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Vorrei essere “bergogliano” come Ratzinger

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AFP / L'Osservatore Romano

Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 19/09/17

Marco Politi individua nel cardinal Müller il “nuovo campione dell'antibergoglismo”, e sostanzia la sua affermazione con la narrazione di fatti emblematici. Sul fronte opposto, bisogna registrare la gravissima defenestrazione di Seifert da Granada. Senza dubbio il più alto e puro modello di fedeltà al Papa regnante è dato dalla condotta di Benedetto XVI.

Amo quella sapienza discreta e insistente con cui la Chiesa, proprio all’inizio dell’anno sociale – e dunque per lei dell’“anno pastorale” – si fa fare una bella lavata di capo. Se la fa da sé, naturalmente, perché nessuno può lecitamente giudicare quella che è destinata a giudicare il mondo. Però non ci va giù leggera, laddove ogni anno la sua Liturgia delle Ore (almeno secondo il rito romano) torna a proporre e a propinare a tutta la gerarchia ecclesiastica, dal Papa in giù, l’invettiva contro i cattivi pastori del libro di Ezechiele e il “discorso sui pastori” di Agostino.

Due discorsi di fuoco

Giusto oggi [ieri, N.d.R.] l’ufficio delle letture riportava questo tremendo passo profetico:

In quei giorni, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Tu, figlio dell’uomo, ascolta ciò che ti dico e non esser ribelle come questa genia di ribelli; apri la bocca e mangia ciò che io ti do». Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all’interno e all’esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai. Mi disse: «Figlio dell’uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: «Figlio dell’uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va’, recati dagli Israeliti e riferisci loro le mie parole, poiché io non ti mando a un popolo dal linguaggio astruso e di lingua barbara, ma agli Israeliti: non a grandi popoli dal linguaggio astruso e di lingua barbara, dei quali tu non comprendi le parole: se a loro ti avessi inviato, ti avrebbero ascoltato; ma gli Israeliti non vogliono ascoltar te, perché non vogliono ascoltar me: tutti gli Israeliti sono di dura cervice e di cuore ostinato. Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro fronte. Come diamante, più dura della selce ho reso la tua fronte. Non li temere, non impaurirti davanti a loro; sono una genia di ribelli». Mi disse ancora: «Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi: poi va’, recati dai deportati, dai figli del tuo popolo, e parla loro. Dirai: Così dice il Signore, ascoltino o non ascoltino». Al termine di questi sette giorni mi fu rivolta questa parola del Signore: «Figlio dell’uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Se io dico al malvagio: Tu morirai! e tu non lo avverti e non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta perversa e viva, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu ammonisci il malvagio ed egli non si allontana dalla sua malvagità e dalla sua perversa condotta, egli morirà per il suo peccato, ma tu ti sarai salvato. Così, se il giusto si allontana dalla sua giustizia e commette l’iniquità, io porrò un ostacolo davanti a lui ed egli morirà; poiché tu non l’avrai avvertito, morirà per il suo peccato e le opere giuste da lui compiute non saranno più ricordate; ma della morte di lui domanderò conto a te. Se tu invece avrai avvertito il giusto di non peccare ed egli non peccherà, egli vivrà, perché è stato avvertito e tu ti sarai salvato»(Ez 2, 8 – 3, 11. 16-21.).

e quest’altro, non meno terribile, di Agostino:

Vediamo che cosa dice la parola di Dio, che non adula nessuno, ai pastori attenti a pascere piuttosto se stessi che non le pecore: «Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di bestie selvatiche: sono sbandate» [Ez 34, 3-5]. Ai pastori, che pascono se stessi invece del gregge, si muove rimprovero per ciò che pretendono e per ciò che trascurano. Che cosa pretendono dunque? «Voi vi nutrite di latte e vi coprite di lana». L’Apostolo si domanda: «Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? O chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge?» [1 Cor 9, 7]. Vediamo dunque che per latte del gregge si intende tutto ciò che il popolo di Dio offre ai suoi capi per procurare loro il vitto temporale. Infatti di questo intendeva parlare l’Apostolo con le parole che ho citato. In verità l’Apostolo, quantunque avesse preferito mantenersi con il lavoro delle proprie mani e non cercasse il latte delle pecore, tuttavia rivendicò il diritto di prendere il latte, perché il Signore aveva disposto che coloro che annunziano il Vangelo vivessero del Vangelo [cf. 1 Cor 9, 14]. Ed in proposito affermò che gli altri apostoli, suoi colleghi, avevano fatto valere questo diritto, certo legittimo, non abusivo. Egli andò oltre, rinunziando anche a quello che gli era dovuto. Con ciò non è detto che gli altri abbiano preteso una cosa indebita, ma semplicemente che egli volle fare più di quanto era strettamente richiesto. Forse colui che condusse all’albergo il ferito e disse: «Ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno» [Lc 10, 35], voleva indicare proprio questo comportamento dell’Apostolo. Che diremo dei pastori che non esigono latte dal gregge? Che sono più generosi degli altri o meglio che esercitano più largamente degli altri la generosità pastorale. Lo possono fare, e lo fanno. Si lodino pure costoro, tuttavia non si condannino gli altri. Infatti lo stesso Apostolo non andava in cerca di donativi, e tuttavia voleva che i fedeli fossero operosi e produttivi e ricchi di frutti(Aug., s. 46, 3-4; CCL 41, 530-531.).

