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Fabrice Hadjadj: «Essere umani significa volgersi al mistero di Dio o alla vita sessuale delle mosche»

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Benjamin Fayet - pubblicato il 03/11/17
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Il filosofo Fabrice Hadjadj pubblica per le edizioni Tallandier “Dernières nouvelles de l’homme (et de la femme aussi): chroniques d’une disparition annoncée” [Ultime notizie dall’uomo (e pure dalla donna): cronache di una scomparsa annunciata, N.d.T.]. In questa compilazione dei due anni di articoli per il quotidiano italiano Avvenire, ripubblicate in Francia dalla rivista Limite, se la prende – col suo stile elevato e grondante humour – ai dogmi del progresso, del tecnicismo e del consumismo. Ha risposto alle domande di Aleteia su questa serie di testi che cerca di rimettere l’Uomo al cuore della nostra società.

Aleteia: L’impresa tecnologica al cuore della riflessione del suo libro è la principale ragione del collasso spirituale del nostro mondo?

Fabrice Hadjadj: È piuttosto la causa di un collasso carnale: noi ci vediamo sempre più come delle individualità libere indipendenti dal corpo dato alla nascita. Ecco perché possiamo passare le nostre giornate col sedere incollato a una sedia a guardare degli schermi, a ridurre la nostra intelligenza a degli algoritmi che non hanno più niente a che fare con l’attività delle nostre mani, a trasporre i fantasmi della nostra coscienza su dei “supporti non biologici”. La sua domanda stessa è segnata da questo stato di cose. Essa presuppone che l’essenziale sia sul versante spirituale. Ma che cosa si deve intendere con tale categoria (moderna e depistante)? Il demonio non è egli stesso uno spirito – un puro spirito impuro, per così dire –? E il Verbo, al contrario, non si è fatto carne, di modo che dopo l’Ascensione la carne, perfino nella sua animalità, è divenuta una realtà invisibile e divina?

Il cristianesimo è forse una spiritualità, ma allora è una spiritualità dell’incarnazione. Insistere troppo sullo spirituale, dimenticando la carne, significa sostenere insieme l’ibridazione dell’uomo con la macchina, ma pure la rottura dell’uomo con gli altri viventi. È ancora sotto l’influenza del paradigma tecnocratico che ciò avviene, senza che ce ne avvediamo. Perché questo paradigma affetta anche il nostro rapporto col fatto religioso: che si tratti della mindfulness, dove la meditazione si allontana dalla preghiera per diventare una tecnica del benessere; del jihadismo, dove si pretende di conseguire il paradiso attivando un detonatore; o anche di questa melassa di psicologismo e di pseudo-pentecostalismo in cui lo Spirito Santo assomiglia a un’app che si scarica quasi istantaneamente per darci il riposo; in tutti questi casi, si resta in una mentalità tecnologica, dove si è perduta la pazienza propria della cultura – la lentezza delle piante che crescono, quella che Gesù, nella parabola del seminatore, propone come la velocità giusta.

A: La denuncia del paradigma tecnocratico sembra armonizzarsi perfettamente con l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Per lei è una fonte d’ispirazione? Ha giocato un ruolo nella sua evoluzione intellettuale nel corso di questi due anni di “cronache settimanali”?

F.H.: Quella enciclica è un avvenimento. Essa mi ispira, certo, ma conferma pure, dall’alto, la riflessione che mi è stato dato di perseguire da più di 25 anni a questa parte. E ciò per almeno tre ragioni. Anzitutto, essa radica l’ecologia nel mistero della Trinità, perché l’interdipendenza delle creature ha la sua sorgente nella comunione delle Persone divine. In questa prospettiva, la messa stessa viene di nuovo percepita come un cosmico, e il coronamento di un atto agricolo, poiché mediante il pane e il vino essa tende il legame tra il dono della terra e il dono di Dio.

In secondo luogo, Laudato si’ opera uno spostamento dell’umanesimo integrale verso l’ecologia integrale. La modernità aveva la tendenza a mettere l’uomo al centro, mentre il proprium dell’uomo è di potersi decentrare. “Essere umano” significa sapersi rivolgere verso ciò che sta oltre il proprio spazio, verso il mistero di Dio o verso la vita sessuale delle mosche. La nostra superiorità è di poterci abbassare, di riconoscere il nostro legame con tutto ciò che respira (“Tutto ciò che respira lodi il Signore” è l’ultimo versetto dell’ultimo salmo) e di essere responsabili per la creazione tutta intera.

In ultimo, quest’enciclica riconosce che la tecnologia non è che un insieme di mezzi di cui bisognerebbe fare suo uso, ma anche un paradigma, un progetto, forse anche una “struttura di peccato”, che esige da parte nostra una critica radicale. Il peggio non è sul versante dei rischi, dei fallimenti o degli effetti collaterali delle nuove tecnologie, bensì proprio su quello del loro stesso successo. Perché una tale riuscita sarebbe un’uscita volontaria dalla condizione umana. C’è qualcosa di peggiore della fine del mondo: si chiama “inferno”. E l’inferno è precisamente il luogo di una riuscita tale che non invoca più alcuna grazia.

