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Davvero la Chiesa sta pensando di far soldi con le opere di bene?

Former Refugees Resume Village Life in Darfur

UNAMID Albert Gonzalez Farran CC

Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 25/08/17

The Economist annuncia la grande svolta e tutti si mettono a scrivere di come finalmente si possano “servire Dio e mammona”. Ma è proprio così? Lo abbiamo chiesto al professor Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche

«“Non potete servire Dio e Mammona”, ammonisce la Bibbia. ma la Chiesa ci ha sempre provato». Così The Economist comincia il suo recente articolo su “fede, speranza e impatto” che tanto inchiostro sta facendo versare in questi giorni. «La Chiesa cattolica diventa un investitore d’impatto», perché – è il succo dell’articolo – «la filantropia è soggetta a un ripensamento».

La solidarietà “conviene”?

Nientemeno. Ma «perch’io non proceda troppo chiuso», direbbe Dante, spieghiamo anche noi che cos’è l’“impact investing”, e anzi facciamocelo spiegare da chi ha inventato il termine – la Cambridge Associated e GIIN (Global Impact Investing Network) la dice così: si tratta di

investimenti fatti in società, organizzazioni e fondi con l’intento di generare un impatto sociale o ambientale misurabile e favorevole a fianco o in sostituzione di un rendimento finanziario.

Introducing the Impact Investing Benchmark

Cambridge Associates,  GIIN (Global Impact Investing Network) – 2015

Che vuol dire questo? Tante cose, come si capisce dalla descrizione, ma facciamo qualche esempio: andare a scavare un pozzo in una zona desertificata per le popolazioni che ci vivono è un’opera di bene; andare a impiantarvi un’azienda che distribuisca e venda acqua è un “investimento d’impatto”. Dare denaro a un nullatenente perché paghi derrate e bollette è un’opera di bene; avviare una struttura di microcredito è un “investimento d’impatto”.

Certo, va da sé che l’imprenditore o il finanziatore che sposino simili progetti dovranno disporsi ad alti rischi e bassi profitti: non si può pensare di arricchirsi con l’acqua a spese di popolazioni assetate, né si può compensare il forte rischio insito nel prestare a persone senza garanzie con un importante tasso d’interesse.

Dunque perché, stando a The Economist e a quanti gli sono andati appresso, tutti corrono a rischiare i loro quattrini in progetti ad alto rischio e basso rendimento? Perché tra i potenziali investitori in questi campi ce n’è uno che dispone di un capitale incalcolabile: la Chiesa cattolica. Scrive l’articolista della testata inglese:

Per il momento, il capitale cattolico dedicato a investimenti d’impatto si aggira in totale intorno al miliardo di dollari. Il fatto è che la Chiesa è in condizioni tali da avere il potenziale per trasformare la categoria del mercato di investimenti d’impatto.

Ci risiamo: quanti non capiscono (lo si è visto fin dall’incipit dell’articolo) che la Chiesa non ha “sempre provato” a servire due padroni sono gli stessi che equivocavano quando intimavano al diacono Lorenzo di condurli al “tesoro della Chiesa” – il santo mostrò loro i poveri di Roma.

E il tesoro della Chiesa è oggi quello di ieri, né si può quantificare in milioni o miliardi di dollari – questi sono al servizio di quelli, semmai, ora come allora. L’impressione, invece, è che alcuni (o molti?) siano già appostati per appaltarsi le numerosissime opere che la Chiesa potrebbe finanziare. Lo stesso Economist non manca di annotare la relativa inettitudine della Chiesa di fronte alle sfide pionieristiche della finanza:

Nella Chiesa stessa, pochi hanno la capacità e l’esperienza finanziarie richieste, per quanto le congregazioni possano costituire una risorsa considerevole.

È facile, tuttavia, riportare l’impressione che una volta tanto qualcuno voglia tirare per la mantellina il Santo Padre… ma verso destra, a dispetto di quanto accade di solito. Basta vedere come tutti, dall’Economist in giù, stiano citando il suo (ormai famoso) discorso del 2014 al convegno “Impact investing for the poor – perlopiù limitandosi a questa sola frase (quell’unica citata dalla rivista inglese, guarda caso):

Compito dei cristiani è riscoprire […] questa preziosa e originaria unità fra profitto e solidarietà.