E ogni anno i due testi procedono – a meno che non intervenga qualche festa o solennità a scagionare gli oranti – col martellare incessantemente «i pastori che fanno i proprî interessi e non quelli di Cristo». E cioè?

Quanti pascono sé stessi

E se bastasse un “penitenziale”, ovvero uno di quei bei sussidiarî dei confessori medievali, insomma un “calmiere dei peccati”, per capire chi è che pensa a pascere sé stesso, saremmo tutti un pezzo avanti. Il problema è che – se in questo preciso passaggio Agostino sembra soprattutto rivolto ai sacerdoti che sfruttano il ministero sacerdotale per accumulare ricchezze (e spogliare la Chiesa di Cristo per arredare casa propria è un crimine laido) – sappiamo esserci molti modi per pascere sé stessi: ci sono gli ecclesiastici assetati di fama e di visibilità, quelli assetati di potere, quelli assetati di popolarità… quasi tutti sono in preda a una qualche ben precisa specie di vanità: rispettivamente, ad esempio, si avranno la vanità del possedere, quella del comandare e quella del godere (le solite tre tentazioni del deserto, a ben vedere: tutta fuffa infernale, ma ci fa lo stesso effetto che sugli indigeni delle “Indie” facevano le biglie di Colombo).

Ma ci sono anche altre vanità, e dottori come Giovanni Della Croce avrebbero scritto invano se noi non fossimo ormai smaliziati in materia di vizî spirituali: si può essere attratti dalle sicurezze che il fascino della disciplina millanta, per esempio; ancora, si può essere ingannati anche dalla presunzione della “retta dottrina” e perfino dall’illusione di un’intensa vita di preghiera. Sono sottilissime contraffazioni delle virtù teologali, queste, che spacciano per speranza, fede e carità delle molto raffinate evoluzioni della carnalità, le quali nondimeno restano ciò che sono. Non mi stanco mai di rimuginare questo passo dell’Imitazione di Cristo:

Multum facit, sive bene facit, qui magis comitati quam suæ voluntati servit. Sæpe videtur esse caritas, et est magis carnalitas, quia carnalis inclinatio, propria voluntas, spes retributionis, affectus commoditatis raro abesse volunt» [«Molto fa – cioè “fa bene” – chi cura più la serena affabilità del tratto che la propria volontà. Spesso sembra essere carità, ed è piuttosto carnalità, perché l’inclinazione carnale, l’amor proprio, la speranza di una ricompensa, il legame a privilegî raramente accettano di farsi da parte»].

(I, XV, II)

E sono d’accordo: riconoscere un prete che si sbraccia per essere ovunque a carezzare la pancia del mondo, o smascherare un vescovo che briga per manomettere documenti sinodali e così forzare la mano al Santo Padre è cosa relativamente semplice; molto meno lo è capire se veramente si può andare dietro tranquillamente a ogni prelato che afferma di star combattendo la “dissoluzione della Chiesa”. E di nuovo, le macchiette alla don Minutella vengono sniffate al volo, dal popolo di Dio, e tutti i seguaci che potranno fare saranno sempre sparute frange di persone confuse; ma come si fa a capire se una persona visibilmente moderata e che non viva flagranti contraddizioni con la fede professata sia animata da genuina carità – perché questo è il punto – o piuttosto da affetti disordinati? In realtà il caso più frequente, come è ovvio, risulta proprio quello di chi è mosso da carità imperfetta più o meno affetta da passioni disordinate. Proprio perché è il caso più frequente, esso è pure il più insidioso, quindi quello che è più utile saper discernere.

