Malattia e morte della madre
Conclusa l’adolescenza, avevo ventun’anni quando mia madre si ammala di tumore al seno. Diagnosi precoce, operazione, chemio. Sembrava tutto sconfitto ma un anno e mezzo dopo arrivano le metastasi al fegato e in pochi mesi dopo nuova chemio e radioterapia con tutto quello che comporta vivere la malattia, e farlo sola io e lei come famiglia, ma con la pressante e costante, amorevole forse per lei, ma estenuante per me presenza dei suoi parenti, muore circa un mese dopo la mia laurea.
A ventitré anni mi ritrovo sola al mondo.
E in questa condizione ho vissuto per nove lunghi anni, fino a quando poi ho incontrato mio marito. Lunghi anni in cui ho conosciuto la disperazione, la ricerca del senso della vita, il vuoto, la speranza, lo sconforto, le incomprensioni, le maldicenze, il pietismo, tanto tanto pietismo, la superficialità della gente, l’aiuto, ancora il vuoto e ancora la speranza. E la fede.
La solitudine
Sola al mondo. Il pensiero di farla finita come soluzione per non soffrire, per una vita la cui qualità mi terrorizzava, per una vita che non mi sembrava vita in quelle condizioni, c’è stato nei primi mesi. Ma, grazie a Dio, il pensiero che era il momento di attuarlo mi faceva ancor più ribrezzo, dal più profondo della mia anima c’era un rifiuto, istintivo, viscerale. Non ce l’avrei mai fatta a suicidarmi. E così ho capito che non potevo fare altro che sopravvivere, con la speranza, cieca, aggrappata allora solo vagamente a Dio, di riuscire poi a vivere, col sogno di vivere bene.
La solitudine annienta. Il fatto di non appartenere, di non aver nessuno da amare e da cui essere amata, di abitare da sola, di occuparmi di tutto da sola, mi toglieva il senso del vivere.
C’erano i parenti, ma tra me e loro non c’erano mai stati rapporti veri, profondi, e dopo qualche tentativo con alcuni di instaurare una vicinanza familiare ho dovuto allontanarmi. Con alcuni c’era troppa diversità di mentalità, di vedute, in particolare poi per le antipatie passate tra alcuni di loro e mio padre, soprattutto con mia nonna, sentivo come se avessi dovuto rinnegarlo, rinnegare una parte di me, i tratti suoi in me che a loro certo non piacevano. Altri proprio non volevano o non sentivano di aiutarmi veramente, il loro unico interesse era chiaramente solo apparire buoni agli occhi degli altri, per cui io me ne sono allontanata. Ovviamente ho subìto attacchi, non diretti, ma subdoli che si sono manifestati successivamente perfino in lettere anonime indirizzate ad ambienti e ad amici che frequentavo, che miravano a screditarmi e a farmi apparire come una cattiva persona sottolineando la bontà dei parenti da cui io mi ero allontanata.
Incontri: un medico diventa il primo testimone dell’amore di Dio
Nel periodo del primo tumore di mia madre la paura di poter rimanere da sola e l’infelicità di quella vita che sentivo troppo stretta mi aveva portata a iniziare la psicanalisi da un dottore molto conosciuto e amato in città. E, rimasta sola, lui è stato la mia fonte di salvezza. Di sicuro uno strumento del Signore e il primo che mi ha portata verso di Lui. Data la mia situazione di totale mancanza di affetti, il rapporto con lui è poi cambiato, il rapporto professionale è venuto meno ed è diventato un sostegno parentale, infatti lo chiamo zio, perché da zio si è comportato, fornendomi aiuto nelle varie vicende pratiche e burocratiche di ogni tipo, presentandomi come sua nipote, fornendomi così calore e protezione.
Ma soprattutto mi ha formata umanamente, mi ha insegnato a vivere, trasmettendomi anche la sua fede. Gran parte di come sono lo devo a lui. Il fatto che lui mi volesse bene mi ha dato la forza di andare avanti. Quando inizialmente gli ho chiesto perché faceva tanto per me senza trarne nessun vantaggio e senza avere nessun dovere verso di me, in modo così chiaramente donativo, lui mi ha risposto: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Io non sapevo in quel momento che fosse una frase del Vangelo, che fosse parola di Gesù, ma quelle parole mi hanno dato vita nel profondo del cuore, qualcosa di indescrivibile. E così via via ho imparato da lui a guardare tutto in un’ottica di fede cristiana e ad approfondire cosa davvero fosse questa fede cristiana. Lui è stato per me la luce nel buio, l’acqua nel deserto, l’aria che fa respirare, una figura paterna che mi ha guidato, fatto crescere, insegnato a vivere.
Ero sempre stata credente, da bambina a scuola dalle suore tra gli otto e i dieci anni pensavo di farmi suora da grande, ma poi il fervore dell’infanzia era passato e io avevo acquisito abbastanza della mentalità del mondo, utilitaristica, egoistica, pur rimanendo sotto tanti aspetti diversa, un po’ “antica” come ragazza, con modi di pensare e sogni considerati retrogradi.
Leggi anche:
Come imparare ad amare il Rosario (anche se lo odiate)
Non pregavo, non avevo mai pregato. In quei primi anni di vita da sola avevo iniziato ad andare alla Messa quotidiana nel pomeriggio ma solo perché mi faceva star meglio. Andavo e mi passava il mal di testa, mi sentivo sollevata, rilassata, al sicuro e avrei voluto che la messa durasse più a lungo perché lì mi sentivo meglio, poi uscivo e l’effetto durava per un po’. E allora volevo tornarci il giorno dopo. Ma ancora non pregavo.
È stato tramite questo “zio” che ho conosciuto un’altra persona che sarebbe diventata importantissima per me, diventando anche lei e suo marito degli “zii” che si sono resi disponibili ad aiutarmi e darmi affetto.