Sembra evincersene l’equazione “solidarietà=profitto”, come se fare del bene “convenisse”. E si può certo parafrasare alla bisogna il detto paolino

la pietà è un grande guadagno, ma con moderazione.

1Tim 6, 6

Il fatto che la Chiesa parli di “pietà” (che indica per sua natura un rapporto verticale col numinoso, la trascendenza) e l’Economist di “filantropia” (la quale è deprecabilmente decaduta a un attivismo immanente sovente interessato) spiega bene i timori di alcuni – quelli che lo stesso Economist spiega male:

Alcuni si preoccupano che il fare soldi con la filantropia non possa coesistere con l’imperativo morale fondamentale di aver cura del bisognoso. Altri temono una perdita di contatto con i beneficiari della generosità dei cattolici.

Ad essere fuorviante è anzitutto il dato – tendenzioso – che vuole Papa Francesco artefice di questa presunta “svolta” finanziaria della Santa Sede: il nome del Santo Padre si veste bene, sì, soprattutto quando lo si ritaglia ad usum Delphini e lo si porta in ambienti che amano passare per “solidali” stringendo la mano a liberisti non alieni a progetti di speculazione. La dottrina sociale della Chiesa trova in realtà in Papa Francesco un interprete originale perché fedele alla Tradizione, che da Leone XIII a Giovanni Paolo II ha insegnato come il denaro abbia sempre un significato morale, oltre che economico.




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Così Benedetto XVI ha illustrato da par suo lo spazio per gli sviluppi leciti della beneficenza, i suoi limiti e i rischi cui strutturalmente si espone:

Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona. Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. Nascono Centri di studio e percorsi formativi di business ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla responsabilità sociale dell’impresa. Le banche propongono conti e fondi di investimento cosiddetti “etici”. Si sviluppa una “finanza etica”, soprattutto mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza. Questi processi suscitano apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire anche nelle aree meno sviluppate della terra. È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell’aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.

Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo «ad immagine di Dio» (Gn 1,27), un dato da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un’etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. Bisogna, poi, non ricorrere alla parola “etica” in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi — l’osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti “etici” dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura. Parla con chiarezza, a questo riguardo, la dottrina sociale della Chiesa, che ricorda come l’economia, con tutte le sue branche, sia un settore dell’attività umana [113].

Benedetto XVI, Caritas in veritate 45

E in particolare, giungendo al concetto di “impact investing”:

Il potenziamento delle diverse tipologie di imprese e, in particolare, di quelle capaci di concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e delle società, deve essere perseguito anche nei Paesi che soffrono di esclusione o di emarginazione dai circuiti dell’economia globale, dove è molto importante procedere con progetti di sussidiarietà opportunamente concepita e gestita che tendano a potenziare i diritti, prevedendo però sempre anche l’assunzione di corrispettive responsabilità. Negli interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai essere un atteggiamento astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero essere coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro attuazione. È anche necessario applicare i criteri della progressione e dell’accompagnamento – compreso il monitoraggio dei risultati –, perché non ci sono ricette universalmente valide. Molto dipende dalla concreta gestione degli interventi. «Artefici del loro proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi responsabili. Ma non potranno realizzarlo nell’isolamento» [114]. Oggi, con il consolidamento del processo di progressiva integrazione del pianeta, questo ammonimento di Paolo VI è ancor più valido. Le dinamiche di inclusione non hanno nulla di meccanico. Le soluzioni vanno calibrate sulla vita dei popoli e delle persone concrete, sulla base di una valutazione prudenziale di ogni situazione. Accanto ai macroprogetti servono i microprogetti e, soprattutto, serve la mobilitazione fattiva di tutti i soggetti della società civile, tanto delle persone giuridiche quanto delle persone fisiche.

Ivi, 47

Insomma, gli speculatori che si stessero fregando le mani nella speranza di potersi appaltare del “bisness” nei Paesi in via di sviluppo a spese della Chiesa farebbero meglio a capirlo: non c’è trippa per gatti, ovvero la trippa potrebbe essere in quantità nettamente inferiori alle normali aspettative di un imprenditore/investitore. Non è che lo dica Benedetto, quasi volessimo opporre un Papa all’altro: bastava leggerlo per intero, Francesco, che quel 16 giugno 2014 metteva le mani avanti:

L’impact investor si configura come un investitore consapevole dell’esistenza di gravi situazioni di inequità, di profonde diseguaglianze sociali e delle penose condizioni di svantaggio in cui versano intere popolazioni. Egli si rivolge a istituti finanziari che utilizzano le risorse per promuovere lo sviluppo economico e sociale delle popolazioni povere, con fondi di investimento destinati a soddisfare le loro necessità basilari legate all’agricoltura, all’accesso all’acqua, alla possibilità di disporre di alloggi dignitosi a prezzi accessibili, così come a servizi primari per la salute e l’educazione.

