di Sebastian Campos
Se non avete letto questo libro vi siete persi gran parte della logica spirituale ebraica sul dolore e la sofferenza. Non racconterò tutta la storia, ma riassumendo Giobbe ha dovuto affrontare calamità tremende, ha perso i suoi beni, i suoi servitori, tutta la sua famiglia, e ha anche sofferto per una ferita che gli arrivava dalla pianta dei piedi alla testa. La spiegazione che il libro dà di tutto ciò che accade a Giobbe è che il “nemico” lo tenta attraverso la prova e la sofferenza per far sì che rinneghi e maledica Dio.
Il testo spiega che ha cercato di trovare delle risposte, sempre senza rinnegare o maledire Dio, perché Giobbe sa che Dio è buono. Nella sua pena, desolazione e confusione si volgeva da ogni parte senza trovare alcuna consolazione, un’idea logica che gli riempisse il cuore. Un paio di amici sono andati da lui per consolarlo, ma non c’è stato nulla che potessero dire in grado di placare il suo dolore e di spiegare tutto ciò che gli stava accadendo. È tale la confusione prodotta da tante delle cose che ha sperimentato nella vita che perfino i suoi amici restano confusi.
Dice la Parola: “Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. 13Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore” (Giobbe 2, 12-13).
Immagino che vi sia accaduto che la sofferenza abbia bussato inaspettatamente alla porta della vostra vita, lasciando senza parole anche chi vi è accanto. Nessuno, né voi, né i vostri amici o la vostra fede, riesce ad articolare qualche spiegazione per ciò che è avvenuto, e la disperazione e l’angoscia iniziano a farsi strada nel cuore. Di fronte a situazioni di questo tipo tremano le basi della fede, della vita, di quello in cui crediamo e che facciamo.
La storia nei suoi primi capitoli è sconcertante, soprattutto perché apparentemente Giobbe non meritava nulla di ciò che stava passando; anzi, quello che avrebbe meritato in realtà erano la benedizione e la prosperità offerte da Dio. A livello personale, spesso mi sono sentito interpellato dalla storia del sofferente Giobbe, soprattutto nelle occasioni in cui ho dato tutto, ho perseverato nel mio lavoro, nella mia fede, nell’amore nei confronti degli altri, nel servizio, e ho mantenuto il cuore retto e saldo, e nonostante questo le cose sono andate malissimo: ho sperimentato il dolore, la solitudine, la povertà, la sofferenza. Sicuramente anche voi vi siete sentiti così e non avete trovato grandi fonti di consolazione.
So di non aver sofferto come molte altre persone, ma lo studio del libro di Giobbe nei momenti dolorosi e difficili della mia vita mi ha aiutato a trarne alcune idee che potrebbero esservi utili, o meglio ancora aiutarvi ad accompagnare altri nella tribolazione e a sostenerli nella speranza.
1. Guardare Giobbe da una prospettiva nuova, quella di Gesù
A livello personale, mi piaceva leggere il libro di Giobbe e validare il fatto di provare pena per me stesso rimanendo seduto tra le ceneri senza fare altro che soffrire. Rimanere lì, a soffrire, guardando le mie ferite, provando dolore e sperando che tutto passasse magicamente, o peggio ancora restare così fino alla fine dei miei giorni. Quella depressione cristiana abnegata e rassegnata che molti ritengono santa per il solo fatto di accettarla senza replicare… Si dimentica che quello di Giobbe è un libro dell’antica alleanza, che Gesù è venuto a far nuove tutte le cose, che è venuto a donarci la vita in abbondanza, che per i suoi meriti siamo stati salvati e che il suo amore ci restituisce l’amicizia con Dio. Dimentichiamo che ogni battaglia, ogni prova, ogni tribolazione e ogni sofferenza è stata inchiodata sulla croce ed esiliata per sempre dalla nostra vita.
