Si avvicina il 31 ottobre, data di conclusione del “giubileo luterano”. L’occasione è propizia per ricordare che non vi fu alcuna affissione delle tesi a Wittenberg, 500 anni fa, nonché per ricordare i contenuti (largamente condivisibili) di quelle osservazioni critiche
Ho ancora nitidissima alla memoria la forte impressione che mi fece la statua color amaranto di Martin Lutero piazzata accanto a Papa Francesco, in Aula Paolo VI, il 13 ottobre 2016. Più di un anno è trascorso, ma ricordo come fosse ieri che restai interdetto per qualche istante, per poi sbottare in una risatina: «Oh, beh… se non è un problema per loro…». E con “loro” intendevo appunto i luterani, ma per estensione tutti i protestanti, che venivano in Vaticano a esibire un segno evidente di una devozione agiografica al fondatore della loro denominazione ecclesiale.
500 anni dopo
Già, perché a prescindere dal culto alle immagini – che alcune ramificazioni del protestantesimo avversano meno di altre – è un fatto che attorno all’agostiniano di Eisleben sia stata irradiata una precocissima leggenda agiografica, e questo è quantomeno bizzarro per una confessione che – nella sua semplificazione più banale (ma più comune e diffusa) – si oppone al culto dei santi. Dico “precocissima” perché il suo primo tassello riguarda probabilmente la “famosa” affissione delle 95 tesi sul portale della chiesa del castello di Wittenberg. Fatto comunque antecedente alla vera e propria rottura con Roma, se ancora il 28 agosto 1518 Lutero scriveva a Spalatino: «Non sarò mai un eretico. Posso sbagliare discutendo, ma non voglio stabilire nulla». Fatto, ad ogni modo, di nessuna consistenza storica, quantunque l’epopea luterana vi si sia data un proprio punto α. Non per nulla, lo scorso 31 ottobre Papa Francesco era a Lund a commemorare l’avvio della riforma e a ringraziare per il mezzo secolo di cammino ecumenico. In quel contesto, con grande equilibrio il Santo Padre disse:
[…] Dobbiamo guardare con amore e onestà al nostro passato e riconoscere l’errore e chiedere perdono: Dio solo è il giudice. Si deve riconoscere con la stessa onestà e amore che la nostra divisione si allontanava dalla intuizione originaria del popolo di Dio, che aspira naturalmente a rimanere unito, ed è stata storicamente perpetuata da uomini di potere di questo mondo più che per la volontà del popolo fedele, che sempre e in ogni luogo ha bisogno di essere guidato con sicurezza e tenerezza dal suo Buon Pastore. Tuttavia, c’era una sincera volontà da entrambe le parti di professare e difendere la vera fede, ma siamo anche consapevoli che ci siamo chiusi in noi stessi per paura o pregiudizio verso la fede che gli altri professano con un accento e un linguaggio diversi. Papa Giovanni Paolo II diceva:«Non dobbiamo lasciarci guidare dall’intento di ergerci a giudici della storia, ma unicamente da quello di comprendere meglio gli eventi e di diventare portatori di verità» (Messaggio al Cardinale Johannes Willebrands, Presidente del Segretariato per l’Unità dei Cristiani, 31 ottobre 1983).Dio è il padrone della vigna, e con amore immenso la nutre e la protegge; lasciamoci commuovere dallo sguardo di Dio; l’unica cosa che egli desidera è che rimaniamo uniti come tralci vivi a suo Figlio Gesù. Con questo nuovo sguardo al passato non pretendiamo di realizzare una inattuabile correzione di quanto è accaduto, ma «raccontare questa storia in modo diverso» (Commissione Luterana-Cattolica Romana per l’unità, Dal conflitto alla comunione, 17 giugno 2013, 16).