Tali investimenti intendono produrre un impatto sociale positivo per le popolazioni locali, come la creazione di posti di lavoro, l’accesso all’energia, l’istruzione e la crescita della produttività agricola. I ritorni finanziari per gli investitori sono più contenuti rispetto ad altre tipologie d’investimento.

Sicuramente conscio dell’attenzione avida di molti, quel giorno il Papa precisava:

È importante che l’etica ritrovi il suo spazio nella finanza e che i mercati si pongano al servizio degli interessi dei popoli e del bene comune dell’umanità. Non possiamo tollerare più a lungo che i mercati finanziari governino le sorti dei popoli piuttosto che servirne i bisogni, o che pochi prosperino ricorrendo alla speculazione finanziaria mentre molti ne subiscono pesantemente le conseguenze.

E che “etica” non possa limitarsi a essere un bollino esterno che ci si auto-conferisce l’avevamo visto sopra. Giova forse anche ricordare che la frase sulla “preziosa e originaria unità fra profitto e solidarietà” è un’autocitazione del Papa dall’Introduzione a Povera per i poveri. La missione della Chiesa – libro dell’allora-non-ancora-cardinal Müller, dal titolo quanto mai esemplificativo.

Il libro era uscito a febbraio, e per quanto gli aedi delle fratture tra Santa Marta e l’ex Sant’Uffizio si diano da fare per occultare l’armoniosa collaborazione tra Papa Bergoglio e mons. Müller, in quel contesto le più ampie pericopi dell’Introduzione risultavano di una chiarezza adamantina. Ci piace riportare il commento di un lettore acuto come Massimo Introvigne:

San Paolo nella Lettera ai Filippesi usa un termine greco parallelo [all’aramaico “mammona”, N.d.R.], «arapagmos», una parola che indica talora quanto «si è rapinato agli altri» ma altrove è usata in senso più generale per designare «un bene trattenuto gelosamente per sé». Il male qui non sta nei beni, ma nel trattenerli per sé in modo geloso, avaro e ultimamente improduttivo. Questo avviene quando i beni sono «utilizzati da uomini che conoscono la solidarietà solo per la cerchia – piccola o grande che sia – dei propri conoscenti o quando si tratta di riceverla, ma non quando si tratta di offrirla». L’uomo, «avendo perso la speranza in un orizzonte trascendente, ha perso anche il gusto della gratuità, il gusto di fare il bene per la semplice bellezza di farlo».

Ma immaginiamo, suggerisce il Papa, uno scenario diverso. Immaginiamo un uomo ricco educato a riconoscere «la fondamentale solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini». Quest’uomo bene educato alla solidarietà non vivrà nel timore di perdere il suo denaro portandolo, per così dire, fuori di casa e mettendolo a frutto nell’interesse certo suo proprio, ma anche degli altri. Anzi, si convincerà che questo è proprio il modo di realizzare profitto, anche in tempi difficili. «Quando vive abitualmente nella solidarietà, l’uomo sa che ciò che nega ad altri e trattiene per sé, prima o poi, si ritorcerà contro di lui». Ecco dunque il cuore del ragionamento di Papa Francesco: esiste «un originale legame tra profitto e solidarietà», e «una circolarità feconda fra guadagno e dono». «Il peccato tende a spezzare e offuscare» la percezione di questo legame. Ma il legame esiste. Quando i beni «sono utilizzati non solo per i propri bisogni […] diffondendosi si moltiplicano e portano spesso un frutto inatteso».

È quindi sul medio-lungo periodo che, senza dubbio, la solidarietà conviene. Perché produce benessere diffuso e moltiplica alla base le possibilità di sviluppo globale. Spesso, chiaramente, senza che il benefattore iniziale possa raccoglierne un utile diretto e finanziariamente quantificabile. Ma proviamo a fare qualche domanda a Flavio Felice, un esperto che ai rapporti tra welfare, economia, finanza e impresa ha dedicato anni di studio e non poche pubblicazioni.




