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Francia e segni religiosi: il paradosso della laicità

STATUE JOHN PAUL II

La sculpture en bronze représentant Jean Paul II. Œuvre de l'artiste Zurab Tsereteli, offerte à la ville de Ploërmel dans le Morbihan.

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Gabrielle de Loynes - pubblicato il 02/11/17
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A Ploërmel, la croce che sovrasta la statua di Papa Giovanni Paolo II eretta in una pubblica piazza riapre il dibattito sulla laicità e interroga sulla sua definizione.

Il 25 ottobre 2017 il Consiglio di Stato, il più alto grado della gerarchia di giurisdizione amministrativa, ha ingiunto al comune di Ploërmel di procedere allo smantellamento della croce che sovrasta una statua di Papa Giovanni Paolo II, in nome della neutralità delle persone pubbliche riguardo ai culti. Una decisione che illustra il rifiuto di ogni presenza del religioso nello spazio pubblico.

Laicità: separazione delle Chiese e dello Stato

La legge del 9 dicembre 1905 che ha proclamato la separazione delle Chiese e dello Stato traduce un equilibrio tra la libertà religiosa a la neutralità della persona pubblica. Essa afferma che «la repubblica assicura la libertà di coscienza. Essa garantisce il libero esercizio dei culti» e «non riconosce, non ne finanzia e non ne sovvenziona alcuno». A fronte dei primi contenziosi relativi agli scampanii, alle processioni religiose, ai funerali e al porto di piccole croci da parte degli alunni di scuola, il Consiglio di Stato ha dapprima sviluppato una giurisprudenza pacificatrice che applica la legge avendo cura di rispettare le tradizioni e di accettare la diversità dei comportamenti. La laicità è allora aperta e tollerante. Così, nella Costituzione del 1958, «la Francia è una Repubblica laica», «rispettosa di tutte le credenze». Il fatto politico e quello religioso sono certo separati, distinti, ma non opposti. Si ammette che le collettività territoriali possano finanziare dei progetti in rapporto con degli edifici o delle pratiche cultuali (restaurazione di un organo in una chiesa o gestione dell’equipaggiamento atto a praticare l’abbattimento rituale degli animali in condizioni sanitarie corrette). In cambio, si invitano i credenti a partecipare agli affari pubblici nel rispetto dei principî democratici. La laicità s’impone dunque come una distinzione necessaria e neutra.

Dalla separazione al rigetto del fatto religioso

Ormai la laicità sembra definirsi come un insieme di valori pregno di moralismo e di ideologia, volto a eliminare ogni espressione religiosa dallo spazio pubblico. Non c’è più tolleranza: la presenza del fatto religioso è divenuta insopportabile, sconvolgente. Mentre nella lezione del 1905 lo Stato dovrebbe restare neutro per garantire la libertà di coscienza dei cittadini, da una decina d’anni lo Stato impone la neutralità ai cittadini nella vita pubblica. Con la faccenda del hijab, la scuola è stato il primo teatro di discussione. Se in altri tempi si era affermato che «l’insegnamento è laico non perché proibisca l’espressione delle differenti fedi, ma al contrario perché le tollera tutte» (CE. Décision Kherouaa 2 novembre 1992), oggi la legge del 15 marzo 2004 proibisce nelle scuole «il porto di segni o capi d’abbigliamento tramite i quali gli alunni manifestano ostentatamente un’appartenenza religiosa». D’ora in poi la religione è pregata di esprimersi con discrezione. Al di là della scuola, la questione si è rapidamente estesa allo spazio pubblico. Più si diffonde il controllo laico, più si disperde e si perde la sua coerenza. Si proibisce da una parte l’uso del burqa e del niquab nello spazio pubblico, e si tollera dall’altra il burkini sulle spiagge, per via del rischio (tutt’altro che ipotetico) di turbare l’ordine pubblico. A Natale si proibiscono i presepi all’interno degli edifici e dei seggi di servizio pubblico, ma questi possono essere installati in altri luoghi pubblici durante le feste di fine anno. Si permette l’edificazione in una piazza di una statua del Papa Giovanni Paolo II sovrastato da un arco, ma si fa ordinanza di smantellare la croce che sta sull’arco. A forza di voler vuotare lo spazio pubblico di ogni dimensione religiosa, la laicità non è stata a sua volta vuotata del suo senso e della sua efficacia? Da tolleranza delle differenti religioni, la laicità non è divenuta la dinamica di una guerra contro la religione in sé? Il rigetto sistematico del fatto religioso non è fonte di reazioni comunitariste e di repliche identitarie? Certo, perché in tutte le religioni c’è un’espressione del collettivo, di una cultura e di tradizioni.

