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Si chiamava Paolo Borsellino. La fede di un uomo giusto

BORSELLINO FALCONE CAPONNETTO

Public Domain

Credere - pubblicato il 28/08/17

Un ritratto inedito del giudice antimafia che fondava il suo servizio per la giustizia su una vita cristiana profonda ma non ostentata

di Alessandra Turrisi

Per Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale, il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme ai suoi cinque “angeli custodi” – gli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano – aveva una parola di sostegno, di incoraggiamento, di rispetto per la persona che aveva davanti.

A distanza di 25 anni dalla terribile strage, costellata ancora da troppi misteri e buchi neri, ciò che resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni.

Il rispetto per l’uomo e per la giustizia prevede che per mandare in carcere un accusato le prove debbano essere di ferro, altrimenti «meglio un criminale fuori che un innocente dentro». È il ricordo di Giovanni Paparcuri, ex autista del giudice istruttore Rocco Chinnici, solo per un caso scampato alla strage di via Federico Pipitone a Palermo, il 29 luglio 1983, diventato poi collaboratore informatico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra.

SOLO PROVE CERTE
«Un giorno dobbiamo spiccare il mandato di cattura per alcune persone coinvolte nell’omicidio del capitano Basile. Nella stesura del mandato all’inizio ne sono indicate cinque. Io batto a macchina tutti i fogli, li porto al dottor Borsellino, li riprendo e vedo che la quinta persona è depennata. Penso a un errore, così riscrivo quella pagina e gliela riporto. Ma lui toglie di nuovo quel nome. A un certo punto, si alza e viene nella mia stanza: “Insomma, a cosa stiamo giocando? Giovanni, questo non lo devo arrestare. Se le prove non reggono al dibattimento, che figura facciamo?”. Lo guardo negli occhi, capisco cosa vuole dire».

Quando Paparcuri racconta questo episodio al figlio del giudice, Manfredi Borsellino, oggi commissario di Polizia, questi lo ringrazia: «Hai fatto bene a dirmelo, perché episodi come questo mi fanno capire che mio padre non era forcaiolo».

Un senso fortissimo della giustizia che tocca anche chi è al di fuori di quel mondo di fascicoli e leggi. «Forse l’eredità che mi ha lasciato Paolo è proprio il suo credere nella giustizia. Non ha mai infierito sulle persone, pur facendo bene il suo lavoro», osserva il cardiologo Pietro Di Pasquale, da cui quel terribile pomeriggio del 1992 il giudice doveva accompagnare la madre che aveva problemi al cuore.

E don Cesare Rattoballi, parroco di periferia che nell’ultimo periodo fu molto vicino al giudice: «Vedo ancora gli occhi e il sorriso di Paolo, la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Borsellino non tratta nessuno come un illustre sconosciuto. Ha una cordialità che mette a proprio agio, come se ti conoscesse da sempre».

FEDE E RISERVATEZZA
Una cura per l’altro che probabilmente era frutto della sua profonda fede cristiana, mai ostentata, eppure vissuta ogni giorno, alimentata dalla partecipazione alla Messa domenicale, dalle assidue confessioni, dai colloqui con alcuni sacerdoti nei momenti più difficili della sua esistenza. Una voce “laica” come quella del suo giovanissimo sostituto alla procura di Marsala, alla metà degli anni Ottanta, Diego Cavaliero, lo descrive con efficacia: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto. Borsellino era credente, cattolico praticante, ciò gli indicava la strada nell’applicazione della pietas cristiana, nel rispetto dell’altro, perché Paolo era convinto che dietro a ogni imputato ci sia un uomo che va anche rispettato. La fede non faceva altro che rafforzare la sua personalità votata alla ricerca del rapporto con l’altro. Il suo rapporto con la fede era intimo. È certamente un uomo di misericordia».

La domenica mattina, alla prima Messa delle 8.30 di Santa Luisa di Marillac, il dottor Borsellino manca raramente, proclama quasi sempre una delle letture. Oltre ai numerosi abitanti di questa zona residenziale, ne è testimone monsignor Francesco Ficarrotta, dal 1979 al novembre 1991 guida della parrocchia che si trova proprio davanti all’alto condominio di via Cilea in cui vive il giudice con moglie e figli.

«Un giorno mi confessa il rammarico per non avere la forza, quando gli capita di partecipare ai funerali di uomini importanti, magari uccisi dalla mafia, di disporsi in fila per ricevere la Comunione», spiega Ficarrotta. «Vuole evitare di mettersi in mostra, ma così, e questo è il suo cruccio, non dà la giusta testimonianza di cristiano. Borsellino è veramente un uomo di fede» continua l’ex parroco.

PRONTO AL SACRIFICIO
Don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, un antichissimo quartiere del centro storico di Palermo, riesce a catturare un altro aspetto di questa figura di magistrato cristiano, ucciso a causa della giustizia. Di tanto in tanto, il giudice fa capolino all’Albergheria, attirato dall’intensa attività di volontariato che la figlia più piccola, Fiammetta, svolge con i bambini più poveri del quartiere. «In realtà, incontro Paolo in occasioni molto disparate. Ricordo un evento in particolare. Siamo negli anni Ottanta e stiamo celebrando i venticinque anni di matrimonio di un suo cugino omonimo, Paolo Borsellino», racconta don Cosimo. «Dopo la Messa, molto partecipata, andiamo a festeggiare tutti insieme. In quell’occasione ho scoperto che il giudice Paolo è una persona di grande carattere, ha voglia di divertirsi».

Una ricchezza d’animo che don Cosimo impara a conoscere poco a poco. «Alcune volte Paolo si reca a San Saverio per partecipare alla Messa domenicale. Si siede quasi in fondo, durante la consacrazione, è tra i pochissimi fedeli a mettersi sempre in ginocchio. Rientra tra quelle persone il cui cammino di fede è segnato da un incontro particolare, magari un parroco, qualcuno che diventa determinante non per i tanti discorsi ma perché va all’essenziale. La dimensione religiosa la intravedo come il dato unificante della sua vita. E, nell’osservarlo, mi fa piacere vedere come quella persona riesca a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un ragazzone scherzoso, che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo con un’interiorità profonda».

Il giorno prima della strage don Rattoballi incontra il magistrato al Palazzo di giustizia. Quello che si trova davanti è un uomo che ha consapevolezza di andare incontro all’estremo sacrificio: «Vado a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi dice: “Fermati, voglio confessarmi. Vedi, mi sto preparando”. Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere».

GLI AGENTI DELLA SCORTA
Nell’attentato di via D’Amelio insieme a Paolo Borsellino morirono cinque agenti di età compresa tra i 22 e i 43 anni. Tra le vittime, anche la prima donna a cadere in servizio nella Polizia italiana. Solo un poliziotto si salvò. Altre 23 persone rimasero gravemente ferite. Come mandante, insieme a numerosi altri mafiosi, è stato condannato Totò Riina.

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