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«Che storia! Sei cattolico però pure simpatico!»

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Louis Charles - pubblicato il 29/07/17

È dura essere cattolici… per quanto dovremo ancora pagare le colpe di altre generazioni?

«Che storia! Sei cattolico però pure simpatico». Questa frase, pronunciata con candore, mi ha già trasverberato il cuore più volte quando, durante una conversazione del lunedì mattina sulle attività del weekend, accennavo ai miei interlocutori che ero stato alla messa domenicale.

Questa osservazione mi ha svelato da una parte l’immagine che la maggior parte dei nostri contemporanei hanno dei cattolici – cioè della Chiesa – e per estensione la diffidenza che nutrono verso tutto ciò che ne promana.

Si paga sempre per le colpe di altre generazioni. È una delle ragioni per le quali i cattolici hanno parecchie più difficoltà a testimoniare Gesù Cristo di quante ne abbiano i nostri fratelli evangelici. Quelli non devono portare il fardello del passato. Almeno in Francia, dove l’alleanza tra il manganello e l’aspersorio non è sempre scivolato via dall’inconscio collettivo.

Negli Stati Uniti, dove la Chiesa cattolica è sempre stata dalla parte dei poveri e dei migranti, la sua immagine è molto migliore, e sono i pentecostali anglosassoni che incarnano la religione “ufficiale” e alienante.

I padri hanno mangiato l’uva verde / e i denti dei figli ne sono rimasti allegati

Indipendentemente dalle debolezze che si possono rimproverare ai fedeli cattolici in sé e per sé, come la mancanza di formazione teologica e scritturista, oppure la troppo debole vita di preghiera e di intimità personale con Cristo, il fatto è che spesso è per loro difficilissimo dare la loro testimonianza, perché portano sulle spalle il peso di un passato che non passa e di cui non sono responsabili.

Abbiamo fatto tutti l’esperienza di situazioni in cui ciò che volevamo dire – la nostra fede in Gesù e la nostra gioia di essere amati e salvati da lui – non ha neppure potuto essere ascoltata dai nostri interlocutori, che si sono precipitati nelle requisitorie più o meno infiammate e più o meno informate su episodi di storia della Chiesa anteriori alla nostra nascita (l’inquisizione, le crociate, le guerre di religione…) o indipendenti dalla nostra responsabilità (i preti pedofili, i vescovi che li coprono, la corruzione in seno alla Curia, i legami tra lo Ior e la mafia eccetera).

Non c’entravamo niente e in un batter d’occhio ci siamo ritrovati allo scranno degli imputati. Ci siamo allora ritrovati a giustificare e a rendere conto di comportamenti passati che non sono stati i nostri e che noi stessi disapproviamo. La nostra presunzione d’innocenza si era istantaneamente polverizzata e ci era stato affibbiato l’onere della prova.

Il sentimento d’ingiustizia («Noi non c’entriamo!») e l’esasperazione dei “due pesi e due misure” (quando mai i nostri interlocutori riservano un simile trattamento ai musulmani?) ottengono a volte il risultato di sospingere qualcuno a voler giustificare ciò che gli viene ingiustamente rimproverato, e a sconfessare apertamente le manifestazioni ufficiali di richiesta di perdono dei papi successivi: da Giovanni Paolo II, che, alla vigilia dell’anno giubilare millenario, ha pubblicamente chiesto perdono per le colpe commesse e/o coperte dalla Chiesa durante i secoli passati; a papa Francesco, che invita i cattolici all’esame di coscienza sulla loro attitudine di fronte alle persone omosessuali e riguardo alla necessità di chiedere loro perdono quando li si avesse offesi.

«Mo’ però basta a chiedere scusa ogni giorno», sbottano alcuni. «La priorità non è quella di battersi il petto, mentre l’Islam gonfia i muscoli e i cristiani d’Oriente vengono sterminati», dicono altri.

