Una società di connessi e solitaridi Maurizio Fontana
Quante volte sentiamo dire dai genitori che i loro figli sembrano non tanto possedere uno smartphone, ma avere quasi una protesi attaccata alla mano, salvo poi renderci conto che quegli stessi genitori si sentono persi se per caso hanno lasciato il cellulare a casa. Anche a loro l’ansia di non essere sempre e ovunque raggiungibili porta veri e propri attacchi di panico. E alzi la mano chi, mentre stava digitando su un motore di ricerca o scorrendo la propria pagina Facebook o anche solo la posta elettronica, non ha avuto almeno una volta un sussulto nel vedere le pubblicità proprio di quel prodotto ricercato qualche giorno prima, o degli alberghi di una città visitata da poco. Tutti colpiti dalla consapevole ma in qualche modo destabilizzante sensazione di essere continuamente registrati, sorvegliati, in una parola condizionati.
Viviamo in una società che ci vede inevitabilmente connessi in continuazione, vogliamo che il mondo ci scorra davanti sempre in diretta, mentre gli strumenti tecnologici a portata di tutti ormai fanno parte del nostro corredo giornaliero, tanto che a loro affidiamo contatti, appuntamenti, addirittura amicizie. Con tutto questo, però, sperimentiamo anche «il graduale affievolirsi della conversazione faccia a faccia». Siamo sempre più connessi eppure sempre più solitari? È la questione affrontata da monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione, in un piccolo libro (Connessi e solitari. Di cosa ci priva la vita online, Edb, Bologna, 2017, pagine 71, euro 8) dedicato proprio alle dinamiche attuali della comunicazione, alla presenza dei media nel vivere sociale e alle sue conseguenze.
Il fatto è — scrive monsignor Viganò inquadrando e riassumendo il problema che è al centro degli attuali dibattiti tra sociologi — che «i media hanno conquistato la nostra esistenza quotidiana, ne scandiscono i ritmi, ne sono diventati, in qualche misura, l’architettura portante e la categoria ermeneutica: sono i custodi delle chiavi e del nostro tempo. La loro presenza, certamente, ci mette a disposizione funzioni e opportunità impensabili fino a pochi anni fa, anche se il prezzo da pagare è una modifica sostanziale dei lineamenti del nostro profilo, un elevato costo in termini di umanità».
Studioso di storia del cinema che ha saputo appassionarsi dell’evoluzione mediatica più recente, il prefetto della Segreteria per la comunicazione riassume gli atteggiamenti dell’homo digitalis per rilevarne alcune criticità. Scrive il prelato che «siamo tutti sotto controllo, attraverso pratiche di sorveglianza a cui non facciamo più caso», ma aggiunge subito dopo che se «un tempo si temeva di essere osservati, lo si viveva come una sorta di incubo, oggi invece ci auguriamo di essere guardati, perché temiamo di essere abbandonati, ignorati, esclusi». Quello che si profila è insomma un vero e proprio rischio nel quale si aspira alla visibilità in rete e si trascurano invece i rapporti reali. I social media e la rete finiscono così «con l’essere spesso un terreno in cui emergono i sintomi di quella “cultura del provvisorio” di cui parla Papa Francesco».
E proprio gli insegnamenti del Pontefice affiorano dalle pagine del volumetto come una sorta di antidoto ai veleni di una vita che appare sempre più trascorsa online e che invece può trovare solidità in un sano ed equilibrato abbinamento con le relazioni concrete, reali. Due esempi sono ricavati dal cinema: dalla bella commedia di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti (2016), «ironico e graffiante racconto sulla presenza-invadenza del cellulare nelle relazioni affettive», e quindi dall’“ironia amara” del film Her di Spike Jonze (2013) dove «la tecnologia diventa la nostra principale, se non unica, relazione sociale». Commenta l’autore: «Non possiamo farci sedurre dall’idea di una vita in solitudine, di poter vivere senza l’altro».
Eppure aumenta sempre più il peso delle relazioni virtuali. Tra persone, ma anche nel mondo degli affari. Anzi, scrive Viganò, «la comunicazione, intesa come relazione umana», e la stessa economia «si intersecano sempre più», in un quadro dominato da motivi utilitaristici. E per evitare la giungla degli interessi e un sistema sociale che, come denuncia il Papa, fa dello “scarto” la sua regola, occorre «un plus di umanità, di responsabilità e sensibilità etica».
Ma la migrazione dell’economia e della comunicazione verso le piattaforme digitali, secondo l’autore, può anche «rappresentare un aspetto positivo», a patto che non si dimentichino «il valore delle relazioni e dell’interazione con il luogo in cui si lavora, che diviene così espressione di una cultura, di un’identità, di un’appartenenza». Occorre cioè una vera e propria «ecologia della rete e dell’ambiente digitale». E dunque «ripensare il tema delle relazioni nel contesto digitale, senza demonizzare la rete come luogo distruttivo, ma per scoprire nuovi modi di stare con gli altri, senza rinunciare ai rapporti diretti, personali, con presenze reali e non esclusivamente virtuali, imparando a contemperare il senso di una stretta di mano con il click dei tasti».