Il binomio peccato – espiazione, a cui si allude solo sottilmente nei primi due racconti, è invece la tematica principale de La porta stretta e La confessione: nel primo, prete Maxia, per espiare la colpa dell’assassinio di suo fratello, scappa dal suo paese natio e abbraccia la vita religiosa non tanto per vocazione, quanto come unica possibilità di espiazione, che, oltre che nel volontario esilio, si esplica nella redenzione degli abitanti del piccolo paese di montagna di cui è parroco. Padre Maxia rifiuta qualsiasi accenno di spensieratezza, vede in ogni gesto, anche il più ingenuo e spontaneo, un pericolo. In particolare per lui in tutte le donne esiste un “desiderio di peccato irrefrenabile” che lo porta a controllare in modo ossessivo la sorellina sedicenne che contro questa ottusa bigottaggine oppone e difende un sentimento autentico, anche se scomodo. Ne La confessione, don Apollinari si prefigge lo scopo di suscitare nell’unica pecorella del suo gregge ancora smarrita, una bambina di dieci anni che ancora non sa leggere e scrivere, vergogna e senso di colpa per i suoi peccati e a cui estorce la prima confessione.
Pregevole la nota di lettura a cura di Ignazio Sanna che in poche pagine riesce a sintetizzare in modo puntuale ed efficace il pensiero di Grazia Deledda, autrice a cavallo tra fine Ottocento e Novecento che ha saputo fare suoi i temi delle principali correnti letterarie del tempo, il verismo e il decadentismo, in maniera del tutto originale e personale. Tanto che, nonostante i tentativi della critica di avvicinarla agli scrittori dell’uno e dell’altra corrente fino ai grandi narratori russi come Dostoevskij, ha sempre negato di sentire affinità con altri scrittori.
Chi ha conosciuto la Deledda del più celebre e drammatico Canne al vento ne ricorderà i dolorosi turbamenti, la inquietante consapevolezza che la vita dell’uomo è fragile e destinata alla solitudine. In questo volumetto il lettore apprezzerà il viaggio in una Sardegna di un tempo remoto, avvolta in un alone mitico, in cui il lavoro e le antiche tradizioni popolari scandiscono il tempo degli isolani, uomini coriacei abituati a vivere in un territorio talvolta aspro, quelli che Grazia Deledda definisce la «strana barbarie sarda».