Tale racconto non può e non deve essere una contraffazione: si tratta di liberarsi da personalismi e campanilismi, guardando al passato come a un retaggio di cui necessariamente si perpetuano alcuni segni, ma che non per questo siamo condannati a rivivere. Ricordo che una sera passeggiavo sul Lungotevere con un caro amico che lavora alla Segreteria di Stato vaticana: il profilo del “cuppolone” che si accendeva sull’ultimo imbrunire era intensissimo e suggestivo. Presi un respiro e, annuendo all’immensa mole michelangiolesca, che si stagliava nel buio turchina, petrina e mariana insieme, dissi: «Certo che avevano ragione, gli scolastici medievali: “Non sunt facienda mala ut eveniant bona [non bisogna fare cose cattive perché ne conseguano di buone, N.d.R.]”, però guarda quanta bellezza ne è venuta fuori – davvero, mentre dal bene viene solo il bene, dal male viene qualunque cosa». E lui, con un sorriso agrodolce: «Certo, è un peccato aver dovuto provocare la rottura luterana con quelle indulgenze, ma ormai la fabbrica era avviata e bisognava pur pagare gli architetti, gli ingegneri, i muratori, le maestranze…».
E quello scambio di battute non turbò l’atmosfera: come quando un uomo guarda indietro alla propria vita, e immancabilmente vi scorge errori più o meno grandi, non può permettersi di aggiungere a quelli la confusione tra il giusto pentimento per le colpe e l’ingiusta vergogna di chi non si sia perdonato. Difatti il salmista scrive:
Nel cuore dell’empio parla il peccato,
davanti ai suoi occhi non c’è timor di Dio.
Poiché egli s’illude con sé stesso
nel ricercare la propria colpa e detestarla.Sal. 35 (36), 2-3
E difatti salutando i luterani convenuti in Vaticano quel 13 ottobre il Papa soggiunse, rivolgendosi in particolare ai giovani (ché più di altri potranno vedere maturare i frutti del dialogo):
Mentre i teologi portano avanti il dialogo nel campo dottrinale, voi continuate a cercare con insistenza occasioni per incontrarvi, conoscervi meglio, pregare insieme e offrire il vostro aiuto gli uni agli altri e a tutti coloro che sono nel bisogno. Così, liberi da ogni pregiudizio e fidandovi solo del Vangelo di Gesù Cristo, che annuncia la pace e la riconciliazione, sarete veri protagonisti di una nuova stagione di questo cammino, che, con l’aiuto di Dio, condurrà alla piena comunione.
Ecco, parte di questo lavoro teologico sarà senz’altro la ricostruzione storica dei fatti e delle reali motivazioni che li mossero, poiché da una parte e dall’altra un certo numero di buone ragioni furono intorbidite da forti dosi di interessi estranei al Vangelo. E che il pellegrinaggio dei luterani partisse dalla Sassonia e terminasse a Roma, con una statua del monaco tedesco all’ombra di quella cupola per cui tante ingiustizie furono perpetrate, è assieme un caso buffo e una fonte di speranza. Se possiamo sorriderne insieme, senza volercene, forse è il momento buono per ripercorrere i nudi fatti.
Una sporca vicenda
In Italia la figura di Lutero è vittima anzitutto di un grave male, che è la profonda disinformazione: decenni di egemonia culturale di un partito avverso a ogni religione e dominato dall’ideologia del materialismo storico hanno prodotto libri di testo che dipingono il monaco di Erfurt e Wittenberg come un fustigatore dei malcostumi della curia romana.
Su questo primo male ne campeggia un altro, uguale e contrario in principio, ma forse perfino deteriore in effetto: la tronfia “contro-informazione” di chi, nel vuoto generale, si nomina “esperto” in materia e prende a pubblicare testi – basati unicamente o quasi su letteratura secondaria – in cui Lutero oscilla tra il macchiettistico, l’orrendo e il diabolico. Tali “apologeti” (titolo che gli stessi amano appiccarsi sul petto…) sono solitamente dei semplici laureati in lettere, il cui curriculum non lascia intravedere titoli adatti a intervenire adeguatamente in merito.
Per contro, si minimizza assolutamente il contesto di grave decadenza – non solo e non tanto morale, ma soprattutto dottrinale e canonistica! – in cui si consumò la vicenda luterana, e con questo non si rende ragione neppure alle secolari spinte riformatrici che nell’alveo ecclesiale lavoravano lungo i secoli (ciò che ci si aspetterebbe invece da una buona apologetica).
