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Perché alla fin fine il cristianesimo esalta tanto la sofferenza?

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 04/08/17
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Si ha un bel dire che la fede è gioia, è festa, è serenità… i veri testimoni ci parlano sempre del dolore. Anche in TV, recentemente, uno dei più noti testimoni dei nostri giorni ricordava: «Il dolore purifica le relazioni». Cosa vuol dire?

«Il dolore purifica le relazioni», ha detto Enrico Petrillo ospite a Beati voi rispondendo alle domande di Giovanni Scifoni. E uno resta due volte sbalordito: intanto perché una frase del genere la dice uno che sicuramente sa che cosa sia il dolore; e poi perché non sta parlando – pare che ci sia stata quasi una studiata attenzione nel non pronunciarne mai il nome – di sua moglie, quella di cui tutti lo abbiamo sentito più volte dare testimonianza. La puntata è su Padre Pio, e Scifoni sta indugiando sulle stimmate: fenomeno mistico, marchio soprannaturale, segno di contraddizione… sicuramente causa di acuto e continuato dolore fisico (il conduttore ricorda che Padre Pio, burbero e guitto per chi lo incontrava, conservò quelle piaghe strazianti per tutta la vita).

http://www.youtube.com/watch?v=xjsV3ZVsqJY

La veste in cui Enrico Petrillo è stato intervistato è peraltro intelligentemente inedita: Enrico lavora in un Hospice (fondazione “Roma Hospice”), ovvero “alle porte del paradiso” – come disse quel frate seguendo il quale l’infermiere Petrillo divenne a sua volta un accompagnatore di malati terminali. L’effetto era d’impatto sicuro: si chiamava un noto testimone del dolore, ma stavolta a parlare “da professionista” e non (se non per un rapido accenno) del suo proprio vissuto personale e famigliare. Così l’aspetto personale animava le parole e quello professionale conferiva alla testimonianza del singolo un’aura di particolare oggettività.

Mi ha colpito, tra molte altre cose, il contrasto fra le stigmate vitalizie di Padre Pio e l’opportuna citazione di don Tonino Bello, ricordata a braccio da Enrico:

La croce è “collocazione provvisoria”, e dura da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Per tutte le altre ore ci sono luce e gioia.

Dunque “tre ore” durano tutta la vita? Certo, non sarà un caso che nella seconda Lettera di Pietro si riecheggia il Salmo 83 ricordando che

davanti al Signore un giorno è come mille anni
e mille anni come un giorno solo.

2Pt 3, 8b

Del resto, se la seconda delle lettere del Pescatore si dedica in più passi a rinsaldare la speranza nella giustizia ventura di Dio, la prima era diffusamente dedicata a educare i cristiani alla “pazienza”, cioè a uno stile tutto loro nel soffrire, nel sopportare, nel sostenere:

È meglio infatti, se così Dio vuole, soffrire operando il bene che facendo il male.

1Pt 3, 17

Va bene, ma perché Dio vuole così? Torno a chiedermelo alla sera di questo giorno, in cui mia figlia compie i mesi e in cui Charlie Gard avrebbe dovuto (e potuto) compiere il suo primo anno di vita: perché il nostro Dio di amore può volere che soffriamo? Non parlo del dolore innocente, sia chiaro: per quel tema mi si aggrotta la fronte a ogni starnuto della mia frugoletta, e potremmo passare stagioni ad arrovellarci sulla patologia genetica che ha funestato la giovane vita di Charlie; ma parlo del dolore colpevole, di quello che gli uomini si infliggono quasi come una cieca necessità pur essendo è pienamente nelle loro mani. Charlie non è morto ucciso da una malattia, checché se ne dica, ma per l’esecuzione di una sentenza della High Court britannica. Rifletto e mi dico che se Dio può permettere che nella sua creazione le spore di disordine sparigliate dal peccato originale possano compromettere la sopravvivenza della meno colpevole di tutte le sue creature, a maggior ragione Gli toccherà “rassegnarSi” alla volontà depravata di un ben determinato giudice, che si macchia di una colpa attuale e che di quella specifica colpa inietta il veleno nel mondo. Mi viene il sospetto che dietro questa seconda specifica colpa covi un rancore antico – più antico del cuore degli uomini… – un rancore spirituale che ritenga di avere ancora un conto in sospeso per la faccenda del giardino e dell’albero. Ma siffatte elucubrazioni, me ne rendo conto, possono riuscire noiose, ovvero incomprensibili, a taluni.

Così Charlie può morire per una malattia, così anzi egli deve morire per ordine di un mortale arrogante. Ma se torno ad abbracciare tutta la storia, o almeno quella segnata dal cristianesimo – diciamo correndo a ritroso dal non-compleanno di Charlie fino alla dettatura delle lettere di Pietro – vedo che questa storia del dolore ha sempre presentato il paradosso di cui sopra: da una parte si attesta che esso sia tutt’altro che l’essenza del cristianesimo; dall’altra pare che quasi ogni vita di santo sia stata segnata, per tutta la sua durata, da quelle “tre ore” di cui parlava don Tonino Bello.