Molte volte viviamo come se Gesù non ci avesse salvato definitivamente, o peggio ancora come se la sua salvezza fosse solo una cosa che si verificherà alla fine dei nostri giorni o che interessa soltanto la dimensione spirituale della nostra vita. Giobbe non aveva un Gesù a cui volgere lo sguardo, noi sì. Non dimentichiamo mai che tutte le nostre sofferenze sono state subite da Gesù sulla croce del Calvario e che con il suo sangue ha pagato la nostra salvezza. Ciò non toglie che nella vita sperimentiamo dolori e sofferenze, ma non sono definitivi. La nostra vita non finisce lì, tutte le nostre lotte sono lotte vinte con Gesù. Nessun dolore rubi la vostra speranza.
2. Dio non mette alla prova nessuno
Quando leggete la storia di Giobbe ricordate che appartiene all’Antico Testamento, perché la dinamica usata dagli ebrei che ancora non conoscevano Gesù per spiegare il modo di agire di Dio è diversa da quella che ci mostra il Nuovo Testamento. Il testo dice che un giorno Satana si presentò davanti a Dio per parlargli di Giobbe, assicurando che se lo avesse tentato questi sarebbe stato blasfemo nei Suoi confronti. Dio lo permise per rafforzare la fede di Giobbe. È importante leggere questa storia in base a una prospettiva spirituale. Dio non gioca a scommettere, non fa esperimenti con noi come un bambino che gioca con le formiche.
Come dice l’apostolo Giacomo, “Nessuno, quando è tentato, dica: ‘Sono tentato da Dio’; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno” (Giacomo 1, 13), perché in effetti l’ultima cosa che Dio vuole è misurare la nostra forza per vedere se valiamo o meno la pena. Sarebbe disprezzare il sacrificio di Gesù. Se crediamo che quello che ci accade lo vuole Dio, allora bisogna pensare che tra le possibilità ci sia quella che Dio vuole che falliamo, che non siamo capaci. Credete che Dio vorrebbe una cosa del genere? Ovviamente no! Dio permette che succedano delle cose nella nostra vita per mostrarci delle cose migliori.
3. Dio non esiste in funzione di me
Può essere un’idea che confonde, e di fatto da sempre molti si confondono perché hanno l’impressione che Dio sia lì per aiutarli a realizzarsi e vogliono usarlo a questo scopo. Ciò significa invertire la natura della creazione, ed è un tentativo destinato al fallimento. Ho visto me stesso elaborare progetti complicati e pieni di dettagli per poi presentarli a Dio perché li benedicesse senza modificare in nulla quello che avevo preparato in modo tanto intelligente. Una cosa diversa è quando insieme a lui mi prendo il tempo per discernere quali siano i suoi progetti e realizzarli, perché in questo modo la sua benedizione mi accompagni.
Siamo noi ad aiutare il “grande progetto” di Dio, e la nostra partecipazione e la scoperta del nostro proposito aiuta la realizzazione della sua volontà, non il contrario. Siamo stati creati per Dio, non viceversa.
Dice il Catechismo al nº 27: “Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è
stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa”.
4. Non tutto ha una spiegazione, ma tutto ha un proposito
“Dio non permetterebbe mai un male se non fosse sufficientemente potente per trarre da quel male un bene maggiore” (Sant’Agostino)
Di fronte a una situazione che spezza la nostra vita ci sono due domande che possiamo porci: “Perché?” e “A quale scopo?” Suona un po’ come una psicologia pop, soprattutto di fronte a sofferenze terribili come la morte o una malattia grave. Per questo motivo domande del genere devono essere poste quando si ha il cuore tranquillo.
Per prima cosa bisogna processare tutto con calma. Scoprire i propositi di Dio non è questione di pregare un paio di minuti e via. Dio lo sa e aspetta che tu ti ponga le domande necessarie, che metta in discussione, che dubiti, ma che alla fine accetti, anche senza comprendere molto. La sua volontà, anche se spesso è indecifrabile, è meravigliosa per la nostra vita, e ogni cosa che ci accade, pur se ci costa comprenderla, ha un senso all’interno del suo progetto.
“Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un pò afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo” (1 Pietro 6-7).
Ovviamente a Dio non interessa la tua sofferenza, non si è accanito su di te, sulla tua vita o sulla tua storia. Dio vuole il meglio per te! È una verità della quale non puoi dubitare neanche per un secondo. Quello che accade è che Dio sa che spesso per poter fare ciò che ha in mente devi passare per un deserto.
