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40 genuflessioni più una: un breve racconto di vita parrocchiale

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Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 30/10/17

Un giovane sacerdote accompagna i bambini che si preparano al Sacramento della Riconciliazione ad adorare il SS. Sacramento

La settimana scorsa la mia figlia più piccola ha iniziato catechismo. Timida solo per la circostanza di non conoscere ancora nessuno, si è stretta a me mentre aspettavamo che il parroco arrivasse e radunasse queste nidiate di pulcini razzolanti, in un disordine vagamente controllato, per il cortile spoglio dell’oratorio.

Una bimbetta portava al guinzaglio Zampa, il suo nuovo cagnolino, contesole gentilmente ma risolutamente da un’amica. Che una volta ottenutolo per la briglia lo faceva saltellare qua e là per i gradoni delle tribune attorno al campo da calcetto da poco ripristinato.

Alle nostra spalle un locale con la saracinesca abbassata e la scritta talmente sbiadita da non lasciare indizi sul suo colore originario: “pesca di beneficienza”. Dietro il cartone che ricopre la finestra si intravvede un orsacchiotto. Il suo pelo deve essere un ricordo lontano, sotto tutta quella polvere che lo impasta.

Le mie figlie sarebbero capaci di coccolarselo lo stesso.

Don Daniele arriva. Scorto la mia bambina coraggiosa fino alla porta, mi presento alle catechiste e vado in Chiesa. Avevo in cuore da giorni di fare almeno un’ora di adorazione eucaristica. E quel giorno il Santissimo era esposto. Eravamo nelle Sante Quarantore.

È una pratica che ho coltivato poco, la associo al periodo in cui la mia nonna materna, la Nonna Rita, stava da noi per aiutare la mia mamma a non soccombere alla fatica di quattro figli piccoli. Ora, finalmente, sto imparando che è una grandissima sorgente di bene, soprattutto grazie a qualche amica più avanti di me nella fede che mi mostra con umiltà i frutti di questo incontro “messo in agenda” tutte le settimane (certo, lei vive a Roma ed è più facile trovare Chiese che pratichino l’Adorazione perpetua; ma anche da noi, nella zona del Basso Garda, ad essere onesti, si stanno organizzando nuovi baluardi di “monaci urbani” adoranti).

Ovvio. Il Figlio del Padre, Dio dell’Universo, Colui per cui tutto ha fatto il Creatore; Chi ha impastato i pianeti, raggranellato le galassie, esploso stelle, studiato tutto l’universo amandolo, rendendolo addirittura comprensibile alle nostre menti, è lì, rannicchiato in una particola, bianca, lucente. Esposto. Proposto a noi. Certo è mistero eppure è e opera. Come fa la ragione a non essere felice di questa realtà? A non godere di essere sostenuta dall’alto da queste verità di fede così potenti, avventurose, sapide? Ah, noi moderni…

Inizio le preghiere, una volta guadagnata la terza panca a sinistra dell’altare.

Tendo a distrarmi, sono quasi eccitata all’idea di intraprendere un momento di dialogo che mi immagino intenso col Signore. Ma ancora ascolto solo me e i miei moti interiori. Basta. Desidero decentrarmi, spostarmi fuori, verso di Lui. Va bene anche interiormente ma è sempre uno spostare il fuoco su Altro.

Mi sforzo di leggere e meditare.




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Rimango in silenzio e chiedo a Lui di mostrarsi. No; mi basti che ci sia.

Scalpiccio di passi, rumoreggiare contenuto eppure sensibile. Una lunga teoria di bambini, che alcune catechiste si sforzano di mantenere composti nel loro procedere, si introduce nella navata laterale di destra, passando dalla sagrestia.

C’è anche la mia bimba. Trasalisco di amore viscerale, di onesta, primitiva gioia materna.

Li ha condotti qua, davanti al Signore! Foglietti con brevi preghiere e canti. Già farli avere a tutti è un’impresa. Il sacerdote, giovane, pacato, arrossato da qualche gita settembrina coi ragazzi più grandi, imbraccia la chitarra e propone un ritornello. Lo ripete, lo fa ripetere, lo impariamo tutti.

Si prega, si canta. Luca viene ripreso, con molta calma. Luca, ora basta. Se non la smetti esci. Luca esci. Ti accompagno fuori io?

Luca si quieta.

“Ora si esce ma prima, bambini, – spiega e ordina il sacerdote- si rende omaggio al Signore”, con la genuflessione e il segno della croce.

Saranno stati quaranta bambini, circa. Il giovane prete si inginocchia poggiando a terra il ginocchio destro, la schiena eretta; disegna un ampio, solenne segno di croce. Senza enfasi e senza mollezze.

“Avete visto bambini? – dice – ora tocca a voi, uno alla volta“.

Il primo: don Daniele si inginocchia con lui e lo fa insieme con lui.

Il secondo esce dalle panche. Anche col secondo, lo fa di nuovo. Ora è il turno della ricciolina. Anche lei può contare sul gesto del suo prete. Lo copia. Guarda lui e guarda l’altare, se ne va sorridente e quasi di corsa.

Tocca all’altro. Primo banco finito. Via il secondo, il terzo. Ora iniziano a fluire dall’altra navata. E il sacerdote con tutti, con ognuno di loro, si inginocchia e ripete il gesto. Ginocchio a terra-segno di croce ampio.

Si rialza.

Quaranta volte, circa.

Finiti i bambini. Si gira di nuovo verso l’altare e si genuflette segnandosi con la croce. Di nuovo.

Ma stavolta era a nome suo.

Il Re è sempre lì.




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