San Paolo spiegava infatti ai Galati che

il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.

Gal 5, 22

Mentre Giobbe, che pure era “il più grande tra tutti i figli d’oriente” (Gb 1, 3), si chiedeva dolente:

Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore?

Gb 3, 20

Una domanda grave, che la Bibbia ha il merito di porre con scoperta franchezza. La risposta a questa domanda, nella sua formulazione più cruda e più scarna, me la disse mia nonna paterna quando io ero bambino. Era un verso di una poesia catechistica insegnatale da qualche suora ormai un secolo fa:

Io sono nata per portare la croce.

E mia madre, che la sentiva, diceva: «Oddio, che cosa orribile! Ma si può insegnare così il cristianesimo ai bambini?». Io non lo so, se si possa insegnare così: sta di fatto che di tutta la lunga filastrocca declamatami da mia nonna solo questo verso mi è rimasto per trent’anni attaccato alla memoria. Aveva un che di sapido: nella sua crudezza diceva qualcosa di sostanzioso. Anzi, di sostanziale.

Quando crebbi e guardai i film di Magni mi rimase impressa una frase di analoga durezza, una risposta di “Cornacchia” (alias Pasquino, interpretato da un grande Nino Manfredi), che così rispondeva a Giuditta quando questa gli chiedeva: «E chi glie lo dice a quei due che devono morire?»

Loro ce lo sanno, perché è solo il sangue: solo sul sangue viaggia la barca della rivoluzione.

Che mi è sempre parsa la versione stinta, ma ancora impressionante, della sentenza della Lettera agli Ebrei, che parlava della “rivoluzione di Dio” (© Benedetto XVI):

Per questo neanche la prima alleanza fu inaugurata senza sangue. […] Secondo la Legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue, e senza spargimento di sangue non esiste perdono.

Eb 9, 18.22

Parole ruvide che però non respingono, ma anzi attraggono: proprio come quelle, misteriose, della risposta di Enrico Petrillo a Giovanni Scifoni: «Il dolore purifica le relazioni».

E tutto all’improvviso siamo meno inclini a pensare che nelle Scritture ci vengano veicolate usanze superate di popoli primitivi: probabilmente in quei riti simbolici è presente una carica di verità di cui siamo prepotentemente assetati, che ci piaccia o no.

Allora vediamo se e come quei testi antichi rendono ragione dell’affermazione neotestamentaria sopra riportata. Leggiamo per esempio nel Deuteronomio questa rampogna, dalla dolcezza struggente:

Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te.

Deut 8, 2-5

Parole di un padre vero, che pone un limite salutare alla libido dei figli per orientarla al meglio; che insegna a leggere la storia e a formulare su di essa un giudizio fecondo, che sia fertilizzante per l’avvenire.

Parole di cui tutti abbiamo indicibile nostalgia e che – proprio per averne tanta nostalgia pur recandole scritte nel cuore – ciclicamente scordiamo. Una delle pagine più belle del libro di Giuditta, almeno secondo le parole della Vulgata, riporta questo ammonimento paterno che viene – ah, i paradossi biblici! – per mano di una donna, anzi di una giovane e bella vedova:

Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui in mezzo ai figli degli uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non comprenderete niente, né ora né mai. Se non siete capaci di scrutare il profondo del cuore dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri e comprendere i suoi disegni?

No, fratelli, non provocate l’ira del Signore, nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere dai nostri nemici. E voi non pretendete di ipotecare i piani del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo a cui si possano fare minacce, né un figlio d’uomo su cui si possano esercitare pressioni. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà.

[…] Dunque, fratelli, dimostriamo ai nostri fratelli che la loro vita dipende da noi, che le nostre cose sante, il tempio e l’altare, poggiano su di noi. Per tutti questi motivi ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi che i vostri padri furono messi alla prova per vedere se davvero temevano il loro Dio. Ricordate come fu tentato il nostro padre Abramo e come proprio attraverso la prova di molte tribolazioni egli divenne l’amico di Dio. Così pure Isacco, così Giacobbe, così Mosè e tutti quelli che piacquero a Dio furono provati con molte tribolazioni e si mantennero fedeli. Certo, come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore, così ora non vuol fare vendetta di noi, ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli stanno vicino».

Gdt 8, 12-17.24-27 Volg. 21b-23

Parole belle e alte, certo, ma che ci sembrerebbero parto di un’abile penna dedita alla teodicea, e poco di più… se non venissero confermate dalle voci delle “pietre vive” di cui parla proprio l’autore della Prima lettera di Pietro, che leggevamo sopra:

Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo.

1Pt 2, 4-5

Ecco di cosa parla Enrico Petrillo quando dice “consolazione”:

Non so come funzioni ma so che c’è, io la vivo.

Le parole dei sapienti, e perfino quelle della Scrittura, sono per noi qualcosa cui facciamo bene

a volgere l’attenzione, come a una lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori.

