerati molestie e abusi sessuali quando i soldi non cambiano le carte in tavola. La prostituzione non viene raccomandata come una possibilità di carriera per le ragazze giovani. Non è presentata come una possibilità di carriera dai consulenti del lavoro e dai genitori. Un’esperienza di lavoro in un bordello non è raccomandata, alle persone disoccupate non viene chiesto di lavorare nella prostituzione. La realtà attuale, che l’industria del sesso cerca di coprire, è che coloro che hanno il potere e la libertà di agire non sceglierebbero la prostituzione come proprio stile di vita”.
Questa citazione fa notare che se noi accettiamo la prostituzione come un lavoro qualsiasi allora dovremmo essere in grado di dire quali sono le abilità richieste per la prostituzione. Questo tira in ballo un punto pertinente nella questione della normalizzazione della prostituzione. Esistono abilità particolari che sono necessarie a questo mondo per eseguire un qualsiasi lavoro. Questo è un fatto. Se la prostituzione deve essere considerata come lavoro ordinario, allora, davvero dobbiamo discutere su quali sono le abilità necessarie per svolgerlo. Descriverò le tre che sono le più usate (ovvero tutti i giorni) a partire dalla mia esperienza.
Quando un uomo ha preso accordi per un rapporto sessuale e il prezzo che è disposto a pagare, molto comunemente, di fatto molto più spesso che no, non sarà soddisfatto di stare nei limiti fissati dallo scambio sesso-denaro. Questo comporta che lui infilerà le dita, brutalmente, all’improvviso e senza lubrificante nell’ano o nella vagina. Comporterà che lui si sfili il preservativo proprio prima dell’orgasmo in modo da eiaculare nella tua bocca e/o sulla tua faccia o petto. Comporterà che lui ti afferri da dietro la testa e la spinga giù mentre ficca il suo pene in fondo alla tua gola più in fondo possibile. In queste situazioni senti una nausea profonda e l’abilità necessaria nella prostituzione è la capacità di controllare il riflesso del vomito.
A volte questi attacchi si protraggono in modo che il cliente che paga possa spassarsela nella profonda soddisfazione che gli deriva dall’averti degradata. In queste situazioni si sente un bisogno intenso di piangere e l’abilità necessaria nella prostituzione è quella di soffocare la voglia di piangere.
Ogni settimana ci saranno momenti nei quali ti sentirai sull’orlo del panico, sentirai una voglia irrefrenabile di scappare. Questa è la reazione naturale che gli esseri umani hanno in situazioni di pericolo o sessualmente repellenti. Nella prostituzione non puoi permettertelo. L’abilità necessaria in questa situazione è l’abilità di dissociarsi psicologicamente da quello che ti circonda, distaccarti dalla realtà immediata; fingere che non sta accadendo.