Citando il sacerdote-profeta Ezechiele, Agostino elenca una serie di azioni rivelative, che sono importanti perché nel linguaggio parabolico esse non sono più “atti bruti”, e quindi indicano se chi le compie (o no) ha (o no) la disposizione opportuna a guidare il popolo di Dio:

  • Non avete reso la forza alle pecore deboli,
  • non avete curato le inferme,
  • non avete fasciato quelle ferite,
  • non avete riportato le disperse.
  • Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza.
Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di bestie selvatiche: sono sbandate.

E vorrei vederlo, il vescovo che al mattino, dopo aver meditato su queste letture, riceve in episcopio un divorziato risposato e gli dice che va tutto a gonfie vele e che nessuno è in diritto di giudicare la sua vita…

Qualcosa del genere (dunque di profetico) disse anche Mario Brega in Un sacco bello, quando così apostrofava don Alfio che cercava di “discernere” e “accompagnare” il racconto di due figli dei fiori vaneggiando di una fantomatica “Chiesa di oggi”:

Sì, de oggi, de jeri, de domani, de dopodomani… Qua ve sête tutti rincojoniti: se va ’vanti così, padre, pure lei ce se butta dentro a quela piscina! Cor coso de fôri!

E con questo non si stanno certo demonizzando il discernimento e l’accompagnamento – sarebbe un’assurdità – ma bisogna sghignazzare e singhiozzare insieme sulla sciagurata opinione che queste due cose possano stare in piedi senza che il pastore si confronti con le domande che Dio gettò nel cuore di Ezechiele, profeta e sacerdote.

Alla faccia di ogni lobby

Mi ha fatto piacere, in tal senso, partecipare ieri [l’altro ieri, N.d.R.] alla celebrazione eucaristica di mons. Mauro Parmeggiani, nella cattedrale di Palestrina. Vi si celebrava in particolare la festa diocesana della famiglia, e il nuovo amministratore apostolico – che sostituendo un ordinario dimissionario come mons. Domenico Sigalini, pastore dalle parole più che chiare, era in qualche modo “atteso al varco” – si è segnalato per un’insistenza sul fatto che

Papa Francesco viene spesso tirato per la giacchetta, e da tanti…

E giù sul fatto che “famiglia” è unicamente l’unione fedele e feconda di un uomo e una donna nel matrimonio… ma giù anche sul fatto che alle “coppie di fatto” il prelato ha alluso con un’ampia perifrasi riferita alle “situazioni famigliari”.

Mi dicevo allora: stanno bene, i sedicenti teologi cosiddetti progressisti, a improvvisare certi pasticciati “aggiornamenti” (Giovanni XXIII li prenderebbe a calci!) – alla fine sarà sempre e solo il Popolo di Dio a individuare la strada da seguire. Anzitutto la Chiesa – e non le sue correnti, ma neanche i suoi “campioni” – è il soggetto la cui fede Cristo garantisce per sempre.

Due pagine inquietanti

Però ricordo che Manlio Simonetti mi faceva notare, durante i suoi (preziosissimi) corsi, come «ogni volta che nella storia della Chiesa si sono scontrati lassisti e rigoristi sono sempre stati i primi a vincere». Un’affermazione che ogni volta mi lasciava perplesso, perché lì a lezione parlavamo fondamentalmente delle crisi di fede durante le persecuzioni, della riammissione dei lapsi e della nascente disciplina penitenziale. E su quella aveva senz’altro ragione lui. Poi pensavo al rigorismo dei pelagiani – condannati – e a quello dei giansenisti (i quali erano giunti allo stesso punto dei loro nemici giurati facendo un percorso uguale e contrario…) – condannati – e mi chiedevo se davvero il destino storico del cristianesimo sia quello di annacquare sempre di più la radicalità della sua esigenza.

Non ho ancora trovato una risposta definitiva a questa domanda, perché devo ancora considerare e approfondire diverse questioni storiche, ma già mi sentirei di dire che finora il cristianesimo ha sempre bocciato non la radicalità ma il radicalismo, non il rigore ma il rigorismo, e che così facendo è sfuggito (e sempre sfugge) alla deriva catara, che è una sua degenerazione eccentrica, virtualmente sempre possibile.

Lo scisma virtuale

Certo in questi nostri giorni avvertiamo forte la polarizzazione tra i soliti due partiti, che per una circostanza storica eccezionale possono richiamarsi a due capitani (benché i due abbiano sicuro orrore di un simile ruolo riservato loro dalla sorte). Marco Politi lo diceva così, l’altro ieri sul Fatto Quotidiano:

[…] si è capito che esistono oggi nella Chiesa i Benedettini e i Francescani. E questo è un dato di fatto.