2Pt 1, 19

E dopo? Dopo sono come una mappa per chi conosce la strada: utilissime a rinfrescare la memoria e per indicare la via ad altri pellegrini, ma “la stella del mattino” che si leva nei cuori è Gesù stesso (Ap 22, 16), e a quel punto tutta la vita si trasforma in “sacrificio spirituale”.

Quando Gesù, agnello il cui sangue solo rimette i peccati, ri-sorge in un cuore, quella vita viene misticamente unita all’unico sacrificio di Cristo, che riverbera da un lato all’altro della storia – di quella piccola e di quella grande – e porta quel particolare “stile paziente”, di cui dicevo sopra, a sopraffare lo scatenamento del mistero del male. Analogamente a come i fili d’erba la spuntano sull’asfalto bollente che sembra distruggerli tutti. Ci vuole tempo. Un tempo che può sembrare lungo tutta la vita ovvero un’eternità, ma non si tratta che di “tre sole ore” nella Pasqua del Signore.

Così si capisce meglio anche il fiorire di certa aneddotica agiografica, che facilmente pare – a chi manchi di questa grammatica “da iniziati” che ho esposto – un esercizio (più o meno letterario) di masochismo. O meglio, “dolorismo” è la parola moderna coniata per descrivere l’affezione dei cristiani alla sofferenza. Non è certo un’invenzione loro, che πάθος [pàthos] e passio significhino già prima di Cristo “amore” e “dolore”, ma certo l’esperienza mistica di legame con il crocifisso-risorto, che dà la vita per gli amici, la riprende e la dà “smisuratamente” (Gv 3, 34), tocca il sublime del trasformare il fallimento umano in una teofania. Che vuol dire? Dicevo di certa aneddotica agiografica, così attestata da non necessitare più nemmeno uno straccio di fonte per accreditarsi anche in sermoni blasonati: pensiamo al famoso episodio di Teresa d’Avila con Gesù, quando la santa si lamenta di certe ferite ai piedi guadagnate dalle lunghe marce per strada. Alle lamentele della monaca Cristo risponde: «È così che tratto i miei amici». E quella, di rimando: «Ecco perché ne hai così pochi». Detta così, è una nota di colore buona per rendere un minimo di attività cerebrale a un’assemblea domenicale assopita durante un sermone mediocre: non si capisce perché Gesù debba dilettarsi di simili “dispettucci” ai danni di una monaca che percorre la Spagna in lungo e in largo per riformare il Carmelo.

Ma se espandiamo la brachilogica espressione “i miei amici”, leggendovi dentro tutto quello che abbiamo detto or ora, troviamo che davvero non c’è grazia più grande che partecipare all’opera più maestosa del Redentore. E Teresa, con la sua risposta, era ben lungi dal ritenersi “una delle poche sfortunate”. Scriveva infatti:

Dammi delle prove, Signore, dammi delle persecuzioni!

Teresa, Pensieri 7:8

Non era masochista, Teresa, e non lo era la moglie di Enrico che – morente – gli rivelava come fosse “davvero dolce” il peso della Croce: Teresa ha descritto il progresso che si fa nell’esperienza di questo dolore salvifico soprattutto nel Castello interiore, le cui sette stanze individuano altrettanti gradi di purificazione. Scrive per esempio:

Nostro Signore mi disse: «Tu sai il patto che c’è tra me e te. Le cose stanno così: quello che è mio è tuo. Puoi quindi chiedere a mio Padre come chiedendo di cose tue proprie». E io sapevo già che noi partecipiamo alle sofferenze di Nostro Signore, ma lo compresi allora in un modo molto differente: mi sembrava di essere in possesso di un immenso appannaggio. L’amicizia con la quale il divino Maestro mi accordò questo favore fu tale che mi è impossibile esprimerla qui. Ciò che Nostro Signore ha sofferto, lo custodisco come un bene che mi appartiene. È per me un’immensa consolazione.

Teresa, Moradas R 71

Tornano tutte le parole del dialogo in TV tra Enrico e Giovanni. Sarà un caso? O davvero una sola è l’esperienza che innumerevoli cristiani, in tutti i secoli e ad ogni latitudine, fanno?

È davvero una grazia enorme che ci sia stato rivelato il Mistero che avvolge e neutralizza la sofferenza, che redime il peccato e la morte, che rende al mondo e alla vita il loro senso. Anche e soprattutto nell’ora della Croce, che non spetta a noi scegliere o determinare. Mi riecheggiano in cuore queste parole di un altro maestro di vita interiore, il caro Silvano Fausti, di cui ogni giorno mi scopro più debitore:

Allo scopo di illuminare la tua esperienza, chiediti dove portano i sentieri di un tempo, tracciati da quelli che prima di te hanno camminato verso casa.

Se rifiuti il passato, ti privi del presente e del futuro. Se vuoi conoscere senza sperimentare, sei stolto; ma se vuoi sperimentare senza confrontarti con gli altri, sei anche pazzo. Confrontati con questi suggerimenti: ti servirà a far sì che le tue scelte non siano stolte o pazze più del necessario.

Silvano Fausti, Occasione o tentazione