Poiché dunque la “vendita delle indulgenze” viene trattata o come un tema generale, quasi che Lutero lo avesse affrontato in astratto, o come un irragionevole malcostume ecclesiastico (i comunisti che hanno scritto i libri di testo capivano benissimo cosa fosse una “vendita”, ma neanche un poco che fossero le “indulgenze”…), cerchiamo di ripercorrere qualche fondamentale.
La miccia fondamentale del caso furono l’avidità e l’ambizione ecclesiastiche di Alberto, arcivescovo di Magdeburgo, che aveva aggregato alla propria giurisdizione anche la diocesi di Halberstadt e mirava a incamerare pure quella – enormemente più importante – di Magonza, che da tre anni si era resa vacante (cioè disponibile). Chiariamo per le anime pie: non si trattava di zelo missionario, bensì di auri sacra fames, giacché le diocesi, come ogni possedimento ecclesiastico, fruttavano rendite (leggi: soldi) a chi ne deteneva i diritti – ai sacerdoti, agli abati, ma soprattutto a vescovi e cardinali. A questa depravazione fondamentale se ne aggiungevano una generale e una particolare: quella generale era l’abuso (normalizzato) per cui si poteva essere titolari di più di una diocesi (un male fortunatamente debellato già dal Concilio di Trento, almeno in nuce); quella particolare era il fatto che l’arcivescovo di Magonza, che era primate di Germania, fosse anche un elettore imperiale – e visto che il fratello di Alberto era Gioacchino, principe di Brandeburgo, l’accaparrarsi il titolo primaziale avrebbe significato la concentrazione nelle mani dei due fratelli di due voti su sette per l’attribuzione del titolo di imperatore.
Il giochino non poteva piacere ai concorrenti, si capisce, e anche la Curia Romana dovette essere “persuasa” adeguatamente dell’opportunità di una simile concentrazione di potere nelle mani di Alberto e Gioacchino: caso volle che sul trono di Pietro sedesse il molle, raffinato (ed effeminato) Leone X Medici – la stessa decadenza di Papa Borgia, ma priva del nerbo virile dello Spagnolo – e il Fiorentino aveva una vita di corte assai costosa (chi non ricorda le tristi vicende di Annone, suo amatissimo elefante albino?), nonché il gusto per imprese architettoniche fastose. Una tra tutte, l’alimentazione della costosissima Fabbrica di San Pietro, che il Medici aveva ricevuto in eredità dal bellicoso Giulio II Della Rovere (quello della “messa armata”).
Quel denaro fu il punto di contatto dei molteplici interessi: l’episcopato di Magonza sarebbe costato 14mila ducati (le “tasse di nomina” erano un’altra svergognata trovata della Curia romana per spillare soldi in giro per il mondo) e Alberto si offrì di pagarne 10mila in più, e sgravando del tutto la cittadinanza dal contributo alla spesa (cosa che doveva garantirgli l’accoglienza pacifica in città). Se 24mila ducati fosse stata cifra da tasche di nobili qualunque, già altri avrebbero fatto simili offerte: Alberto ebbe bisogno di un banchiere, e lo zelante Jacob Fugger si offrì di anticipare la somma. Come contropartita chiedeva la metà delle rendite di una concessione di indulgenze, per la durata di otto anni, indetta apposta nelle diocesi di Alberto. L’altra metà della torta, invece, doveva finire a Roma ad alimentare la dispendiosissima Fabbrica di San Pietro.