Dietro la religione: identità, arti e tradizioni

L’articolo 28 della legge del 9 dicembre 1905

proibisce, per l’avvenire, di innalzare o di apporre alcun segno o emblema religioso sui monumenti pubblici o in qualunque posto pubblico, a eccezione degli edifici adibiti al culto, dei luoghi di sepoltura nei cimiteri, dei monumenti funebri come pure dei musei e delle esposizioni.

Ora, l’espressione della fede non è confinata alla vita privata o all’intimità della persona. Vivere la fede può costituire per un individuo un’espressione artistica, familiare, culturale, identitaria, storica o associativa. Un emblema o un segno può così essere al contempo religioso, culturale o tradizionale. È questa pluralità di significati che il Consiglio di Stato ha ammesso a proposito dei presepi, «che presentano un carattere religioso ma sono pure degli elementi di decorazione profana installati per le feste di fine anno» (CE, 9 novembre 2016, Fédération départementale des libres penseurs de Seine-et-Marne). A Ploërmel il Consiglio di Stato procede stavolta con una manomissione arbitraria e paradossale della statua, un découpage che pretende di porre una cesura tra quanto concerne la fede e ciò che riguarda l’arte e la storia. Si pretende che, se l’arco e Giovanni Paolo II non possono essere considerati in loro stessi un segno religioso, «la cosa cambia per la croce, in ragione delle sue caratteristiche» (CE, 25 ottobre 2017, Fédération morbihannaise de la Libre Pensée et autres). Cacciando la religione dallo spazio pubblico, la laicità censura con essa l’arte, la cultura, il turismo e il patrimonio ambientale.

Verso una legittima e sana laicità

Ironia della sorte: fu Giovanni Paolo II che, nella sua Lettera ai vescovi di Francia, nel 2005, tornò sulla questione della laicità in Francia, in occasione del centenario della legge del 1905:

Il principio di laicità al quale il vostro Paese è molto attaccato, se viene ben compreso, appartiene anche alla Dottrina sociale della Chiesa. Esso richiama la necessità di una giusta separazione dei poteri, che fa eco all’invito di Cristo ai suoi discepoli: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio» (Lc 20, 25). Ancora, bisogna chiarirsi sui termini, precisare che cosa per la Chiesa sia una “legittima e sana laicità”.

Così la “sana e legittima” laicità auspicata dalla Chiesa riconosce, dal Vaticano II, la piena autonomia dei poteri civili e religiosi, la difesa della libertà di coscienza e il pluralismo religioso. Invece la dottrina della Chiesa rifiuta una laicità di esclusione del religioso, per farne uno spazio in cui ciascuno, nel rispetto degli altri, possa esprimere le proprie convinzioni:

in caso contrario, si corre sempre il rischio di un ripiegamento identitario e settario, nonché quello di un’escalation d’intolleranza, che non possono se non ostacolare la convivialità e la concordia in seno alla Nazione.

Giovanni Paolo II, Lettera ai vescovi di Francia, 2005

È proprio quanto Papa Francesco dichiarava nel suo discorso ad Ankara il 28 novembre 2014:

È fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri. La libertà religiosa e la libertà di espressione, efficacemente garantiti a tutti, stimoleranno il fiorire dell’amicizia, diventando un eloquente segno di pace.

Una sana laicità è dunque quella che garantisce il libero esercizio di tutti i culti.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]