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Che cosa sono gli “investimenti a impatto sociale”?

Iniziamo con il dire che non esiste “investimento” che non abbia un “impatto sociale”. L’idea che esistano “investimenti sociali” e altri a “impatto neutro” è la conseguenza di un modo di intendere il mestiere dello scienziato sociale avulso dalla realtà. Secondo una certa impostazione le scienze sociali – di qui anche l’economia – sarebbero discipline socialmente ed eticamente neutre e il compito dello scienziato sociale sarebbe riconducibile a quella dell’analista in camice bianco. È la pretesa di pensare le scienze – comprese le scienze sociali – confinate in un mondo privo di valori, credenze, fedi, tradizioni; in breve, la proiezione della scienza come luogo eticamente neutro, laboratorio asettico, popolato da ricercatori in candide vesti i quali prescindono da una peculiare prospettiva antropologica che orienti le loro scelte. Di qui la reazione di chi invece ritiene che non esista azione umana che non esprima una peculiare prospettiva antropologica, condivisibile o meno, e che, di conseguenza, anche le scienze sociali e, non ultima l’economia, partecipi di tale condizione e che lo scienziato economico non possa disinteressarsene. Da tale consapevolezza è maturata anche l’esigenza di offrire prodotti finanziari che rispondano immediatamente al bisogno di vedere l’impatto che le proprie scelte hanno sulla realtà sociale. Ebbene, tali prodotti vengono normalmente definiti “investimenti etici”, ma in concreto non esistono investimenti che non abbiano un impatto etico, più o meno condivisibile.

Sembra l’uovo di Colombo: perché ci si pensa solo adesso?

A dire il vero, i padri francescani sin dal XIV secolo si erano posti il problema e la successiva nascita dei “monti di pietà” (si pensi al primo Monte fondato nel 1462 da Fra’ Barnaba Manassei da Terni) sta lì a dimostrare che il problema dell’impatto sociale dell’azione economica è un tema antico e molto sentito all’interno della comunità ecclesiale. Il fatto che oggi sia decisamente più diffuso o semplicemente avvertito come più urgente credo dipenda dalla dimensione che l’economia finanziaria ha assunto nei nostri giorni. La finanza è un utilissimo strumento per tutti coloro che non hanno risorse proprie e consente di realizzare opere impensabili a partire dalle risorse individuali. Il capitalismo contemporaneo è soprattutto capitalismo finanziario perché c’è bisogno di una enorme massa di ricchezza per operare sul mercato globale. Un’economia tribale e di sussistenza non necessiterebbero della finanza, se non in maniera marginale e residuale, eventualmente per far fronte a qualche evento sfortunato che potrebbe compromettere la sussistenza della tribù. Un’economia globale e che intende essere inclusiva necessita di un sistema finanziario ampio e dinamico, di istituzioni finanziarie capillari, al servizio di una produzione necessariamente sempre più ampia e qualitativamente migliore. Per questa ragione, coloro che hanno a cuore non meramente la crescita economica, ma un crescita che sia qualitativamente inclusiva – in breve, ciò che il Magistero sociale della Chiesa chiama “sviluppo umano integrale” – non possono non mostrarsi attenti allo strumento finanziario e promuoverne le istituzioni che lo orientano nella direzione appena indicata.

Sembra “troppo bello per essere vero”: c’è una rogna da qualche parte?

La domanda è interessante, lei mi chiede se esistono effetti perversi nel campo del cosiddetto investimento etico o zone d’ombra nel campo della finanza etica. In ogni realizzazione umana esistono zone d’ombra e ogni istituzione sociale riflette il dato inconfutabile che il “sociale” è la “proiezione multipla, simultanea e continuativa” dell’azione umana (è la definizione che Luigi Sturzo ci offre di società). Si tratta di un tema arcinoto agli esperti di scienze sociali e che i filosofi della scienza chiamano “teoria delle conseguenze non intenzionali”, “eterogenesi dei fini”, ma che incontra anche un problema sollevato da buona parte della filosofia cristiana, sintetizzabile con l’espressione “antiperfettismo”. Antonio Rosmini e Luigi Sturzo ne sono stati eminenti teorici e Giovanni Paolo II ha avuto il merito di cristallizzarlo in un passaggio chiave della Centesimus annus:

Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla.