Leone X accennò soltanto al decoro del Principe degli Apostoli, nella bolla di concessione delle indulgenze, tralasciando la questioncina dell’enorme debito contratto dalle Chiese con il banchiere… Alberto, da parte sua, si diede da fare per mungere allo sfinimento le sue diocesi – le sole sulle quali potesse contare, visto che gli altri vescovi vedevano bene a che gioco giocasse e temevano di aiutarlo a conseguire tutto quel potere –: finì per “ritoccare” anche le disposizioni papali, che proibivano di commutare in indulgenze i voti religiosi e di castità… Alberto rifece il mazzo e diede altre carte: se pagavano bene, uomini e donne potevano dispensarsi dai voti religiosi (purché non fossero quelli solenni!)… non ho mai capito dove prendessero i soldi persone che avevano fatto voto di povertà, ma forse non serve indagare così puntigliosamente…
Wittenberg, dove il giovane Lutero, già prete, insegnava da qualche anno, non era sotto la giurisdizione di Alberto, e quindi i predicatori delle indulgenze (missionari speciali che giravano portandosi dietro forzieri vuoti da riportare pieni) non vi avevano accesso: il Vescovo, a dire il vero, aveva dato il suo permesso (per quanto la causa non gli stesse a cuore quanto al confratello), ma fu il Principe a porre un netto veto. Anche qui, non bisogna illudersi sulle intenzioni di Federico di Sassonia – detto “il Saggio” soprattutto perché era furbo, non perché fosse un novello Teodosio – il quale aveva riempito di reliquie la Schlosskirche di Wittenberg appunto per beneficiare delle indulgenze di quanti vi accorrevano a venerarle. C’è poco da fare gli schizzinosi: l’università di Lutero, eretta da Federico sotto il patronato di san Paolo e di sant’Agostino, costava bei soldi.
Quanto alle indulgenze, un poco si era confusa la dottrina sulle colpe con quella delle pene temporali (per cui l’offerta sembrava assurgere in sé stessa a un vero valore sacramentale!), un poco si era enfatizzato il senso cristiano del suffragio per i defunti (pratica antica e fondata nelle Scritture, checché se ne dica) facendolo diventare una specie di automatismo… ed ecco che ovunque si apriva la frontiera della compravendita del Paradiso. Sì, è vero: Martino V l’aveva scritto nella bolla Inter cunctas, che era la confessione sacramentale, e non l’offerta, a rimuovere le colpe… E certo, si sa: Tommaso d’Aquino aveva spiegato nelle sue Quodlibetales che «una singola opera o un’offerta in denaro non possono cambiare il cuore di una persona» (II, 8)… Ma che volete? Leone X, ancor più che la Fabbrica di San Pietro, aveva una corte fastosa da mandare avanti e tanti camerieri compiacenti a cui fare regali carini… e Alberto di Magonza era lanciato col fratello nell’arrampicata socio-politica che abbiamo detto: che c’entrano il diritto, la teologia e il Vangelo?
Un’altera leggenda
Ciò detto, vediamo che cosa accadde a Wittenberg il 31 ottobre 1517; e vediamo prima, anzi, che cosa non accadde, lasciando la parola al gesuita Giancarlo Pani, famoso studioso di storia moderna e contemporanea.
Il fatto [l’affissione delle 95 tesi al portale della Schlosskirche di Wittenberg, N.d.R.] è attestato da un solo documento, redatto da Melantone nel 1546, qualche mese dopo la morte del riformatore: «Lutero scrisse le Tesi sulle indulgenze e le affisse pubblicamente alla chiesa che è accanto al castello di Wittenberg, la vigilia della festa di Ognissanti, nell’anno 1517».
La testimonianza di un personaggio quale Melantone, così vicino a Lutero e alle origini della Riforma, ha certamente un notevole valore. Occorre tuttavia tener presente che nel 1517 Melantone non era a Wittenberg, e quindi non poteva essere un testimone oculare. A questa data ha 17 anni ed è un giovane studente a Tubinga; è giunto nella Sassonia nel 1518, e quindi non ha una conoscenza dei fatti precedentemente accaduti.
Giancarlo Pani, L’affissione delle 95 tesi di Lutero: storia o leggenda?, in La Civiltà Cattolica 3993, 213.
Non si tratta dell’isolata opinione di un gesuita cattolico: fin dal 1961 Erwin Iserloh pose la questione (Luthers Thesenanschlag, Tatsache oder Legende?, in Trierer Theologischer Zeitschift 70), ampliando l’anno dopo lo studio in un opuscolo, a sua volta ampliato e approfondito nel 1966 (Luther zwischen Reform und Reformation. Der Thesenanschlag fand nicht statt): quest’ultimo libro fu tradotto in italiano quattro anni dopo (Lutero tra riforma cattolica e protestante), e di lì a cascata l’argomento è stato sviscerato in lungo e in largo, almeno nel mondo accademico. La leggenda dell’affissione delle tesi al portale della chiesa del castello di Wittenberg (quella piena zeppa di reliquie che dicevamo sopra) è pura agiografia protestante, e se ci fermassimo a questo dato non faremmo che opera di iconoclastia.
