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Che fare se il Papa perde l’uso della ragione?

Paul VI – Pape François

© Public Domain

Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 28/08/17

Un problema particolarmente vivo in un'epoca in cui la scienza medica prolunga di molto la vita biologica delle persone: da Paolo VI in qua tutti i Pontefici si sono arrovellati e i canonisti si chiedono se occorra una disposizione speciale.

«E se divento pazzo?» – pare che avesse chiesto Paolo VI al suo segretario di Stato. L’apologo vuole che l’interlocutore fosse Amleto Giovanni Cicognani, primo “numero due” della Santa Sede sotto il pontificato montiniano. Questi avrebbe risposto al Santo Padre: «Lo Spirito Santo non lo permetterà». È questo uno di quegli apologhi che vengono narrati, nelle aule delle Pontificie Università romane, benché nei manuali di storia della Chiesa non trovino ancora ampio rilievo.

E sembra strano a tutti, ogni volta che si ripercorre l’aneddoto, il fatto che si pensi al cardinal Cicognani, il quale appunto fu Segretario di Stato fino a tutto l’aprile 1969, ovvero fino a quando a Paolo VI mancavano ancora nove anni buoni di pontificato: che papa Montini sentisse affievolirsi la lucidità, negli ultimi anni, è cosa nota agli storici; ma che tale sensazione lo abbia accompagnato dagli anni ’60 è cosa che non consta dai documenti. E allora uno si dice che probabilmente Amleto Giovanni Cicognani è personaggio (sempre per chi non sia digiuno di storia della Chiesa) più colorito e interessante del (pur apprezzatissimo) curiale Jean-Marie Villot, e che forse il Papa avrà interloquito con quest’ultimo laddove si dice che abbia interloquito col primo.

E certo non si fa la storia con le voci di corridoio, ma una rivelazione sembra essere sopraggiunta a dare credito – se non all’evento in sé – al fatto che Paolo VI contemplasse l’eventualità della propria demenza senile fin dagli anni ’60: il cardinal Giovanni Battista Re ha raccontato pochi giorni fa di aver visto nelle mani di Giovanni Paolo II, il quale glie le mostrava, due lettere di dimissioni scritte da Paolo VI e lasciate nel cassetto della scrivania. Stando al racconto di Re, le dimissioni dovevano diventare effettive nel caso in cui il Papa fosse subentrato in una condizione di disabilità totale:

Paolo VI era preoccupato di una eventuale futura disabilità, di un grave impedimento che non gli avrebbe permesso di espletare il proprio ministero, e voleva essere pronto.

John L. Allen, su Crux.com, ha opportunamente chiosato ricordando che la storica prossimità di Giovanni Battista Re al cardinal Giovanni Benelli, Sostituto per gli Affari generali alla Segreteria di Stato sotto Paolo VI, consolida il credito della rivelazione: non v’è motivo di dubitare della veridicità dell’incontro narrato. Il quale, pur ponendo nuovi e contingenti interrogativi, che in quanto particolari non ci vincolano qui, conferma quanto già apprendevamo dalle pagine di mons. Pasquale Macchi, già segretario particolare di Papa Montini:

Paolo VI, dopo aver scritto il proprio testamento, preparò pure una lettera di dimissioni da consegnarsi in caso si fossero create condizioni tali da rendergli impossibile governare la Chiesa in un modo adeguato.

Pasquale Macchi, Paolo VI nella sua parola, 129.

Ora, la data del testamento di Montini, che fu scritto dopo un corso di esercizi spirituali, è pubblica: la firma fu apposta il 30 giugno 1965; dunque nulla vieta di pensare che nelle settimane, nei mesi o in un paio d’anni a seguire, Paolo VI abbia aggiunto al documento pubblico un allegato privato. Privatissimo, anzi solo virtuale.

Allen evidenzia con grande nettezza la differenza tra il caso di Montini e quello di Papa Ratzinger (per quanto l’espressione “ingravescente ætate”, usata da Ratzinger, sia un’evidente citazione della lettera apostolica Ingravescentem ætatem del 21 novembre 1971, e su questo si potrebbe dire molto altro…), perché il 13 febbraio 2013 Benedetto XVI era perfettamente padrone delle proprie facoltà, e in quanto tale adempieva alla lettera il dettato del Codice di Diritto Canonico, che al Can. 332 § 2 enuncia:

Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.

Benché – con ostinazione degna di migliore causa – qualche giornalista abbia pertinacemente protestato l’invalidità della rinuncia di Benedetto XVI (ottenendone anche straordinaria e pubblica smentita dal Papa Emerito), appare evidente che il testo della rinuncia con la sua chiarezza, e il contesto della stessa con il suo carattere pubblico, hanno adempiuto perfettamente quanto previsto dalla legge canonica. Allen osserva che non si potrebbe dire lo stesso della lettera di Paolo VI, che molto meno trasparente sarebbe stata, qualora fosse “entrata in vigore”, quanto al “liberamente” e al “debitamente”: la lettera è stata scritta senza costrizioni, è più che plausibile. Ma chi la tira fuori nel momento opportuno? E quel qualcuno che la tira fuori sta compiendo un atto del Papa? Con quale evidenza dovremmo fugare il dubbio che nel compierlo non stia perseguendo un proprio opaco progetto eversivo?

Probabilmente sarebbe stato Macchi stesso a dover consegnare la lettera al Decano del Sacro Collegio, che avrebbe preso atto delle dimissioni e, conseguentemente, avrebbe dichiarato lo stato di sede vacante. Pare inoltre – è sempre Allen a ricordarlo – che il Papa avesse scritto una seconda lettera indirizzata appunto al Segretario di Stato, all’epoca forse ancora il Cicognani di cui sopra, per spingere il Collegio cardinalizio ad accettare le dimissioni.