Simili reazioni sono perfettamente comprensibili da un punto di vista umano ma, sfortunatamente, del tutto inaccettabili dal punto di vista di Cristo – quale ci è svelato nei vangeli. Altrimenti detto, è inaccettabile da un punto di vista cristiano.

Anzitutto perché Cristo stesso non ci lascia scelta:

Se dunque, quando vai a presentare la tua offerta all’altare, ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello; poi tornerai a presentare la tua offerta.

Mt 5, 23-24

Poi perché Cristo ci ha esplicitamente predetto che ci avrebbe mandati come agnelli in mezzo ai lupi (Lc 10, 3).

Senza contare che diversamente daremmo ragione a quanti pensano che i cattolici francesi non sono cambiati dai tempi dell’Affaire Dreyfus, e che ancora e sempre preferiscono un’ingiustizia a un disordine. O ancora avrebbe ragione Nicolas de Chamfort quando dice che la Francia è il Paese in cui si lasciavano in pace gli incendiari e dove si perseguitavano quelli che davano l’allarme. Una controtestimonianza garantita.

Paghiamo per le colpe di altri, ma è prima di tutto l’annuncio di Cristo che ne soffre

Resta non meno vero che il peso schiacciante della storia grava sulle spalle dei cattolici di oggi e limita fortemente le loro possibilità di testimoniare la loro fede.

È una realtà descritta in termini immaginifici da un proverbio ebraico passato nel vocabolario comune (per quanto sempre meno comune, essendo la società francese sempre più illetterata, ma questa è un’altra storia…): «I padri hanno mangiato l’uva verde / e i denti dei figli ne sono rimasti allegati» (Ez 18, 2). In altri termini, paghiamo sempre per le colpe delle generazioni precedenti.

Per evidenti ragioni di ordine cronologico, non siamo colpevoli né dell’inquisizione né delle crociate né delle guerre di religione, eppure spesso è di questo che siamo chiamati a dare conto quando i nostri interlocutori vengono a sapere che siamo cattolici.

La tentazione di barricarci e di rifiutare di chiedere perdono è forte. Domandare perdono per i propri peccati è già una sfida non da poco – lo sperimentiamo ogni volta che ci confessiamo – figuriamoci chiedere perdono per peccati che non sono i nostri!

Eppure abbiamo il dovere di confessare questi peccati che non sono i nostri, per assicurare e rassicurare i nostri interlocutori: sì, sono dei peccati e noi non ne siamo solidali – in ragione della nostra coscienza e, ancora di più, in nome della nostra affezione a Gesù Cristo.

I cristiani sono tenuti, in effetti, ad annunciare un Dio che ha accettato di pagare con la propria vita per i peccati altrui. Gesù Cristo, l’amore incarnato concepito senza peccato, non ha commesso alcun peccato e ha riscattato da Satana l’umanità che questi deteneva prigioniera, e lo ha fatto lasciandosi trattare come il peggiore dei peccatori. Egli ha pagato personalmente nel senso più stretto e più pieno del termine. Egli non era tenuto a soffrire per salvarci dalle conseguenze dei nostri peccati.

Egli era disprezzato, e noi non ne avevamo alcuna stima.
Eppure si è fatto carico delle nostre infermità,
ha preso su di sé i nostri dolori,
mentre noi lo giudicavamo castigato da Dio, percosso e umiliato.
E invece egli è stato trafitto per i nostri peccati,
è per le nostre colpe che è stato massacrato.

Is 53, 3-5

I peccati di ieri sono stati commessi dai nostri padri e noi ne paghiamo il prezzo oggi, ma è anzitutto e soprattutto l’annuncio di Cristo che ne soffre.

Se oltre a tutto questo ci mettiamo al primo posto – sia come avvocati dei nostri padri sia come vittime innocenti di rimproveri anacronistici – ci frapponiamo tra Cristo e coloro ai quali pretenderemmo di annunciarlo.