Ora, l’iconoclastia può essere anche cosa molto meritoria – per esempio quando si distruggono gli idoli e si liberano così gli idolatri dalle loro suggestioni – ma non potrà arrivare a questo stadio se si attesta su un “quindi abbiamo ragione noi”. No, tutt’altro: il fatto che Lutero non abbia fatto ciò che Melantone avrebbe poi attestato subito dopo la morte dell’ex monaco ci dice qualcosa sia sulle tesi sia su chi le scrisse. Dice ancora Pani:
Le Tesi non sono una protesta o una sfida all’autorità ecclesiastica, ma rivelano un problema di coscienza, posto da un docente di teologia, che chiede al proprio vescovo una chiarificazione, innanzitutto per se stesso e poi per il bene della Chiesa. Affiggerle in pubblico avrebbe messo in dubbio la sincerità di una persona che si pone onestamente e con responsabilità un problema pastorale importante e cerca aiuto per risolverlo.
Ivi, 214.
Parole su cui riflettere lungamente, soprattutto perché molti di quanti al giorno d’oggi volentieri danno del “luterano” a destra e a manca (dal Papa in giù) mancano quasi sempre della prudenza e della carità che invece – a quanto risulta da una buona critica storica – Lutero stesso ebbe.
Ciò che invece accadde, il 31 ottobre del 1517, fu la stesura di due lettere: la prima a Hieronimus Schulze, cioè al proprio vescovo, e l’altra ad Alberto di Magonza. Malauguratamente solo la seconda è stata strappata all’oblio dei secoli, e proprio grazie a Lutero che nel 1545 ne riportò il testo nell’edizione a stampa delle sue opere in latino (altra cosa: che senso avrebbe avuto affiggere in pubblico un testo che nessuno capiva?). Ne riportiamo qualche passaggio:
Nessun uomo è sicuro della propria salvezza. […] Anzi, l’Apostolo ci comanda di operare per la nostra salvezza in timore e tremore [cf. Phil. 2, 12]. […] Le indulgenze non danno niente di buono alle anime per quanto riguarda la loro salvezza e santificazione. […] Inoltre le opere di pietà e di carità sono infinitamente migliori delle indulgenze. […]
La prima e unica missione di ogni vescovo deve essere che il popolo conosca l’evangelo e l’amore di Cristo. Mai infatti il Cristo comandò di predicare le indulgenze, ma con grande insistenza comandò di predicare l’evangelo. Quanto grande è perciò l’errore e il pericolo per un vescovo se, taciuto l’evangelo, non permette tra il suo popolo se non il baccano delle indulgenze e si cura più di queste che dell’evangelo! […]
Una lettera dura, senza dubbio, ma non di rottura: anzi si consiglia al Vescovo di ritirare la lettera che era stata redatta a suo nome ma di cui – scrive sornione Lutero – egli era certamente ignaro. Solo a quel punto, quasi a mo’ di esemplificazione delle molteplici obiezioni che uno in possesso dei ferri del mestiere avrebbe potuto muovere a una simile proposta pastorale-dottrinale, sciorina le “95 tesi”.
E le “tesi” – almeno molte di esse – sono belle, bellissime e spiritualmente arricchenti. Ad esempio la quarantesima:
La sincerità della contrizione cerca e ama le pene, invece l’abbondanza delle indulgenze ne attenua il desiderio e fa odiare le pene.
Come dargli torto? Il nostro Dante non avrebbe detto meglio: tutto il suo Purgatorio (il quale non è un’invenzione dei venditori di indulgenze, appunto) è un’esaltazione del desiderio delle pene motivato dalla contrizione sincera.
Anche del Papa Lutero parla, quantunque ironicamente (e sfido: di fronte a un Leone X…), con lealtà e rispetto filiale. Ad esempio nella cinquantesima tesi:
Se il Papa conoscesse le estorsioni dei predicatori di indulgenze, vorrebbe che la basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che la si edificasse sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecore.