Giovanni Paolo II, Centesimus annus 25

Anche nel caso degli investimenti etici non mancano le zone d’ombra, gli effetti perversi e, soprattutto, l’uso strumentale, opportunistico, dunque, perverso dello strumento. È prevalsa l’idea che “ad essere etici si guadagna”, quindi l’ostentazione di una presunta dimensione etica è diventata un aspetto del marketing aziendale, sia che si tratti di beni di consumo sia che si tratti di prodotti finanziari. È evidente che tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’etica cristiana, forse soddisferà altri parametri etici, ma non di certo quelli della Dottrina sociale della Chiesa. Per il cristiano lo “sviluppo” o è “integrale”, interessando l’intera sfera dell’umano, o non è affatto “sviluppo” e la riduzione etica a strumento comunicativo e di marketing allontana la finanza etica dal campo che interessa la Dottrina sociale della Chiesa.

“Profitto e solidarietà” vuol dire che “la solidarietà conviene”? E allora perché non tutti sono solidali?

Appunto, è esattamente questo il problema. Il profitto è solo un indicatore del buon impiego dei fattori di produzione, non certo l’unico, ma come ci insegna la Centesimus annus. In questi termini, la funzione economica e sociale del profitto, che possiamo schematizzare come premio per il rischio, fonte di capitale per finanziare l’occupazione di domani, fonte di capitale per l’innovazione e l’espansione dell’economia, si comprende meglio se associata alla dinamica tipica dell’uomo d’impresa, il quale, ci fa notare opportunamente Drucker, esercita la funzione imprenditoriale mediante la quotidiana e sistematica attività decisionale, con la maggior conoscenza possibile del futuro incerto, organizzando in modo sistematico gli sforzi necessari per realizzare quelle decisioni ed infine confrontando i risultati con le aspettative. La nozione di profitto che informa le parole della Centesimus annus può essere espressa sotto forma di parametro indispensabile per la misurazione della soddisfazione del cliente, nell’ambito di un variegato contesto nel quale si confrontano ed articolano i valori, le fedi e le culture di tutti coloro che concorrono al buon esito del processo produttivo, coordinati da chi si assume il ragionevole rischio imprenditoriale di investire il proprio denaro, il proprio tempo e la propria reputazione per porre in essere un’organizzazione del lavoro produttivo. Ecco, infatti, come si esprime l’enciclica:

quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti.

Ivi, 35.

Quindi, il profitto non dipende necessariamente dalla solidarietà e comunque non basta essere mossi dalle migliori intenzioni. Bisogna conoscere il mercato, saperlo soddisfare e farlo bene; come ebbe a sostenere Peter Drucker: «Se è vero che non è sufficiente che l’impresa faccia bene, ma deve anche fare il bene, è vero anche che per poter fare il bene deve aver fatto bene».

Una beneficenza in cui qualcuno guadagna è una beneficenza in cui diventa ingiusto che qualcuno perda: che posto resta per la gratuità?

San Bernardino da Siena affermava che «se è legittimo perdere, deve essere legittimo vincere» e giungeva alla conclusione che per fabbricanti e commercianti è legittimo ottenere un profitto. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizzava anche il Vescovo di Firenze Sant’Antonino, il quale affermava che,

poiché ogni agente opera per ottenere un fine, lo scopo immediato dell’uomo che lavora nel settore dell’agricoltura, della lana, dell’industria o di attività simili è il profitto.

Per San Tommaso tra i motivi che giustificano i profitti dobbiamo considerarne fondamentalmente cinque: provvedere alla famiglia del mercante; aiutare i poveri; stimolare il benessere del paese; remunerare il lavoro del mercante; migliorare la merce. Insomma, il problema del profitto è risolto da secoli e alla radice. Quanto alla questione della gratuità legata al tema del profitto, essa è diventata centrale nel Magistero sociale della Chiesa in seguito alla pubblicazione della Caritas in veritate di Benedetto XVI nel 2009. La categoria del “dono” non andrebbe assunta come alternativa al mercato, una sorta di fattore o quid etico che si contrappone al mercato e in grado di limitarlo, bensì come una qualità interiore di coloro che operano sui mercati. Sulla scorta di quanto detto in ordine alla cifra qualitativa dello sviluppo, il dono appare come quella indispensabile dimensione del vivere che rende autenticamente umani i rapporti e, di conseguenze, autenticamente umana l’esistenza. Sappiamo bene che la vita degli uomini non si risolve nel mercato e l’esperienza del dono ci consente di constatare direttamente – sulla nostra pelle – la parzialità della logica del mercato, ma relegare il mercato tra le relazioni utilitaristiche, oltre ad essere un errore logico e storico, appare sempre più un errore pratico e, alla lunga, potrebbe risolversi in un errore politico.