Parliamo loro di noi o dei nostri antenati, ma non più di colui che è venuto a salvare loro e noi. Questo tipo di atteggiamento distrae i nostri interlocutori dall’essenziale: la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. La buona notizia è che

Egli stesso è vittima espiatoria per i nostri peccati, e non solamente per i nostri, ma pure per quelli del mondo intero.

1Gv 2, 2

Ecco perché la reazione peggiore consiste nello spiegare che gli episodi opachi della storia dei cristiani sono «più complicati di così» e che bisogna «rimetterli nel loro contesto storico» senza giudicarli «con la nostra mentalità di oggi».

Perché? Perché a partire dal momento in cui si cerca di attenuare l’orrore della notte di san Bartolomeo e la responsabilità morale di quanti vi si abbandonarono, allora non esiste più alcuna ragione per cui i nostri interlocutori ammettano l’orrore della strage degli innocenti e ancora meno l’ignominia della morte in croce dell’Innocente per eccellenza. Quanto a questo, l’attitudine di Ponzio Pilato era perfettamente comprensibile, a fronte del contesto politico “molto delicato”. No?

Ma la cosa peggiore sarebbe ostinarsi nel rifiuto di chiedere perdono per le colpe dei nostri antenati in nome di una solidarietà del gruppo ecclesiale che non sarebbe ordinata né alla verità né alla carità Sarebbe la quintessenza del clericalismo. Il messaggio che inevitabilmente si trasmette, in quel caso, è: «Fate quello che dico, non quello che faccio», e questo erode ogni credibilità. Ora, la forza della testimonianza dipende recta via dalla credibilità dei testimoni.

Trionfalismo ieri, farisaismo oggi?

Senza contare che fin d’ora dovremmo pensare bene a dare l’esempio ai nostri discendenti col domandare perdono per i peccati dei nostri padri, così che questi, un domani, siano portati a domandare perdono per i peccati che noi avremo commesso, vale a dire… per quelli che stiamo commettendo attualmente.

Certo, la nostra tendenza non si orienta più al trionfalismo e all’intolleranza. Ma la nostra tentazione attuale non sarebbe piuttosto il farisaismo? La tentazione di voler mutilare il Vangelo per adattarlo alla nostra taglia ed evitare di ascoltare quegli appelli alla conversione che implicherebbero il rimettere in questione la nostra civiltà e il nostro stile di vita?

Penso soprattutto alla tendenza, in certe categorie socio-professionali chiamate “superiori” dai sociologi (le famose CSP+) a ridurre le esigenze del Vangelo a delle questioni di morale privata (rifiuto dell’aborto, del matrimonio omosessuale, della PMA-GPA) per meglio occultare le questioni di morale sociale.

Detto altrimenti, si marcia contro la Legge Taubira in nome della difesa della famiglia ma non contro le leggi che sistematizzano lo sfruttamento economico dei salariati e distruggono la possibilità stessa di una vita di famiglia (la legge sul lavoro domenicale, o Legge El Khomry).

In certe famiglie cattoliche è permanente la tentazione di insistere esclusivamente su questioni che non rimettono in discussione l’ordine economico e sociale di cui i loro membri sono i primi beneficiari… e i beneficiari sempre più esclusivi.

Per esempio, quando durante la riunione di famiglia zio Hubert, che lavora alla Total, spiega di rimando a una tua constatazione che l’Africa non è matura per la democrazia all’occidentale, e che i dittatori con i quali fa affari in loco sono ingiustamente vilipesi da una stampa francese accecata dal politically correct.

Allo stesso modo, quando tuo cugino Xavier, che compra e vende azioni a Londra – lavora nella finanza – spiega con entusiasmo che l’Inghilterra ha saputo rinnovare la propria crescita, contrariamente alla Francia e alle sue rigidità arcaiche (protezione sociale, sistema pensionistico, sanità pubblica…): chi ribatterà ricordandogli la dottrina sociale della Chiesa e le messe in guardia di Gesù sull’amore per il denaro?

