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Piangere per un aborto. La toccante storia di una madre

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Cerith Gardiner - pubblicato il 02/11/17
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Florence Malenfant ricorderà per sempre la notte in cui ha scoperto di aver perso il suo bambinoPerdere un figlio, anche prima che nasca, è un’esperienza dolorosa difficile da superare. Florence Malenfant, che ha perso il suo bambino a 37 settimane di gestazione, ha condiviso con noi la sua storia straziante.

“Questo è il suo cuore, e non c’è attività. Mi dispiace”. È una delle frasi che mi rimbombano nella testa da qualche mese. Non c’è bisogno di dire che era l’ultima che speravamo di ascoltare quella notte.

Quando la dottoressa che mi ha fatto l’ecografia ha pronunciato queste parole così schiaccianti e definitive stava solo confermando quello che sentivamo quando eravamo arrivati in ospedale, anche se nutrivamo ancora delle speranze.

Solo cinque giorni prima avevo sentito quello stesso cuoricino battere come un pazzo a un ritmo incredibile. Il medico si era assicurato che il bambino fosse nella posizione corretta. Tutto andava a meraviglia. Il piccolo era perfetto. Cresceva in modo appropriato e si muoveva normalmente, anche se personalmente avevo conosciuto bambini più energici.

“Non riuscivo a sentirlo muoversi”

Con mia sorpresa, dopo 37 settimane di gravidanza, ho scoperto che non riuscivo a sentire i suoi movimenti. Visto che avevamo viaggiato nel fine settimana e avevamo alterato il nostro solito ritmo, all’inizio ho pensato che fosse semplicemente in un periodo di calma, ma mi si è stretto il cuore quando mi sono accarezzata la pancia e lui non ha reagito.

Quella sera mio marito ed io siamo andati in ospedale per tranquillizzarci. All’inizio hanno pensato di aver sentito i suoi battiti, ma stavano ascoltando le mie pulsazioni accelerate. Poi una dottoressa mi ha fatto l’ecografia.

Nessuno ha parlato. Un “silenzio di tomba”. Strana espressione… Ho sempre pensato che si riferisse al fatto che i morti non fanno alcun rumore, ma oggi penso che sia anche un riferimento alla reazione delle persone in presenza della morte.

Nessuno ha detto una parola. La dottoressa ha continuato a guardare senza trovare niente. Dopo dieci minuti di tortura interiore ho avuto il coraggio di chiedere: “Cosa sta cercando esattamente?” “Il suo cuore. Non lo trovo. Ma forse è la macchina. Vado a chiamare qualcuno perché verifichi la cosa”. Il nostro cuore lo aveva già capito, ma il cervello ci ha messo un po’ ad accettarlo, credo. Avevamo ancora delle speranze.

Ci hanno portato in una stanzetta piena di poster informativi sul lutto prenatale e abbiamo atteso l’arrivo del medico. In quel momento abbiamo deciso il nome del bambino: François.

Siamo andati a prendere i nostri altri due bambini e siamo tornati a casa col cuore spezzato. François era ancora nel mio utero, ma allo stesso tempo, per un motivo che sfuggiva a tutti, non c’era.

Il giorno dopo siamo tornati in ospedale per il parto, con gli occhi rossi e gonfi. Se mi avessero portato alla sedia elettrica non avrei potuto sentirmi peggio. Ci stavano aspettando.

La nostra ostetrica è arrivata poco dopo per stare con noi, e le ore – tante – successive sono state di un’intensità inimmaginabile. Abbiamo pianto, ovviamente, ma abbiamo anche riso molto. Abbiamo parlato. Abbiamo pregato e pianto di nuovo.

Ho pensato alla Vergine Maria ai piedi della croce. Ho pensato a tutto ciò che aveva passato lei. Mi sono detta che lei aveva avuto e amato quel figlio che era stato sacrificato proprio davanti ai suoi occhi. Che aveva detto “Sì” 33 anni prima senza sapere ciò che la aspettava e che non aveva praticamente voce in capitolo su ciò che sarebbe successo.

Il parto del mio bambino

Il parto è stato lungo, ma è stato un bene. Ne avevo bisogno. Ha permesso al mio corpo di accompagnare il mio cuore nella sua sofferenza e nel suo dolore, e mi ha lasciato anche più tempo per stare con il mio bambino. I nostri minuti insieme erano contati.

E poi è nato. Beh, è uscito.

È stato un momento magnifico, come lo era stato con i fratelli che lo avevano preceduto. Abbiamo pianto di gioia, era bellissimo. I piedini, le manine, la boccuccia perfetta… Era tutto al suo posto. Ci hanno permesso di tenerlo in braccio. Non riuscivo a staccare gli occhi da lui. Volevo registrare i suoi tratti nel cervello, negli occhi, per sempre.

In quel momento abbiamo capito tutto, almeno a livello tecnico. Era stato un incidente stupido, il tipo di incidente da cui al giorno d’oggi ci sentiamo protetti: la colpa era stata di un nodo un po’ più stretto al cordone ombelicale. Abbiamo sospirato, pieni di un sollievo dolceamaro.

Abbiamo potuto tenerlo con noi per un po’, quanto bastava perché conoscesse le nostre famiglie, perché loro lo vedessero, perché quel bambino fosse reale anche per loro. E poi ce ne siamo andati. Siamo usciti dall’ospedale senza pancia e senza bambino. Con le braccia vuote. Con un buco nel cuore e un’anima invecchiata di mille anni. Ma ancora pieni di speranza.

Riusciamo già a vedere i frutti reali del breve tempo che François ha trascorso con noi e della sua morte prematura. È un altro mistero: la missione che aveva ricevuto sulla Terra pur non avendo mai avuto l’opportunità di aprire gli occhi.

Spesso cado ancora in preda alla tristezza e alla rabbia. A volte mi sembra ingiusto che abbiamo dovuto perdere il nostro bambino perché altri potessero trovare la fede – sì, è successo! – o vedere Dio nella sua morte.

E poi penso un’altra volta a Maria. Il suo “Sì” fin dal principio, dal concepimento di suo Figlio, è stato un “Sì” al fatto che il bambino non le apparteneva. Se avessero chiesto alla Santa Madre la sua opinione prima di inchiodare Gesù sulla croce, immagino che si sarebbe offerta di andarci al suo posto. E non sarebbe stato lo stesso per l’umanità…

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]