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“L’Equilibrio”, un film che vi metterà alla prova

Lucandrea Massaro - Aleteia Italia - pubblicato il 29/09/17

Un'opera che è uno schiaffo ma anche una opportunità per riflettere sulla missione

Il film di Vincenzo MarraL’Equilibrio” ci interessa due volte, uno perché è un bel film (forse un po’ lento all’inizio ma di sicuro impatto nel suo svolgimento e nel finale amaro) e due perché parla di preti.

Il giovane prete missionario in Africa, dopo una breve permanenza a Roma e tormentato da una presunta attrazione fisica, chiede di ritornare nel napoletano, territorio di origine. Ovviamente dovrà prendersi carico di una realtà drammatica, tra boss del quartiere, assenza delle istituzioni e la piaga dei rifiuti tossici. L’equilibrio si spezza subito, perché Don Giuseppe sente di voler intervenire in faccende che non dovrebbero riguardargli, che vanno oltre i confini della parrocchia, oltre i confini della confessioneC’è una capra al centro del campetto di calcetto e i ragazzini sono costretti a giocare per strada. Don Giuseppe sfratta il quadrupede di proprietà malavitosa e da lì ha avvio il calvario. Viene esortato più volte a tenersi in “equilibrio”, si arriva anche alle minacce, ma Don Giuseppe è spinto dalla volontà di portare un reale e concreto cambiamento. Si può certo immaginare come andrà a finire. Le alternative sono due: restare morti ammazzati o farsi cacciare dalla Curia (Sentieri Selvaggi)

Nella stringata citazione della recensione che vi abbiamo proposto si dice poco di entrambi i sacerdoti che vengono tratteggiati nel film: c’è Don Giuseppe, il protagonista del film, in crisi ma ancora attratto dal Vangelo (non ringrazieremo mai abbastanza il regista per non aver voluto indulgere in una ennesima figurina di prete che tradisce il celibato) sebbene – da uomo – senta l’affetto verso l’amica con cui collaborava nella sua cura dei migranti e, si intuisce, della missione africana dalla quale è tornato. No Don Giuseppe resta fedele e chiede di essere trasferito e mette quella passione per il Vangelo al servizio di una comunità, la sua, che forse – e qui arriviamo al secondo prete – non conosce più nella sua complessa condizione. Va a sostituire il più anziano Don Antonio, parroco amato dalla comunità che lotta contro l’interramento dei rifiuti e l’avvelenamento del territorio. E’ tutt’altro che un prete “fighetto“, combatte perché i suoi parrocchiani, il suo gregge, muore senza un perché ammazzato dal cancro come le mosche. Don Antonio mantiene lo status quo con la malavita locale, permette alcuni abusi e questo ce lo fa disprezzare, attirandoci le simpatie di Don Giuseppe (arriva un momento in cui si comprende che hanno entrambi le proprie ragioni) che invece è più battagliero (e la sua intransigenza salverà una bambina di 10 e sua madre dagli abusi). Ma Don Antonio è un prete che deve fare i conti con una situazione infernale in cui la parrocchia è l’unica oasi di luce in un mare di tenebre. Solo così può mettere nei bambini un seme di speranza e di riscatto. Non fa tutto quello che ci si aspetta da un prete santo, è vero, ma è quello che può fare nelle tante parrocchie delle periferie del mondo, quelle complicate di Scampia o dello Zen a Palermo. Quelle magari degli slum in India o in Brasile, ma restiamo in Italia.

Il film di Vincenzo Marra parte con delle buone intenzioni, ovvero tracciare il ritratto di un sacerdote che da solo si batte per la legalità e il bene della comunità, in un contesto dove la malavita dilaga e lo Stato ha il passo incerto. Il regista inoltre mette in campo due modi di vivere il ministero sacerdotale: quello del sacerdote più esperto, don Antonio, che però rischia di essere in una posizione di collusione con la malavita pur di tenere in piedi la parrocchia; quello del sacerdote più giovane, don Giuseppe, dal passato come missionario, che si indigna senza timore contro una condizione sociale asfittica e degradante. Marra ha più volte dichiarato la sua intenzione di voler girare un film cristologico, che richiamasse la figura di Cristo a contatto con le sofferenze della vita oggi. Tenendo conto di questa idea di fondo, il film “L’equilibrio” comincia nella giusta direzione, denunciando un ambiente statico e corrotto, una denuncia che sgorga da un testimone del Vangelo, da un sacerdote che non si vuole piegare davanti alle continue intimidazioni. Don Giuseppe avanza in un ambiente indifferente e ostile ai limite della violenza, solo e abbandonato. Tutti elementi che richiamano la passione di Cristo. Tutto questo però non basta a farne un film cristologico, perché in chiusura del racconto don Giuseppe, dinanzi a nuove pressioni e la mancanza di aiuto da parte della propria comunità e del vescovo, alla fine fa un passo indietro, lascia la croce. Non smette di occuparsi dell’altro, di chi ha bisogno, ma sembra sottrarsi deluso al proprio ministero sacerdotale. Ne esce così il ritratto non di un sacerdote espressione di una Chiesa incidentata e in uscita, richiamando le parole di papa Francesco, ma di una Chiesa in ritirata, che non trova altra soluzione se non quella della resa o del compromesso (Sir).

Ascoltando il regista – incontrato il 27 settembre durante la proiezione del film nella Filmoteca Vaticana – si sente la volontà di definire e di immaginare Don Giuseppe come un prete che non ha paura, che non vuole accordarsi allo status quo, che può subire sconfitte ma che risulta vittorioso, riuscendo a salvare più di una persona, compreso il banditello Saverio, mandato ad ucciderlo ma che rotto nel pianto fuggirà senza finire l’opera. La Camorra non perdonerà Saverio, ma per il cristiano quel pentimento vale più della vita stessa, è una promessa di Paradiso. Insomma il film secondo noi è sia utile ad una bella discussione, sia a farsi mettere in discussione, sia a pensare che la Chiesa si tiene in equilibrio sui Don Antonio (necessari per certi versi) ma progredisce nei Don Giuseppe, e che il cammino non è finito…

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