Politi, che sa quel che dice ed è generalmente alieno a partigianerie, aveva raccontato dell’attacco frontale sferrato dal cardinal Müller al Santo Padre:

A Mannheim, presentando il suo ultimo libro sulla “missione del Papa”, Mueller ha attaccato nemmeno tanto velatamente la competenza teologica di Francesco. Affidarsi nelle questioni dottrinali soltanto all’“ispirazione dello Spirito Santo” sarebbe gravemente sbagliato, ha suggerito. Poi ha citato il cardinale Bellarmino che nel ‘500 affrontò a brutto muso papa Clemente VIII, dandogli dell’incompetente in questioni teologiche: “Di queste cose Voi non capite niente!”.

Ora san Roberto Bellarmino, la cui memoria liturgica sarebbe ricorsa proprio ieri [l’altro ieri, N.d.R.] (se non fosse stata domenica), voglia scusarci tutti per l’immodestia con cui il suo penultimo successore al Sant’Uffizio si è richiamato alla sua autorità per dare una simile bordata al Papa (Bellarmino disse quelle cose in discorso diretto e privato con Clemente VIII, non a terzi e presentando un libro a mille chilometri di distanza da lui). Quale che sia “la missione del Papa”,  è sicuro che quella della Congregazione per la dottrina della fede non sia affatto «dare struttura teologica a un pontificato», ed è stato ineccepibile Papa Francesco quando ha rintuzzato il cardinale ricordandogli che «il Papa è dottore supremo nella Chiesa».

Vero che anche Papa Francesco si sbaglierebbe (come si sbagliava il predecessore Clemente VIII) se pensasse al potere delle chiavi come a una super-licenza di fare e disfare tutto, nella Chiesa. Solo che non mi pare che Papa Bergoglio abbia di simili velleità: mi sembra anzi che l’attendere le risposte della Chiesa ad Amoris lætitia (Francesco non ha bocciato alcuna delle reazioni, e anzi sembra molto interessato a vedere in che direzione avverrà la ricezione del documento) porti Papa Francesco a cercare – a modo suo – di servire la comunità, più che la propria volontà. Forse Müller, invece, dovrebbe crescere in tal senso – per quanto possa in buona fede identificare le proprie idee col bene della Chiesa.

La persecuzione in atto?

C’è però un’altra terribile pagina di cronaca, che deve far riflettere non meno di quanto inquieti: la cacciata dell’ultrasettantenne professor Josef Seifert dall’Accademia Internazionale di Filosofia (fondata dallo stesso Seifert!) è un momento di chioccia contraddizione del clima di parrhesía di cui il Papa si fa quotidiano mecenate.

La sua colpa sarebbe quella di aver richiamato l’attenzione della comunità scientifica e della Chiesa sulle note questioni di criticità di Amoris lætitia. Mons. Martínez, vescovo di Granada, l’ha cacciato dal suo proprio istituto, argomentando che il saggio del professore

[…] danneggia la comunione della Chiesa, confonde la fede dei fedeli e semina sfiducia verso il successore di Pietro, e ciò finisce per servire non alla verità della fede, ma piuttosto agli interessi del mondo.

Claudio Pierantoni ha individuato in questo episodio «l’inizio della persecuzione ufficiale dell’ortodossia dentro la Chiesa». Io non sono sicuro che questa formulazione apodittica sia ricevibile, ma di sicuro la defenestrazione di Seifert è un fatto gravissimo: se fossi al posto di Papa Francesco mi affretterei a reintegrarlo immediatamente nel suo ufficio.

Bergogliano come Ratzinger

Per me Benedetto XVI resta faro di norma morale anche per come sta gestendo l’inedito ruolo di “Papa Emerito”: a chi mastica di teologia non sfuggirà come le sue formulazioni siano sempre più duttili e sottili di quelle di tanti che pure invocano (talvolta a casaccio) l’autorità di Ratzinger. Ecco, a farmi irreggimentare nelle truppe che corrono dietro a qualche capitano della “pars Benedicti” io non ci sto. Benedetto prega per Francesco tanto quanto questo fa per quello, mette alla porta quanti andando a trovarlo parlano male del suo successore, e in questo dà prova di una lealtà incorruttibile. Ecco, se proprio devo stare dalla parte di Papa Francesco – cosa che precisamente in quanto cattolico mi sento in dovere di fare – voglio starci come ci sta Benedetto XVI.

Tratto da Breviarium

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