E bisogna tener presente anche il “fervore in termini di marketing e comunicazione” dei predicatori, a cui era assegnato l’ingrato compito di trasformarsi in gabellieri del Cielo per ripianare un debito che dire “della terra” è dire poco. Il domenicano Johannes Tetzel fu spesso l’oggetto dell’acredine polemica di Lutero (che quando ci si metteva, da parte sua, non era secondo neanche a spiriti caustici come Voltaire…): la settantacinquesima tesi, però, ci restituisce in un brivido fino a che punto la brava gente delle province tedesche potesse essere psicologicamente forzata a versare i propri risparmi nelle cassette dei predicatori (ovvero nei forzieri di Jacob Fugger).
Ritenere che le indulgenze papali siano tanto potenti da poter assolvere un uomo anche se questi avesse violentato la Madre di Dio è essere pazzi.
E vorrei vedere chi sosterrebbe il contrario, non solo oggi ma già all’epoca (anche avversari di Lutero come il Cochläeus, l’Emser e il duca Giorgio di Sassonia accolsero favorevolmente il documento): dire oggi che il convenire su quei punti sarebbe stata solo una questione di convergenza di interessi significa essere mossi, nelle proprie analisi storiografiche, da pesante pregiudizio.
Peraltro Lutero stesso fu sorpreso della diffusione e del favore che le tesi ricevettero: il loro testo girò fin da poco prima del Natale del 1517, ma
- le tre edizioni a stampa più antiche furono impresse a Norimberga, a Lipsia e a Basilea, mentre manca all’appello proprio Wittenberg (il che fa dubitare di una disposizione del monaco agostiniano in merito);
- un’edizione critica dei testi più antichi mostra l’impossibilità di risalire a un unico apografo – allo stato attuale delle fonti documentarie –, il che conferma l’impressione derivata dall’altro elemento.
Homo religiosus
Quello che emerge da queste considerazioni, insomma, è che sono ancora gravide di responsabilità, nell’oggi e per il nostro avvenire, le parole di san Giovanni Paolo II pronunciate nel corso di un incontro con i vescovi della chiesa luterana di Danimarca:
Questi colloqui hanno incrementato in vari modi la collaborazione tra le nostre Chiese. Tuttavia esistono ancora, in tempi di dialogo ecumenico, dei grandi ostacoli. Molti ne individuano uno nella persona di Martin Lutero e nella condanna di alcuni suoi insegnamenti che la Chiesa cattolica aveva in quei tempi pronunciato. I risultati della sua scomunica hanno prodotto ferite profonde che, ancora, dopo più di quattrocentocinquant’anni non si sono rimarginate e che non possono esser sanate attraverso un atto giuridico. Dopo che la Chiesa cattolica ha compreso che la scomunica ha fine con la morte di ogni uomo questo tipo di provvedimenti sono visti come misure nei confronti di qualcuno finché è in vita. Quello di cui oggi noi abbiamo bisogno soprattutto è una valutazione nuova e comune dei molti interrogativi che sono sorti da Lutero e dal suo messaggio. Per questo motivo ho potuto affermare nel corso della ricorrenza dei cinquecento anni della nascita di Martin Lutero: “Nella pratica gli sforzi scientifici dei ricercatori evangelici e di quelli cattolici, che, nel frattempo, hanno raggiunto lusinghieri risultati, hanno condotto ad un pieno e differenziato panorama della personalità di Lutero e ad un complicato intreccio degli eventi storici nella società, nella politica e nella Chiesa della prima metà del XVI secolo. Ciò che è comunque emerso in modo convincente è la profonda religiosità di Lutero che ardeva dell’ansia bruciante per il problema della salvezza eterna” (Epistula Em.mo P. O. Ioanni Willebrands, V expleto saeculo ab ortu Martini Luther, missa, die 31 oct. 1983: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI, 2 [1983] 980).
“Homo religiosus”, lo definì uno degli ultimi successori di Leone X. Speriamo che lo zelo per il trono e per l’altare non ci suggerisca di difendere il Fiorentino contro il Polacco: abbiamo cose migliori da fare.