Un’ingiunzione ridondante, perché è vero che il Can. 332 § 2 sarebbe stato promulgato vent’anni dopo i fatti di Paolo VI, ma è altrettanto vero che all’epoca era vigente il Codice Pio-Benedettino, del 1917, il quale pure recitava, al Can. 221:

Se si desse il caso di rinuncia del Romano Pontefice, per la validità della di lui rinuncia non è necessaria l’accettazione dei Cardinali o di altri.

[traduzione mia]

Ma Paolo VI sapeva che una lettera avrebbe forzato la mano, per quanto Pio XII avesse osato forse anche di più, quando dispose che all’atto di un suo rapimento da parte dei nazisti (minaccia ventilata in ambienti diplomatici, ben conosciuti da Pacelli), ipso facto la Santa Sede fosse e venisse ritenuta vacante, e che quindi si procedesse a nuove elezioni papali. «Tutto quello che avranno – pare che abbia detto, ma non mi risulta che consti da documenti scritti – è il cardinal Pacelli, non il Papa».

Frase certamente eroica nel suo complesso, ma non poco problematica quanto alla natura del ministero petrino, per come ne promana il senso: ricordo che il 13 febbraio 2013 io costeggiavo casualmente San Pietro, mentre Benedetto XVI scagliava quel fulmine che non si ricordava dai tempi di Giove tonante. Ricordo che mi sintonizzai alla radio e che raggiunsero al telefono Vito Mancuso ed Enzo Bianchi, per un commento a caldo. Il primo farfugliò qualcosa e poi ammise di non essersi ancora fatto un’idea. Il secondo sentenziò nettamente che il Papa sarebbe tornato «ad essere il cardinal Ratzinger». Cosa che mi parve subito contrastante col complesso della dottrina cattolica sull’ufficio petrino, che se non imprime un “carattere” sacramentale di certo non è assimilabile a un qualunque ufficio di diritto ecclesiastico. I fatti a seguire, con l’abbozzo dell’istituto del Papato Emerito, avrebbero confermato quest’impressione e contestualmente aperto un sentiero tutto da esplorare.

Qualunque cosa abbia detto (o non detto) Pacelli, insomma, è fuor di dubbio che avesse disposto uno stratagemma per cui l’eventuale blitz nazista che lo minacciava non avrebbe sortito gli effetti delle deportazioni papali sotto Napoleone: e pure lì… Pio VI morì in cattività, ma il successore tornò a Roma, dopo la prigionia (anzi il benedettino Chiaramonti regnò abbastanza da vedere il crollo dell’impero napoleonico, l’avvio della Restaurazione, l’esilio a Sant’Elena e la morte del “generale”, come pare che Consalvi chiamasse l’Imperatore nei peggiori momenti).

Ma si tratta, come si vede, di casi eccezionali, che proprio perché tali non possono essere normati dal diritto, e dipendono invece dall’audacia e dalla prudenza di quanti si trovano ad attraversare certi guadi: ogni volta ripenso alla figura di Martino V Colonna, che risolse lo stallo dello Scisma d’Occidente e del Concilio di Costanza – per certi aspetti la più grave crisi istituzionale della storia della Chiesa – oltrepassando incredibilmente un fuoco incrociato di veti e di canoni, di mire e di ambizioni. Mi dico allora che sì, ha ragione Allen nel dire che c’è un vuoto nel Diritto Canonico quanto all’ipotesi della lettera di dimissioni papali, e naturalmente il Legislatore ha il potere di colmare autenticamente questo vuoto… è poi suggestiva la sua immagine:

In assenza di un simile provvedimento, sembra, siamo un po’ come quelli che vanno in giro con la macchina senza assicurazione – sperando che non ci succeda qualcosa di terribile, ma sapendo continuamente, sotto sotto, che potrebbe accadere da un momento all’altro.

Resta però altrettanto vero che spesso leggiamo, nelle storie ecclesiastiche, di pontefici “malati” che venivano “assistiti” da mons. Tizio e dal card. Caio: ora, cosa si intenda per “malati” non sempre ci è dato di poterlo ricostruire, ma è abbastanza ragionevole presumere che tra più di 200 Papi non morti violentemente ne siano arrivati al giorno estremo in un qualche stato di demenza senile per almeno alcune decine. E che si faceva, allora? Niente: il Papa è malato. Non scende in Basilica, non si fa vedere, si prega per lui. Il suo lavoro ordinario lo fanno i collaboratori, i quali posseggono almeno deleghe ordinarie per il diritto stesso, dati gli uffici che ricoprono; per il lavoro straordinario (a cominciare dalla promulgazione di documenti) si aspetta il successore.

Certo, nell’epoca del Papa su Twitter e su Instagram diventa forse meno fattibile il non dare nell’occhio, ma personalmente non mi persuado che questi possano essere argomenti tali da esporre ordinariamente il diritto a un rischio virtualmente così alto: chi stabilisce che la lettera sia autentica? Il diritto imporrà che sia autografa? Dunque occorrerà un’accurata perizia calligrafica? E quanti calligrafi ci vorranno per valutare autenticamente il documento? O ricorreremo a testimoni firmatari dell’atto? E chi si fiderà di una cosa così oscura, se già sulla libertà di Benedetto XVI – trasmesso in mondovisione coi sottotitoli e traduzione simultanea – alcuni (temerari) nutrono dubbi?

Insomma, personalmente torno alle parole che mi riportarono come del cardinal Cicognani (o di chi per lui): ci penserà lo Spirito Santo. Il che, a ben vedere, non è proprio imprudente come guidare senza assicurazione. Anzi.

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