E quale bruto dal cuore di pietra potrà opporre qualcosa alla Ségolène nazionale [Ségolène Royal, N.d.T.], Direttrice delle Risorse Umane di Saint Frusquin – fiore all’occhiello della Francia – che racconta sempre con grande pathos le sue notti bianche quando, il giorno dopo, deve annunciare a dei salariati il loro licenziamento al fine che l’impresa resti competitiva di fronte alla concorrenza internazionale e continui a fare i suoi profitti?

Confessare i peccati dei cristiani per far risaltare la santità di Dio

L’ostacolo principale all’annuncio di Cristo è, oggi come ieri, il nostro proprio peccato, e la forma che prende oggi è meno la violenza e l’intolleranza dei nostri padri che l’ipocrisia soddisfatta dei loro figli.

Noi diciamo di credere in Dio, ma in fondo rifiutiamo di credere ciò che Dio ci dice, e pertanto rifiutiamo di fare la Sua volontà. Quando invochiamo la Sua volontà, in effetti, lo facciamo per esaltare la nostra.

Inevitabilmente si arriva a formulare e a ratificare scelte esistenziali e politiche che sono radicalmente incompatibili con la volontà di Dio come ci viene svelata da Cristo nel Vangelo. Si rimpiazza il culto che si deve a Dio col culto della crescita. Eppure la conversione del cuore non è un’opzione bensì la via stretta ma unica che ci conduce a Dio e ci permette di realizzare la nostra vocazione di uomini…

L’adesione a Cristo è sempre una scelta personale, che implica di essere pronti ad accettare di entrare in una logica spirituale che non è la nostra e che innesca una metamorfosi del nostro essere (santificazione). Come tutte le scelte, ciò suppone di rinunciare a un certo numero di aspirazioni e di desideri, in particolare i più mondani.

Dio prende ciò che c’è di più piccolo per far risaltare la sua potenza. Dio fa tutto per noi ma niente senza di noi. Ci domanda di amarlo e di amare il nostro prossimo, ci chiede di preoccuparci anzitutto del Regno di Dio e della sua giustizia e ci promette che tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù.

La sola domanda che riguarda veramente noi è la seguente: stiamo decidendo di credergli – e quindi di seguirlo – o no? Non è in prima istanza una questione teorica, e neppure teologica, ma una scelta personale ed esistenziale. Ogni tentativo di aggirare questa scelta è ispirato dal principe di questo mondo.

A rischio di non fare sempre la buona scelta – cadiamo spesso e siamo chiamati a rialzarci di continuo – incombe su di noi il dovere di non contraffare la natura di questa scelta.

Perché chi è preoccupato di salvare la propria vita la perderà, ma chi perde la sua vita a causa mia la troverà.

Mt 16, 25

Cristo disarma completamente quelli che pretendono di seguirlo. Devono annunciare la pace e seguire un Dio che prende in contropiede le loro pretese evidenze… e talvolta anche i loro immediati interessi categoria. Il Dio che ci annunciamo e nel quale abbiamo posto la nostra speranza è un Dio talmente buono che ha accettato di pagare per i nostri peccati, ed è lui che siamo invitati a seguire.

Certamente la nostra fedeltà a Cristo è sempre parziale e non è mai acquisita una volta per tutte. La conversione del nostro cuore è un’attività a tempo pieno nella misura in cui siamo permanentemente sottomessi alla forza di attrazione terrestre del Principe di questo mondo, e la lotta per sganciarsi definitivamente dalla sua orbita non avrà fine che all’ultimo secondo della nostra ultima ora. Quando si cerca di convertire a Cristo il proprio cuore, la propria volontà e il proprio spirito, si scopre cosa sia il moto perpetuo.

Ma per renderne testimonianza bisogna ammetterlo e tenerne conto concretamente. Ciò suppone – tra l’altro – il confessare i peccati dei cristiani per rivelare la santità di Dio e così aprire un orizzonte a quelli cui ci indirizziamo.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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