A Ploërmel, la croce che sovrasta la statua di Papa Giovanni Paolo II eretta in una pubblica piazza riapre il dibattito sulla laicità e interroga sulla sua definizione.
Il 25 ottobre 2017 il Consiglio di Stato, il più alto grado della gerarchia di giurisdizione amministrativa, ha ingiunto al comune di Ploërmel di procedere allo smantellamento della croce che sovrasta una statua di Papa Giovanni Paolo II, in nome della neutralità delle persone pubbliche riguardo ai culti. Una decisione che illustra il rifiuto di ogni presenza del religioso nello spazio pubblico.
Laicità: separazione delle Chiese e dello Stato
La legge del 9 dicembre 1905 che ha proclamato la separazione delle Chiese e dello Stato traduce un equilibrio tra la libertà religiosa a la neutralità della persona pubblica. Essa afferma che «la repubblica assicura la libertà di coscienza. Essa garantisce il libero esercizio dei culti» e «non riconosce, non ne finanzia e non ne sovvenziona alcuno». A fronte dei primi contenziosi relativi agli scampanii, alle processioni religiose, ai funerali e al porto di piccole croci da parte degli alunni di scuola, il Consiglio di Stato ha dapprima sviluppato una giurisprudenza pacificatrice che applica la legge avendo cura di rispettare le tradizioni e di accettare la diversità dei comportamenti. La laicità è allora aperta e tollerante. Così, nella Costituzione del 1958, «la Francia è una Repubblica laica», «rispettosa di tutte le credenze». Il fatto politico e quello religioso sono certo separati, distinti, ma non opposti. Si ammette che le collettività territoriali possano finanziare dei progetti in rapporto con degli edifici o delle pratiche cultuali (restaurazione di un organo in una chiesa o gestione dell’equipaggiamento atto a praticare l’abbattimento rituale degli animali in condizioni sanitarie corrette). In cambio, si invitano i credenti a partecipare agli affari pubblici nel rispetto dei principî democratici. La laicità s’impone dunque come una distinzione necessaria e neutra.
Dalla separazione al rigetto del fatto religioso
Ormai la laicità sembra definirsi come un insieme di valori pregno di moralismo e di ideologia, volto a eliminare ogni espressione religiosa dallo spazio pubblico. Non c’è più tolleranza: la presenza del fatto religioso è divenuta insopportabile, sconvolgente. Mentre nella lezione del 1905 lo Stato dovrebbe restare neutro per garantire la libertà di coscienza dei cittadini, da una decina d’anni lo Stato impone la neutralità ai cittadini nella vita pubblica. Con la faccenda del hijab, la scuola è stato il primo teatro di discussione. Se in altri tempi si era affermato che «l’insegnamento è laico non perché proibisca l’espressione delle differenti fedi, ma al contrario perché le tollera tutte» (CE. Décision Kherouaa 2 novembre 1992), oggi la legge del 15 marzo 2004 proibisce nelle scuole «il porto di segni o capi d’abbigliamento tramite i quali gli alunni manifestano ostentatamente un’appartenenza religiosa». D’ora in poi la religione è pregata di esprimersi con discrezione. Al di là della scuola, la questione si è rapidamente estesa allo spazio pubblico. Più si diffonde il controllo laico, più si disperde e si perde la sua coerenza. Si proibisce da una parte l’uso del burqa e del niquab nello spazio pubblico, e si tollera dall’altra il burkini sulle spiagge, per via del rischio (tutt’altro che ipotetico) di turbare l’ordine pubblico. A Natale si proibiscono i presepi all’interno degli edifici e dei seggi di servizio pubblico, ma questi possono essere installati in altri luoghi pubblici durante le feste di fine anno. Si permette l’edificazione in una piazza di una statua del Papa Giovanni Paolo II sovrastato da un arco, ma si fa ordinanza di smantellare la croce che sta sull’arco. A forza di voler vuotare lo spazio pubblico di ogni dimensione religiosa, la laicità non è stata a sua volta vuotata del suo senso e della sua efficacia? Da tolleranza delle differenti religioni, la laicità non è divenuta la dinamica di una guerra contro la religione in sé? Il rigetto sistematico del fatto religioso non è fonte di reazioni comunitariste e di repliche identitarie? Certo, perché in tutte le religioni c’è un’espressione del collettivo, di una cultura e di tradizioni.