La catallassi, il mercato, è la tipologia sociale propria degli uomini liberi che consapevolmente cum-petono per ottenere il miglior risultato possibile, in ordine all’allocazione di beni scarsi e disponibili; ciò che non è scarso e non è disponibile – in breve, ciò che non è puramente economico – evidentemente non entra e non deve entrare nella logica di mercato. In pratica, significa ammettere che si possa dare una crescita senza lo sviluppo, perché esiste un profitto di monopolio, un profitto di guerra; perché esiste il profitto di chi pretende di raccogliere senza aver prima seminato, di chi si approfitta delle strette relazioni con il potere, di chi devasta la terra, di chi traffica in droga e in armi; perché esiste un profitto di chi consuma in modo dissennato le ricchezze prodotte dalle generazioni precedenti e di chi scarica i costi del presente sulle generazioni future. In definitiva, affrancati dall’insano fuoco dell’ideologia, perché esistono persone che operano in politica come in economia e in qualsiasi altro ambito del vivere civile mosse dall’irresponsabile proposizione “ad ogni costo e a qualsiasi prezzo”.

Dicono che il Catholic Relief Services abbia “una visione moderna del ruolo della Chiesa nella società”: che vuol dire?

Non saprei, penso solo che se proseguisse l’opera dei padri francescani sarebbe già tanto. Papa Benedetto nella Caritas in veritate ci ha invitati a pensare ai fenomeni sociali e alle istituzioni adatte alla loro cura in maniera plurale; ci ha rinviati ai principi di sussidiarietà e di poliarchia, oltre che di solidarietà. Ossia, ci ha invitati a pensare la solidarietà all’interno di un contesto sociale poliarchico il cui unico possibile principio d’ordine è il principio di sussidiarietà. Tutti coloro che intendono ridurre il grado di poliarchia non possono che mostrarsi tendenzialmente autoritari e tutti coloro che intendono rispondere ai problemi di una società poliarchica, ricorrendo a strumenti centralistici finiscono per offrire risposte inadeguate. Quindi abbiamo bisogno di una pluralità di strumenti, di una ibridazione dei modelli e di rifiutare in tutti i modi gli eventuali tentativi di monopolizzare la solidarietà. Il monopolio desertifica tutto quello che incontra, trasforma l’amore in possesso e la solidarietà in rendita. Per questa ragione, affinché le istituzioni economiche, politiche e culturali possano essere realmente “inclusive” e spezzare le catene della povertà è necessario che siano plurali, che nascano da un processo competitivo e che rimangano sempre scalabili.


*: Flavio Felice è Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise, Presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton e membro del Comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane Sociali. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo:

  • (Insieme a Alessandro Pavarin) La Sharia e il denaro. Un confronto tra finanza islamica ed economia sociale di mercato, Apes Editore, Roma, 2016.
  • (Insieme a Dario Antiseri) La vita alla luce della fede. Riflessioni filosofiche e socio-politiche sulla Lumen fidei, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014. Vincitore del premio Capri-San Michele 2014, nella sezione filosofia.
  • Persona, istituzioni e mercato. La persona nel contesto del liberalismo delle regole, Rubbettino, 2013.
  • Persona, impresa e mercato. L’economia sociale di mercato nella prospettiva teorica del pensiero sociale cattolico, Lateran University Press, 2010.
  • Economia e persona. L’economia civile nel contesto teorico dell’economia sociale di mercato, Lateran University Press, 2009.
  • Economia sociale di mercato, Rubbettino, 2008.
  • (Insieme a Paolo Asolan) di Appunti di Dottrina sociale della Chiesa. I cantieri aperti della pastorale sociale, Rubbettino, 2008.

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