“La tribolazione è un dono di Dio, un dono speciale che offre ai suoi amici speciali” (San Tommaso).
5. Non anestetizzare il dolore
Anestetizzarsi fa parte della nostra cultura moderna. Ci dà fastidio vedere la gente soffrire, e allora la rendiamo invisibile, la emarginiamo. E noi stessi nascondiamo il nostro dolore dicendoci che si vive dentro, in privato.
Giobbe si siede a terra, si rasa i capelli e si mette sul capo la cenere indicando che non capisce nulla, che sembrerebbe che il suo dolore non abbia senso. Si siede a soffrire. Noi, invece, cerchiamo di superare rapidamente il nostro dolore, e se dopo 3 o 6 mesi di lutto una persona è ancora triste le diciamo “Dai, è ora di superarlo”, “Devi essere forte, vai avanti”. Ognuno ha i suoi tempi e vanno rispettati.
Abbracciare chi piange e piangere con lui anziché farlo tacere, permettergli di bagnare le nostre spalle con le sue lacrime anziché offrire un fazzoletto… Soffrire con chi soffre, angosciarsi con chi è vulnerabile, riempirsi il volto e il cuore con la passione dell’altro: questo significa provare compassione, far sì che le proprie viscere si contorcano non per mero masochismo, non come penitenza, ma come esercizio di comunione, come corpo della Chiesa.
Giobbe ci insegna a soffrire con dignità, a vivere il dolore lasciandosi accompagnare, a non nascondere le sofferenze, a chiedere aiuto e a frustrarsi quando non si trovano delle risposte, ma accettando che perdere, ammalarsi, morire, non avere spiegazioni è terribile ed è una cosa che va vissuta, non nascosta.
6. Confidare nella possibilità di essere “restaurati”
La prima volta in cui ho letto di corsa il libro di Giobbe è stata quando è morta mia sorella minore, una piccola di tre mesi a cui era stata diagnosticata un’alterazione genetica incurabile.
Scusate lo spoiler se non avete letto il libro, ma la storia finisce con Dio che restaura la vita di Giobbe, vedendo che dopo aver sofferto e aver accettato quella sofferenza non rinnega né maledice mai. Giobbe forma una nuova famiglia, molto più feconda della prima, raggiunge una prosperità economica superiore a quella precedente e la sua fama di uomo benedetto si diffonde ovunque. L’idea che l’autore biblico vuole esprimere è che se vivi la sofferenza come si deve e senza ribellarti a Dio, Egli ti benedirà e ti restistuirà anche più di quello che avevi prima. Sì e no. Cioè, non è un trucco spirituale in cui Dio ti restituisce più di quello che ti aveva tolto. Nell’economia spirituale dei cristiani non esiste la “meritocrazia”: tutti i meriti sono di Gesù, e anche quando facciamo bene le cose non meritiamo nulla da Dio ed Egli ci dona tutto per amore, non perché siamo buoni o cattivi. Malgrado ciò, Dio ci conforta, ci consola, ci accompagna come gli angeli hanno accompagnato Gesù nella sua prova nel Getsemani.
Bisogna quindi aspettare che Dio si manifesti, ti benedica, agisca a tuo favore, ma non aspettarti che sia una manifestazione “quantitativamente superiore” paragonata a quella in cui ti trovavi in precedenza.
Come aneddoto, ricordo alcuni esercizi spirituali ai quali sono arrivato con il cuore arido, senza voglia di niente. Chi mi accompagnava a livello spirituale mi disse di andare a sedermi davanti al Santissimo. Mi disse che anche se volevo dormire potevo farlo, ma che dovevo passare un po’ di tempo lì, “abbronzandomi con la sua luce”. Non ho idea di cosa sia successo, ma sono uscito da quell’esperienza “abbronzato”, con il cuore irrobustito, anche se non c’era alcuna spiegazione che potessi esprimere a parole. Ho trovato risposte, senso e speranza stando semplicemente lì, di fronte a Lui.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]