A.: L’arte ha un gran ruolo nella sua vita e nella sua opera: ha appena pubblicato un album intitolato Nos vies quotidiennes [Le nostre vite quotidiane, N.d.T.]. Qual è il ruolo della vita artistica? È un mezzo per ritrovare una vita semplice in un mondo tecnicistico e consumistico?

F.H.: In questi giorni esce anche Les Circonstances [Le circostanze, (edizioni Première Partie) N.d.T.], l’album di Marguerite di cui io ho scritto le parole, mentre la musica è dell’ammirevole pianista Vincent Laissy; ed esce pure un piccolo opuscolo a metà tra guida pratica e arte poetica, che si chiama Être clown en 99 leçons [Essere dei clown in 99 lezioni, (edizioni De la Bibliothèque), N.d.T.]. Io non nasco come filosofo. Vengo dalla letteratura e dalla musica ma, dopo la mia conversione, ho distrutto almeno tre romanzi, un centinaio di poesie e venticinque o trenta canzoni. Le mie pièces teatrali testimoniano già da qualche tempo questo radicamento poetico della mia scrittura, in cui le questioni di ritmo, di sonorità, di fraseggio, importante talvolta più delle questioni di “messaggio”. Questa cura dell’aspetto poetico del discorso è già una maniera di resistere alla tendenza tecnocratica di ridurre la parola a informazione.

Più precisamente, sul posto dell’arte nella vita, direi due cose, una in riguardo al nostro destino eterno e l’altro alla nostra vita quotidiana (del resto le due cose sono assolutamente legate). La prima è che noi siamo tutti chiamati al canto corale, se non alla danza, e per sempre: i beati sono degli esseri musicali, la loro lode implica un’inventività tanto ricca quanto la creazione di nuovi mondi. È quanto dicono i salmi di Davide: «Con tutta la vostra arte, sostenete la lode». Ed è la tematica, così frequente nell’iconografia cristiana, degli angeli musici. È decisivo pensare questa cosa, affermare che il mistico non è solo morale, ma anche musicale.

E poi la mia critica alla tecnologia ha la particolarità di essere svolta nel nome della tecnica. Contro delle apparecchiature che ci disincantano, si tratta di difendere i savoir-faire, che permettono l’unità dell’intelligenza e delle mani, dello spirito e del corpo: saper suonare la chitarra, per esempio, o cantare insieme, al fine di costruire un focolare attorno al quale ci si raccoglie. In altre parole, fare le cose, piuttosto che consumare merci. Certo, le arti, praticate familiarmente, non sono che un aspetto di quest’esigenza. L’esigenza fondamentale si situa, a mio avviso, sul versante della lavorazione della terra: gli strumenti dell’agricoltura e dell’artigianato sono importanti almeno quanto gli strumenti musicali.

A.: Un po’ come lo scrittore cattolico britannico Chesterton, anche lei ama praticare dello humour, nei suoi scritti. Uscire da una certa austerità che talvolta si rimprovera ai cattolici è per lei il miglior modo di parlare di Dio e di toccare le anime?

F.H.: Il riferimento a Chesterton mi onora. È per me un maestro insuperabile. Io non sono inglese, però sono ebreo, e questo suppone pure una certa stramberia congenita, un poco più tragica. Ciononostante, quando pratico dello humour che forza le cose, distaccato dal reale, ricado nella bella battuta – ed è veramente un’occasione persa. Perché io credo che il reale possieda una profondità comica, anche sotto l’aspetto tragico, e che Dio – che è Gioia – abbia uno humour assolutamente sovrano. Non si tratta quindi di mascherare le cose con una mano di spiritosaggine, ma di sprigionare la bizzarria soggiacente a ogni cosa. Per esempio, il fatto che un ateo sia comunque una parola di Dio, perché creato da lui; che il vero superuomo è un carpentiere ebreo morto a 33 anni; o che la pienezza dell’atto sessuale consiste nell’avere una suocera, e finisce nel diventare a propria volta un suocero e un nonno o magari un bisnonno (il patriarca, non Casanova, è l’icona di una sessualità liberata e compiuta)…

Del resto, io non penso che lo humour sia il contrario dell’austerità. Tommaso d’Aquino stesso associa la virtù dell’austerità all’“eutrapelía”, vale a dire a un umore gaio e cordiale, che favorisce l’amicizia. S’instaura una specie di circolo virtuoso: la capacità di ridere con gli altri, soprattutto di sé stessi, fa sì che ci si sappia accontentare di poco, e che una conversazione attorno a una tavola sia più conveniente dell’accumulare beni materiali; e allo stesso tempo raccogliersi, accettare l’austerità, imparare a focalizzarsi non su degli oggetti di consumo ma su dei soggetti di contemplazione, di cui si scoprono la meraviglia e il grottesco. C’è un legame profondo, mi pare, tra humour e decrescita. Elie Wiesel ha fatto questa osservazione semplice e profonda: «Dio ha creato l’uomo perché ama le storie». Le storie, vale a dire le storie buffe, ma anche i problemi, le avventure, insomma le nostre disparate tragicommedie. Questo gusto per le storie è precisamente quello che può salvarsi dall’impresa tecnologica.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]